Inter, Juventus e Milan, una volta il polmone italiano della nazionale dello stivale, oggi costrette a fare dei loro talenti prodotti dalle giovanili l’agnello da sacrificare sull’altare delle plusvalenze per mettere i conti in ordine e far quadrare i bilanci. Un’Italia intera invece che deve salutare Cutrone, Kean (non Pinamonti trasferitosi a Genova sponda rossoblù), uno stivale diviso dai colori del tifo ma unito sempre da un azzurro che negli ultimi anni stenta moltissimo, anche (ed ancora) nel settore giovanile come dimostrato pure dall’ultima disfatta casalinga dell’europeo Under 21. Un sacrificio che sarebbe anche ben accettato dai tifosi se le cifre che hanno portato questi calciatori lontano dai team in cui sono nati e cresciuti fossero di un certo livello.

I numeri invece ci dicono ben altro: meno di venti i milioni spesi per portar via ciascuno dei ragazzi delle milanesi, quasi trenta per Moise, comunque meno del suo reale valore. Cifre basse o comunque non da capogiro, ma un numerino in bilancio “pulito” a cui non deve andare a sottrarsi alcun costo di acquisto precedente.  Il calcio oggi non è più solo sport e divertimento ma anche (a tratti soprattutto) business ed impresa, pertanto ci sogniamo di giudicare tali scelte dal punto di vista economico, anche se mettere a bilancio dei proventi simili per poi spendere cifre addirittura doppie (si veda Leao) per portare nei propri club giocatori coetanei degli italiani sopra citati, ma di provenienza straniera e che non vantano neppure esperienze calcistiche superiori ai partenti, non ci pare una scelta del tutto ponderata. Tutto ciò senza considerare il fatto che mentre gli elementi ceduti sono solitamente già ben inseriti sia nel contesto calcistico che nelle realtà delle rispettive città italiane, i nuovi dovranno ambientarsi ad un calcio diverso (quello italiano sottolineiamo) ed una nazione che di solito non hanno mai vissuto, per non parlare di quella “saudade” tipica dei popoli portoghesi e brasiliani che in Italia sembra attecchire particolarmente bene sin dai tempi di Oronzo Canà, ma che ritroviamo ancora oggi senza troppi sforzi di memoria (qualcuno ha detto Andrè Silva e Gabigol?).

Non dovremmo essere cinici, ma sappiamo benissimo che il cuore non guida più tali scelte di mercato e non lo fanno neppure le motivazioni calcistiche appena citate: i costi dei cartellini dei calciatori in ingresso vengono ammortizzati negli anni, i soldi delle cessioni invece solitamente vanno subito e per intero a bilancio con i loro bei sei zeri campeggianti nero su bianco. Anche le grandi squadre nostrane rinunciano quindi a "mangiare" italiano ormai perché troppo costoso, preferendo talvolta un cibo “fast” che appare subito già pronto al calcio moderno ma che spesso si rivela deludente ed infruttuoso, o che comunque non vale la cessione dei nostri giovani talenti. Con la delusione cocente dei tifosi spesso accompagnata da quella dei calciatori, rilegati a squadre inferiori ma ben disposte a pagare per avere i servigi di giovane promesse; ecco le promesse, quelle che i club italiani dovrebbero imparare a mantenere, quando dichiarano amore ai loro astri nascenti, ma che devono essere preservati soprattutto in quanto “promesse”, ossia talenti preziosi per il nostro calcio italiano e soprattutto per una nazionale che da sempre sceglie i suoi migliori rappresentanti tra le fila delle società nostrane per esprimere un concetto di calcio guidato da allenatori che lo esportano nel mondo.

Come faranno gli azzurri del domani a realizzare ciò che viene ribadito puntualmente ogni domenica nei campi di Serie A e non nella Premier o nella Bundesliga, giocando insieme poi con compagni di nazionale che invece per la maggior parte continuano a militare nelle leghe nazionali italiane? O come sarà possibile per i giovani italiani affrontare competizioni quali i mondiali, militando tutt’al più in squadre di metà classifica mentre i pari età spagnoli o tedeschi avranno già sulle spalle decine di presenze in altre competizioni di rilievo quali la Champions League?
La responsabilità del futuro resta ancora una volta nelle mani del presente che in merito non sembra roseo e nemmeno molto “azzurro”.