“Ma perché ti interesserebbe andare in America, cosa speri di trovarci?”.
Quando, nel 1988, appena diciottenne in procinto di affrontare la maturità, mi sentii rivolgere questa domanda, ammetto che mi trovai spiazzato. “Come”, pensai: “questa qua mi chiede perché vorrei andare a fare una vacanza studio di 2 mesi in America?” “Ma dove vive?”. Si trattava di uno dei tanti colloqui a cui, io ed altri, eravamo in quei giorni sottoposti. La Regione Basilicata aveva indetto un concorso per i più promettenti maturandi. Premio per i vincitori: un soggiorno negli USA. Non meglio specificato, ma tanto bastava ad ognuno di noi. Non penso che se il soggiorno fosse risultato nell’Iowa, piuttosto che in California, questo avrebbe comportato per noi la minima differenza.
Insomma, dopo aver affrontato tante prove, con discreto successo, mi toccava ora anche rispondere a domande che per me, con la testa di allora, sembravano assurde. Sullo stesso piano di domande del tipo: “perché ti piacerebbe essere ricco, anziché povero?”. Ecco, domande assurde così.
Se avessi avuto allora conoscenza del mondo (e di chi lo popola) come l’ho adesso, probabilmente avrei subito riconosciuto la tipologia di persona che mi si parava davanti. Soprattutto, avrei saputo cogliere, tra le pieghe di quella domanda, la sia pur contenuta, ma comunque evidente contrarietà a quei soggiorni premio nell’odiata America. Io invece, ingenuamente, senza nemmeno quel minimo di prudenza che avrei dovuto in ogni caso adottare nei confronti di una domanda di cui non capivo il significato, risposi qualcosa del tipo: “perché l’America è la culla del progresso”. Forse (non ricordo bene) mi spinsi talmente in là da fare l’errore madornale di associare gli States addirittura a concetti come quello di democrazia, libertà, forse persino di civiltà.
La professoressa che mi stava esaminando non riuscì a tenersi. Ad un certo punto gettò la maschera di fredda equanime esaminatrice per mostrare le sue vere sembianze di veterocomunista, seguace delle teorie di Cervetto, e militante di uno di quei collettivi leninisti che provai per curiosità a frequentare un anno più tardi, fresca matricola di ingegneria del Politecnico di Torino.
Ammutolito da cotanta veemente reazione, dovetti sorbirmi, mortificato, una sfuriata che ai miei occhi appariva inspiegabile, se non nei contenuti quanto meno nei toni. America colonialista del ventesimo secolo, fautrice di un mondo basato sulle diseguaglianze, sceriffo del pianeta, popolata in buona percentuale, e soprattutto in certi stati, da razzisti e via così.
Inutile dire che il soggiorno non lo vinsi. Ma forse era giusto così: troppo ingenuo, e troppo ignorante da non sapere, già allora, che associare gli USA al progresso tecnico scientifico, è un conto. Associarlo a concetti come democrazia, o peggio, come civiltà, era come decidere scientemente di andare a farsi una camminata in una di quelle risaie disseminate di mine in Birmania, descritte con fin troppa dovizia di dettagli nella pellicola di denuncia “The Last Blood”, prodotta e interpretata da un Sylvester Stallone in vena di riscatto.

Troppo ignorante. E di un’ignoranza talmente profonda da non ammettere la minima consapevolezza di sé. Tengo però a spiegare meglio cosa intendo dire, quando parlo di me da giovane in questo modo. Mi preme farlo perché i fraintendimenti a cui questa mia frase si presta sono di portata colossale. Quando parlo di me a quell’età definendomi ignorante, non lo faccio affatto con la convinzione di essermene oggi completamente affrancato. No! Certo che no! So bene di essere ancora adesso ignorante; e constatare a volte che altri lo siano in qualche campo, in alcune occasioni, più di me, non mi consola né mi esime dal sentirne comunque il peso e il desiderio di “rimediare”.
