È il 6 maggio del 2015, siamo a Barcellona ed è l’andata delle semifinali di Champions League. A fronteggiarsi sono due "big" del calcio europeo, la storia mette in campo ben 9 coppe dalle grandi orecchie, 4 per i catalani e 5 per i bavaresi del Bayern Monaco. Quella partita è una gara teoricamente equilibrata, entrambe le squadre sono tecnicamente attrezzate per la conquista della finale. Nella testa di tutti, le statistiche sono distribuite in modo perfettamente equo, visto il livello di entrambe le rose. Tutti tranne uno, tutti tranne l'unico uomo che conosce alla perfezione le caratteristiche tecniche, fisiche e soprattutto psicologiche di entrambe le rose. Quell’uomo è Pep Guardiola, allenatore del Bayern Monaco a cui sicuramente farà strano sedere nel "banco de los visitantes" a casa sua, nel suo Camp Nou. Guardiola sa bene che non sarà un match ad armi pari, poiché a fare la differenza nelle grandi battaglie sono le armi e il Barcellona come arma letale ha a disposizione quel ragazzo poco più alto di 1.70 di nome Leo Messi, che fa tutta la differenza del mondo.

Il più grande stratega della storia del calcio, in cuor suo, sa bene che neanche la preparazione tattica più accurata e minuziosa di questo mondo, sarebbe in grado di soffocare il talento della pulce rosarina. Perché? Semplicemente perché lui non appartiene a questo mondo. Anche se quella sera molti dei soldati a disposizione della truppa di Pep lo avevano già fermato. Sì, perché neanche un anno prima molti dei giocatori tedeschi di quel Bayern hanno alzato la coppa del mondo proprio davanti gli occhi lucidi di Messi, che aveva provato a trascinare da solo la sua amata Argentina. Provocandogli probabilmente la più grande ferita calcistica del Diez. La coppa venne alzata sotto le luci di un inerme e malinconico Maracanà, emblema dell'anima Carioca, messo alle strette, costretto a decidere se consegnare la coppa agli acerrimi nemici di sempre, gli argentini, oppure agli assassini (sportivi) che hanno ucciso il Brasile a sangue freddo, senza alcuna pietà, sferrando 7 colpi violentissimi, uno più doloroso dell’altro. Il calcio verdeoro aveva già sofferto abbastanza, non poteva sopportare una vittoria degli odiati vicini proprio nel prato di casa loro. Così il Dio del calcio decise di incoronare la Germania come regina del mondo.

Se in quell'occasione il dio del calcio aveva deciso di schierarsi dalla parte dei tedeschi, un anno dopo, quasi come se volesse scusarsi, decise di conferire pieni poteri al suo erede più puro. Quella sera il sinistro di Messi aveva già trafitto Manuel Neuer con un bel tiro dalla distanza. Ma quella sera il Dio del calcio doveva "scusarsi" con l'Argentina. Con la quale vanta un legame così intenso. Perché se la madre del Calcio è l'Inghilterra che lo ha messo al mondo, la sposa del Fùtbol, la sua amante più focosa, è sicuramente l'Argentina. Un amore unico al mondo, caratterizzato dalla passione di un popolo così "caliente" e dalla cura e della delicatezza dei suoi interpreti. Da questa splendida unione sono nati due figli. Il primogenito è già stato mandato e si chiama Diego. Il secondogenito si chiama Lionel e di dimostrazioni che servono a dire di poter appartenere alla stirpe ne ha già date tante. E così quella sera diede l’ennesima conferma di strameritare quel posto privilegiato.

Guardiola cominciava ad avere una fievole speranza che forse, il suo gioiello, il suo diamante grezzo con il quale ebbe tanta cura, tanto da modellarlo con raffinatezza e renderlo il più luminoso di tutti, forse, l'avrebbe finita lì. Ma in realtà sapeva che il colpo di grazia stava per arrivare, non era questione di "se", ma di "quando". Avendo ricevuto pieni poteri dal suo "papà spirituale", quella sera Messi decise di modellare il tempo a suo piacimento e convenienza. Gli arriva una palla meravigliosa, innescata dagli educati piedi croati di Rakitic, la stoppa e decide di fermare il tempo e congelare il povero Boateng sul posto. Il gigante tedesco, uno dei centrali più esperti del panorama mondiale, il fresco campione del mondo, colui che l'aveva marcato al Maracanà, con un movimento goffo cade a terra. Dalla caduta ne scaturisce un rumore sordo, che tecnicamente nessuno ha mai sentito, ma in realtà ce l'abbiamo tutti chiaro e nitido nella nostra testa.

Messi come se fosse un giocattolo decide di velocizzare il tempo e ritrovarsi a tu per tu davanti a Neuer. La conduzione della palla che lo ha portato fin lì è composta da passi piccoli e veloci, sembra quasi che lo scarpino sinistro e la palla siano ricoperti di un velcro che gli permette di tenere il cuoio incollato al piede. Qui il nostro protagonista decide di arrestare nuovamente il tempo, ipnotizza Neuer e con il piede che "teoricamente" sarebbe quello debole, il destro, decide di tracciare la traiettoria di un meraviglioso pallonetto che si insacca alle spalle del miglior portiere del mondo, lasciandolo immobilizzato, come se fosse appena stato trafitto dallo sguardo di pietra di Medusa. Lo spettacolo di magia appena offerto fa impazzire il Camp Nou e lascia il mondo intero a bocca aperta.

Il pallonetto in spagnolo viene chiamato "arco", su quell'arco disegnato dall'architetto di Rosario, il Dio del calcio ha deciso di costruire il ponte che porta il suo secondogenito all'immortalità, scacciando proprio i fantasmi del passato. Quella sera Messi come se non bastasse ciò che aveva già fatto fornì l'assist per Neymar che chiuse la pratica sul 3-0. Il Bayern vinse 3-2 la semifinale di ritorno all'Allianz Arena, ma nulla valse lo sforzo dei bavaresi. Il Barcellona poi vinse anche la finale di quella Champions League, oltre a posizionare la sua quinta coppa in bacheca, con quella vittoria riuscì a vincere il secondo triplete della sua storia.