“Il Benfica, senza di me, non vincerà mai più una Coppa dei Campioni.” (Béla Guttman) Le profezie sono un’arte antica e non più compresa dagli uomini. Forse rimane ancora qualcosa di profetico nell’arte, là dove per “profezia” non s’intende sapere se e quando in un determinato punto del globo cadrà una bomba, ma è comprendere e capire che tra più di un secolo un uomo guarderà un quadro o un’opera d’arte e proverà le stesse cose che proviamo noi oggi, perché tocca una corda comune propria di tutta l’umanità, perché l’umanità è eterna là dove il seme ne germoglia. E a volte anche un piccolo uomo è eterno. A volte può nascere ad Atlanta, a Porbandar o a Nizza. A volte può nascere il 27 Gennaio del 1899, a Budapest, e chiamarsi Béla Guttmann. Già qui iniziano i primi problemi, perché non si capisce bene se questa data di nascita sia vera oppure no, diciamo che è la più probabile. Il luogo almeno è certo, cresce nella grande comunità ebraica di Pest e frequenta la grande sinagoga di Budapest. Gioca a calcio e ne farà la sua professione andando a giocare in Austria e in America. Sono i ruggenti anni venti, il benessere scorre a fiumi come anche l’alcol illegale, la mafia è un verme che striscia sotto la pelle di New York e Béla è attratto da Wall Street. Gioca in borsa e le cose gli vanno anche bene ma nel 1929 le speculazioni economiche sono ormai incontrollabili e la bolla scoppia: è il crollo della borsa di Wall Street e l’Ebreo Errante perde 55.000 $. Sembra la fine. Si rialza e ricomincia a lavorare, il calcio non lo ha mai abbandonato. Allena in Austria e si profila all’orizzonte il nazismo. I primi anni ’40 sono avvolti nell’oblìo, c’è chi dice che lui e Egri Erbstein (che allenò il grande Torino e morì anche lui sulla collina di Superga) saltarono insieme giù dallo stesso treno diretto ad Auschwitz; si dice che si nascose a Parigi, o in Svizzera; gli austriaci sono sicuri che si sia nascosto in Brasile perché dopo la guerra aveva imparato il portoghese; a Sao Paolo, dove lo hanno avuto, smentiscono. E poi la diaspora, dopo aver allenato il Kispest, ovvero la squadra che verrà poi denominata Honvéd, i litigi con Puskàs, l’esilio dallo spogliatoio, l’esilio dalla Squadra d’oro. E allora ecco la Triestina, l’Apoel, il Milan, il breve ritorno alla Honvéd, il San Paolo, il Porto… ovunque portando il verbo del calcio danubiano, cambiando persone e storie, ponendo le basi de “o càlice”, il 4-2-4 del Grande Brasile di Pelè, Didì, Vavà e Garrincha a Svezia ’58. E poi il Benfica, la terra promessa lasciata nella maniera più amara, due Coppe dei Campioni e un vaticinio, un anatema lungo un'eternità e un dolore ancora troppo forte da poter sopportare, perché è ciclico e si ripresenta ad ogni maledetta finale. Il Benfica non è una squadra come le altre in Portogallo, non lo era all’epoca di Eusebio e non lo è neanche ai tempi nostri. Il Benfica è una mìstica, è il naturale approdo di chi il calcio l’ha pensato e immaginato fatto di un’altra pelle, di un cuoio ben più lucido e splendente nonostante il fango. “Piove? Fa freddo? Fa caldo? Che importa? Anche se la partita fosse durante la fine del Mondo, tra le nevi del monte o in mezzo alle fiamme dell'inferno, per terra, per mare o per aria, loro, i tifosi del Benfica, vanno lì, appresso alla loro squadra. Grande, incomparabile, straordinaria massa associativa!” È l’umanità tutta chiamata a raccolta da chi il calcio l’ha sempre inteso non come un semplice gioco, ma come tendini e ossa e muscoli di un’animalità intrinseca che è immortale, perché è umana. Per dirla con Borges, essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte. Il calcio ignora la morte. E allora di fronte all’eternità, che è indifferenza del particolare e ruota dentata, che è una sfera di cuoio, anche la vita e le opere di Béla Guttmann perdono di significato e acquistano tutto il significato del mondo. Come Cornelio Agrippa e come Cirano, ogni uomo è dio, è eroe, è filosofo, è demonio ed è mondo, il che è un modo complicato per dire che non è. Ma niente di tutto ciò è una sentenza. È una profezia, è il pallone assunto a stato dell’arte, l’inevitabile dipanarsi di una necessità. Parafrasando sempre Borges: dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile non è che nasca Béla Guttmann, ma che Béla Guttmann non sia nato almeno una volta. La profezia rimane là, monito imperituro. Quando il Benfica nel 1990 giocò la finale di Coppa dei Campioni al Prater di Vienna contro un Grande Milan, Eusebio e i giocatori tutti andarono a pregare alla tomba di Guttman, per indurlo a compassione. Il calcio ignora la morte, e come tutte le cose che respirano l’eternità non conosce la compassione. L’Ebreo Errante ne è stato uno dei figli prediletti.