Potrà anche far tenerezza ad alcuni, o potrà generare disappunto in altri, ma confesso che in quel momento sentire descrivere gli USA in modo così negativo, mi causò tutto un valzer di pensieri che andavano dalla mortificazione di aver suscitato una reazione così forte ed inaspettata, alla constatazione che, effettivamente, alcune delle ragioni di risentimento che mi venivano contestate non fossero del tutto sballate. A questi, però, si aggiungevano tutta un’altra serie di pensieri e sensazioni più o meno razionali di ribellione a quelle parole, derivanti (lo dico col senno di adesso) da una mentalità manichea che vedeva l’America come il bene e i suoi avversari e detrattori come il male.

“Ricordati sempre che gli americani ci hanno liberati dal fascismo!”. Questo quello che mi era stato ripetuto decine di migliaia di volte da mia madre, fin dalla mia nascita. Qualsiasi fosse l’accusa che veniva di volta in volta mossa agli Stati Uniti, mia madre, prima di entrare (molto superficialmente) nel merito della discussione, non mancava mai di ricordarmi, col suo monito, quanto fosse grande il nostro dovere di gratitudine, e quindi di accondiscendenza nel valutare eventuali atti o accuse che le venivano mosse.
Mia madre, nel corso della seconda guerra mondiale viveva a Terni, dove erano presenti acciaierie tra le più importanti d’Europa. Per questo motivo essa era stata oggetto di bombardamenti di tale violenza da causare danni ingentissimi agli edifici, e, non da meno, un gran numero di morti; tra cui la mia stessa nonna materna. E non deve stupirci se la maggior parte dei bombardamenti furono ad opera degli stessi alleati Anglo-Americani, impegnati, in quel periodo storico, a determinare la cacciata dell’esercito tedesco.
I casi Ustica, Cermis, Abu Omar, Gladio, le stragi cosiddette di matrice di destra come quella alla stazione di Bologna, con il loro sostanziale nulla di fatto, stanno lì, esattamente a ricordare che questo debito di riconoscenza (al di là dell’appartenenza alla Nato) c’è stato, e tuttora sussiste.
A determinare in modo chiaro e definitivo dove ricercare il bene e dove invece il male ci hanno poi pensato gli studios di Hollywood. Ad una sconfinata produzione di pellicole sulla II guerra mondiale, dove la parte del cattivo era ovviamente tutta tedesca o giapponese, è poi seguìto un lungo intermezzo di commedie scoppiettanti che, per quanto qualitativamente pregevoli, tutti lo pensano e nessuno lo dice: hanno anche rappresentato, va detto, uno straordinario spot per il consumo smodato di superalcolici e sigarette. Da "La gatta sul tetto che scotta", a "Colazione da Tiffany", da "Vacanze romane" al "A qualcuno piace caldo" con l'indimenticabile scena finale in cui Tony Curtis, vestito da donna, esasperato dalle insistenze del suo corteggiatore, per indurlo a desistere, decide di gettare la maschera e confessare di essere un uomo, sentendosi rispondere la conosciutissima battuta: "nessuno è perfetto!".
Oggi, quando c’è bisogno di scomodare un’organizzazione criminale a cui affidare il ruolo di cattiva, non ci sono dubbi, a bere (vodka) e a fumare (papirose) ci saranno i componenti di una qualche organizzazione criminale russa. A controbatterla affinché il bene trionfi, un gruppo di “salutisti” che per par condicio solitamente ha tra i suoi componenti: un cinese (quasi sempre il primo a morire, probabilmente perché in un gruppo di 5 o 6 “buoni”, la percentuale di cinesi, (che possiamo ipotizzare non essere maggiore del 10%) non raggiunge l’unità; almeno due o più afroamericani, di cui uno spesso è l’esperto di reti e di telecomunicazioni e l’altro è spesso il capo, uno coi capelli biondi-rossicci che potrebbe essere tranquillamente un irlandese o comunque un figlio della terra di Albione, un ispanico che difficilmente occupa un ruolo decisionale, ma che spesso è uno degli ultimi a morire.
