Per il Duce, eia eia!
Ala là, la risposta, alzando il braccio destro a più riprese.
Rompete le righe.
A noi!

Questo il rituale giornaliero, al rientro serale delle colonie, davanti alla Casa del Fascio. Dopodiché un fuggi fuggi di ragazzi verso la propria casa. Lo stesso rituale si ripeteva, al raduno, la mattina seguente sempre davanti alla Casa del Fascio, dopo l'appello. La partecipazione dei ragazzi era totale. Vestiti di bianco con il berrettino di tela e una grande "M" nera sul petto della maglietta. La M stava per Mussolini. A tracolla una busta di stoffa, sempre bianca, tipo cartella, con all'interno un asciugamano, del sapone e il "ricambio" da indossare una volta giunti in colonia.
La partenza era alle ore otto.
Tutti incolonnati, i maschi divisi dalle femmine. Le squadre erano formate in base all'età ed erano comandate da vigilatrici, signorine vestite di un camice bianco che, per la prima volta, veniva osservato con diffidenza. Si pensava fossero infermiere capaci di infliggere a tradimento una puntura, che inorridiva chiunque. Invece erano una specie di maestre e la lezione consisteva nel fare ginnastica all'aria aperta, marce, canti e giochi collettivi.
Ogni squadra aveva in testa il proprio gagliardetto!
Aprivano i Figli della Lupa; i Balilla precedevano i Moschettieri, a seguire le Piccole Italiane. Assenti gli Avanguardisti in quanto grandi. Il corteo era preceduto dal tamburo che scandiva il passo di marcia.
Si attraversava il paese cantando "Faccetta nera".
Il canto era intervallato dal rullare del tamburo. I gagliardetti erano tenuti in segno di parata. Una volta lasciato alle spalle il tetto natìo, c'era un generale rilassamento. L'ufficialità era finita. Nessuno più andava a passo di marcia: i gagliardetti sulle spalle, il tamburo in silenzio e il coro "muto". Le signorine lo permettevano in quanto la strada da percorrere era lunga e le colonie molto lontane. In marcia venivano costeggiati i campi, in fondo al giardino del Priore un cartello indicatore - PER LE COLONIE - era appeso in bella vista all'albero di un melo.
Tutti i giorni la solita storia.
Prima del cartello indicatore, la "piccola truppa" era già munita di sassi. L'albero era carico e la dicitura "per le colonie" autorizzava a prenderlo a sassate e provocare, così, la caduta delle mele. Incuranti degli avvertimenti e delle minacciate punizioni. Dopo la casa del contadino, un piccolo riposino all'ombra degli alberi delle "more" per ricominciare poi a cantare: era il segnale di arrivo. Le donne in servizio avrebbero cominciato a bollire il latte per la colazione. Le inservienti, tutte del paese, erano brave e materne.
L'ingresso alle colonie si presentava con un'arcata trionfale in legno. Ai lati le garitte ospitavano i moschettieri che a turno si alternavano alla guardia. Indossavano l'uniforme ufficiale: camicia nera, pantaloni grigioverdi, giberne di pelle bianca con cinturone, il fucile con la baionetta in canna.
Sull'arcata in legno, a caratteri cubitali, fra due Fasci Littori, la dicitura "COLONIE ELIOTERAPICHE". Nome pomposo e di difficile comprensione. Solo molto, ma molto più tardi i ragazzini avrebbero capito il significato di quella parola: luogo di villeggiatura e cura del corpo mediante la sua esposizione al sole. 
La colonia, nel suo complesso, era razionale e ben organizzata. L'ingresso leggermente in salita. In cima un ampio spazio, ben curato e visibile. All'interno la famosa scritta "Credere, Obbedire e Combattere", riprodotta la firma di Benito Mussolini.
Questo era il benvenuto.
Attorno a questo riquadro, al centro delle varie strutture, era convocata l'adunata ogniqualvolta arrivava in visita un gerarca fascista locale o provinciale. L'adunata era convocata con squilli di tromba. Sempre con squilli di tromba era annunciato il pranzo, così come il silenzio.
Le strutture erano in muratura. Sulla destra, lo spogliatoio, l'ambulatorio, l'ufficio della Direttrice e due capannoni, uno per i maschi e l'altro per le femmine, adibiti al riposino pomeridiano. Invece, sulla sinistra, il capannone con la cucina, i due refettori e, sottostanti, le docce con i relativi lavandini. Due gabinetti in muratura erano sistemati all'interno del bosco.
Unico grande problema era costituito dall'acqua potabile, che era inesistente. Non c'era un pozzo artesiano. L'acqua piovana, raccolta nelle cisterne, serviva per i lavandini. La potabile era trasportata dal paese con grosse damigiane, sopra un carretto trainato da un ciuco.

Ritorniamo all'arrivo dei ragazzi.
Il primo atto ufficiale, l'alzabandiera che prevedeva la colazione del mattino. Immobili sull'attenti intorno al pennone che si trovava in uno spiazzato in alto rispetto alle colonie. Un rullo di tamburo, uno squillo di tromba e la bandiera tricolore con lo stemma sabaudo era già in alto sventolante. Vi sarebbe rimasta fino a sera.
Subito dopo il caffellatte: una ciotola con una fetta di pane già spalmata di marmellata. La giornata tipo prevedeva il pranzo per le ore dodici, la merenda per le sedici, l'ammainabandiera, il rientro in paese con il solito rituale di chiusura, ma anche i soprusi dei più grandi, il sonno obbligatorio del dopo pranzo e per qualcuno la violenza di una rapatura a zero: così non ci sarebbe stato il problema dei pidocchi.
Una volta la settimana, di mattina, il bagno nel fiume. L'ora del bagno doveva essere la più eccitante. Si trasformava in un incubo. Tutti distesi sui ciottoli roventi, prima bocconi e poi supini; un colpo di fischietto era il segnale del bagno. Poteva essere un divertimento anche per chi non sapeva nuotare; invece i più grandi si gettavano sui più piccoli per bere a forza trascinandoli sott'acqua.
Il rientro per il pranzo, dopo una lunga marcia sotto il sole, rendeva affamati come lupi. Sulla tavola si trovava già pronta la frutta: una susina o una pera o una mela. La minestra o la pasta era servita nei piatti di stagno. Il pane, una fetta, era dato, come pure l'acqua, nella misura di tre bicchieri a pasto. Per secondo un po' di carne e tante patate lesse. Però nessuno lasciava niente. Alla fine i piatti di stagno risultavano d'argento.
Dopo la prima settimana si pensava già alla preparazione della cerimonia di chiusura, presenti le autorità e la popolazione invitata. C'era da preparare il saggio di ginnastica, le marcette da cantare e la rappresentazione teatrale.
La recita nella commedia "Per la Patria" era un inno alla guerra vittoriosa. Nessuno comprendeva se quel finale fosse buono o cattivo, se non alla fine, quando le vigilatrici dettero per prime il segnale dell'applauso, gridando: "Viva l'Italia!"
Tanta gente sarebbe andata ancora a morire.

L'infanzia è un'età stupenda. Eppure, quando la si vive, sembra nulla. Solo da grandi si capisce che nelle pieghe di quei giorni sbocciano emozioni e turbamenti che lasciano il segno.
Se vogliamo insegnare la vera pace in questo mondo, e se vogliamo portare avanti una vera guerra contro la guerra, dovremo iniziare con i piccoli. Un domani, una volta adulti, ricordiamoci e tramandiamo ai nostri figli che la neve è bianca per ogni bambino.