Una cosa sola è certa: alla fine, nella final fight rimarranno il capo dei russi cattivi e il capo dei buoni. E quest’ultimo vincerà lo scontro finale ESATTAMENTE NEL SEGUENTE MODO: Il buono avrà messo fuori combattimento il cattivo nel pieno rispetto delle regole, e cioè usando un temperino, se il cattivo ha un temperino, un coltello se il cattivo ha un coltello, una spada se il cattivo ha una spada, ma soprattutto a mani nude, se il cattivo è rimasto senza né temperino né coltello né spada. ll buono lo costringerà ad arrendersi.
Il cattivo, una volta a terra, cavallerescamente non verrà più colpito dal buono, il quale si accontenterà di un cenno di sconfitta da parte del cattivo. Il buono avrebbe la possibilità di uccidere il cattivo, ma non lo fa, confidando nella lealtà che, perfino nel profondo dell'animo di un supercattivone dovrà pure, in qualche piega nascosta, da qualche parte, albergare. Il messaggio è chiaro: persino un russo, esposto ad un clima di fiducia, tira fuori il meglio di sé. Questa è la speranza.
Peccato che il Russo o comunque il cattivo, puntualmente tradisca, più e più volte, la fiducia che gli viene concessa. Non c’è verso, voltatigli le spalle, il cattivo si riprende e tenta di uccidere il buono, il quale, ad un certo punto, per non morire, è costretto dalle circostanze a fare qualcosa (che lui non vorrebbe mai fare, beninteso!) che determina la morte del cattivo (ad esempio salta fuori dalla vettura un istante prima che finisca in un precipizio, mentre il cattivo non riesce ad essere altrettanto bravo nel mettersi in salvo). Insomma, il cattivo DEVE morire, e a questo punto, non è più solo una questione di giustizia e di fiducia concessa invano al reo troppe volte affinché si penta e si converta al buonismo, ma soprattutto, molto più terra terra, perché fintanto che il cattivo è vivo il film non può finire. E la pellicola, o meglio, i TB costano.

Dopo questa digressione su come muore un cattivo in un film di Hollywood, sarebbe il caso di parlare ora dell’esperienza che ognuno di noi si è fatto in merito al popolo americano. Ma è lecito farlo così? Intendo, sulla base del solo percepito, o sulla base di un numero ristrettissimo di esperienze nostre e di nostri amici, per capire come inquadrare questo popolo all’apparenza così controverso?
Ovviamente no! E, sia ben chiaro: io detesto, io aborro (come direbbe Mughini) con tutte le mie forze quel tipo di stupidi a cui tu cerchi invano di spiegare che uno studio serissimo, compiuto isolando una popolazione di un milione di persone, un campione significativissimo, scelto per essere massimamente rappresentativa di una certa data categoria di persone, rivela una serie di risultati, magari anche attesi, ma di cui era necessario determinarne la pienissima certezza, e lui, questo idiota calzato e vestito di tutto punto, ribatte pronunciando la tipica frase che, dal mio punto di vista già varrebbe non solo l’interdizione per sempre da un qualsiasi pubblico ufficio, ma anche l’azzeramento di ogni titolo di studi, per aver pronunciato una simile bestialità.
In altri termini, per uno che dice quello che sto per dire, non dovrebbe bastare l’impossibilità di svolgere ruoli rilevanti nel consesso umano nei secoli dei secoli, ma dovrebbe essere ripristinata ed applicata apposta per queste persone più che la pena capitale la riduzione in schiavitù.
La frase che l’idiota non dovrebbe mai pronunciare, almeno, non in mia presenza è: “vallo a dire al padre del tizio che è stato ucciso”, oppure: “vallo a dire al bambino, che ha perso la madre”, oppure: “vallo a dire alla nuora che ha perso la suo…”. Insomma, è ovvio che, persino in una statistica così significativa, possano esistere delle eccezioni. Ma è palesemente scorretto non tenere queste eccezioni ben fuori dai nostri ragionamenti. Come se il fatto di conoscerle di persona le renda più “vere” e debbano per questo motivo pesare di più. Per uno studioso serio un solo elemento non può, né mai potrà, condizionare il risultato ottenuto utilizzando tutti e soli gli strumenti che la statistica ci mette a disposizione.
Il problema, con l’America, è che il popolo americano, semplicemente, non esiste.
Mi spiego meglio: quando parte l’inno, quando la bandiera a stelle e strisce si staglia a difesa e in rappresentanza degli United States: tutti in piedi, pancia in dentro e petto in fuori. Ma volete voi, di grazia, spiegarmi questa bandiera, questo inno, quale America rappresenta, quale America difende?
Volete dirmi, per favore, cosa hanno in comune John Wayne e Woody Allen? Cosa hanno in comune la Silicon Valley, fucina di talenti e di innovazione, con Las Vegas, dove l’unica innovazione che interessa è quella che impedisce alle fiches di essere contraffatte?
D’accordo il sogno americano, d’accordo la scala sociale e la possibilità di percorrerla in entrambi i sensi, ma siamo davvero anche d’accordo nel valutare e giudicare quanto vale una persona da quanto è costosa la propria auto, o da quante camere ha la sua casa?
D’accordo tutto, ma se lasci la gente moribonda per strada se non beneficia della copertura sanitaria, si può sapere quali principi di civiltà difende la tua stramba bandiera? Cosa puoi avere da insegnarci sui temi della civiltà dei popoli, se in certi stati la difesa personale (e maliziosamente, aggiungerei anche l’offesa personale), è praticamente e tristemente tutta delegata all’iniziativa personale, data l’enorme diffusione e l’enorme dimestichezza dimostrate nell’utilizzo delle armi?
Più in generale, parlando del tema inquinamento, si può sapere come si fa ad essere pieni zeppi di energia, e non solo quella dei pozzi texani (ritenuti riserva strategica, e quindi quasi inutilizzati), ma anche quella gentilmente offerta sottocosto dalle nazioni “protette”, ed essere tra le nazioni che fanno meno di tutte per ridurre l’inquinamento?

Ebbene, signori cari, saremo (noi Italiani, intendo) anche pieni di difetti, ma, per favore, non permettiamo a nessuno di sbatterceli in faccia. Soprattutto da chi, nei comportamenti e nei princìpi, meglio di noi non è e non ha nemmeno voglia di apparire.
Sempre in lite tra noi, sempre a contare la seconda cifra decimale per capire chi ha vinto le politiche, col nostro bicameralismo-perfetto, che farà anche rima con immobilismo perfetto, ma a giudicare da cosa hanno saputo fare i nostri “protettori” anglofoni in casa loro, approfittando del loro “Maggior Mobilismo”, e cioè, di essere incredibilmente in grado, come popolo di eleggere e farsi rappresentare per 4 anni da un personaggio che sembrava uscito dalla saga di Scemo e Più scemo.
Che fine ha fatto tutta quella parte di America, la più ricca e la più “civile” che ha provato per qualche settimana ad opporsi all’idea di avere come presidente né più né meno di un bullo?
Direi che non sarebbe fuori luogo affermare che siamo proprio noi; quelli verso cui siamo sempre ipercritici, quelli che col nostro smisurato ed inguaribile complesso di inferiorità hanno la migliore costituzione del pianeta, e invece di adorarla come un feticcio, la disprezzano.

In fin dei conti, la professoressa che voleva sapere da me, perché ero così interessato a passare un po’ di tempo in America, aggredendomi aveva mostrato i suoi limiti di carattere, e anche di cultura, ma devo comunque ringraziarla, perché ha rappresentato per me un’occasione, forse la prima così importante, di mettere in discussione, senza paura di essere incoerente, le mie convinzioni, le quali (ed è questa la lezione più importante) non potevano allora, non possono oggi e non potranno mai che essere in continua evoluzione, così come lo siamo costantemente noi, così come lo è la realtà.