L’iraniano piange, l’americano lo abbraccia. L'iraniano nasconde il viso sulla spalla dell’americano, che gli accarezza la testa e lo lascia piangere, poi lo incita con pacche sulla spalle. Infine, una parola sussurrata all'orecchio del gemente, l’iraniano che si stacca, annuisce, ringrazia l'americano e se ne va, senza riuscire a fermare le lacrime.
No, non è la scena di un film di Natale e non è neppure la favola della buonanotte. È successo davvero e da quell’abbraccio, forse, il mondo avrà una chance in più. E tutto questo grazie al calcio, che non è un film, non è una favola, ma spesso regala storie, talmente fantastiche da far impallidire Hollywood e il paese delle meraviglie. 
Iran e Usa, due Terre lontanissime, due popoli che si odiano da sempre, si giurano guerre, si minacciano morte. Bruciano le bandiere, arde il fuoco del male, soffiano venti di guerra e rivolte; un crogiolo di vendette, ripicche, strategie e rivendicazioni socio-religiose, che da settant’anni contraddistingue i rapporti difficilissimi tra questi due Paesi. 

Nel 1953 a Teheran, sotto la regia americana, un colpo di stato mette fine al governo del primo ministro Mohammad Mosaddeq, che pure aveva una qualche vocazione democratico-pacifica. Il colpo di Stato cambia le sorti dell'Iran, contribuendo alla rivoluzione islamica del 1979, dove viene deposto lo scià filo-occidentale, a favore di una Repubblica Islamica. Con la rivoluzione, guidata da Khomeini, arriva anche la prima crisi tra i due Paesi: nel novembre del 1979 cinquantadue dipendenti dell'ambasciata americana vengono sequestrati e liberati dopo 14 mesi. Nel 1980, poi, gli Usa, nella lunga guerra Iran-Iraq, sostengono apertamente l'esercito di Saddam Hussein (che poi, ironia della sorte o follia geo-politica, diventerà un altro nemico giurato). Altro tassello di questo bellicoso mosaico-stile Risiko è l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, su ordine diretto del presidente Donald Trump (3 gennaio 2020). 

In questo clima, arroventato dalle proteste cruente dei giorni nostri, scaturenti dall’uccisione di Mahsa Amini (rea di non voler indossare il velo), si è disputata la partita di Doha. 
Doveva perciò essere una partita carica di significati extra calcistici, invece è stata una partita e basta. Quanto basta per essere stata una partita speciale. 
Doha, coppa del mondo 2022: Iran-Usa. Novanta minuti (si fa per dire) di calcio vero, di tackle, tiri in porta, falli e passaggi filtranti, maglie sudate e voglia di vincere. Novanta minuti (si fa per dire), poi il triplice fischio, la partita finisce, gli Usa battono l’Iran per una rete a zero (il gol è di Pulisic).
Il triplice fischio, finisce la partita, qualcuno da qualche parte dell’Iran festeggia e qualcuno muore, ammazzato da un colpo di pistola estratta dalla fondina di un poliziotto iraniano. Quel qualcuno è un ragazzo di 27 anni e forse non gliene fregava niente di Iran e America, di dittature, Occidente e veli; forse non gliene fregava niente neppure dei mondiali, forse non era neppure lì a festeggiare. Ma è morto, quindi avevano tutti ragione: non era una partita di calcio e basta.
Il mondo del politically correct ci va giù pesante, con il bene che vince sul male, con l’America che vince sull’Iran. Il bene, il male, l’Iran, gli USA, la dittatura, l’Occidente. È tutto un manicheismo di maniera, che spunta, come erbaccia venefica, dal campo verde del Al Thumama stadium. Quel ragazzo muore e i significati extra calcistici sono lì, pronti a riempire pagine, bocche e cuori d’odio. 

Ma c'è l’abbraccio! C'è lo schizzo di sole su un dipinto tenebroso.
Il triplice fischio, finisce la partita, che a discapito di tutto e tutti (e dell’ennesimo evento delittuoso in terra iraniana), rimane una partita e basta, quanto basta per essere stata una partita speciale. Merito di quell'abbraccio. 
Un abbraccio, semplice, spontaneo, potentissimo. Due ragazzi, due semplici ragazzi venuti da due opposte parti del mondo, nemiche quasi per diritto naturale, antitetiche per principio e principi. Si chiamano Ramin Rezaeien e Antonee Robinson e si abbracciano.
In quell’abbraccio c’è tutto e non c’è niente. Il niente è probabilmente l’assenza di una qualsiasi premeditazione, di una qualsivoglia sovrastruttura di pensiero; è un abbraccio e basta. Il tutto è tutta la ribellione che c’è in esso. Altro che manifesti e manifestazioni! Altro che rifiutarsi d’intonare l’inno (o biascicarlo appena) e “democratizziamo l’Iran”!  
Forse non lo sapevano, ma Ramin e Antonee si ribellavano. All’Iran, all’America, al mondo e alle sue schematiche afflizioni. 

Da quell’abbraccio “Marg bar Amrika" (morte agli States) non ha più nessun valore; da quell’abbraccio non c’è più “Occidente da esportare". L’esultanza di Biden è solo la gioia pretestuosa di un tifoso, l’uccisione del ventisettenne è solo l’aberrazione pretestuosa d’un regime. 
Quell’abbraccio invece è tutto e niente. È un semplice abbraccio. È un grido di speranza, reboante come nessuna minaccia sa esserlo; è amicizia, è umanità, è lezione impartita al mondo del potere e d’ogni miope ideologia. 
È una chance. “All we are saying is give peace a chance”, cantava John Lennon, “All we are saying is give peace a chance” gli fanno eco Ramin e Antonee. 
E la partita, che doveva essere carica di significati extra calcistici, rimane una patita e basta. Una partita speciale. Con buona pace del politicamente corretto, degli schemi e degli schieramenti. 

Eppure c’erano già stati due precedenti, in cui le nazionali iraniana e statunitense si erano incontrate in un campo di calcio e in cui i calciatori avevano dato prova di grande sportività e civiltà. Ma certi schemi, si sa, sono duri a morire. Si può passare dal 4-4-2 al 4-3-3 facilmente. Ma ci sono schemi, fatti di cemento armato, difficili da abbattere. Sono schemi mentali, politici, economici, culturali, sociali, religiosi. Schematizzano il mondo come un’enorme palla schiacciata con due poli ideologici contrapposti, derubricando i sentimenti a incidentali elementi di disturbo. 
I due precedenti, i due incidentali elementi di disturbo.
In occasione del mondiale francese del ‘98, la partita fu vinta dall'Iran col risultato di 2-1. Quella notte le televisioni di tutto il mondo trasmisero la festa dei tifosi iraniani, scesi per strada accanto ai movimenti di emancipazione femminile, che in quei giorni stavano iniziando a muovere i primi passi. E il difensore americano, Jeff Agos, fregandosene della sconfitta, dichiarò: "Abbiamo fatto più noi in 90 minuti che i politici in 20 anni".  
Un anno e mezzo dopo, nel gennaio del 2000, Stati Uniti e Iran giocano un’amichevole a Pasadena. Partita dove il pareggio passa in secondo piano, emerge piuttosto uno spirito di fratellanza tra i calciatori.  
Ma evidentemente questi due eventi non erano stati sufficienti a stagliare nelle menti schematizzate di certa massificata opinione pubblica l’idea che tra Iran e Usa possa disputarsi una  partita e basta e che il sentimento delle persone, siano esse gli studenti che scendono in piazza o i calciatori che scendono in campo, non è automaticamente il sentimento del potere (scusate l’ossimoro).

È quel sentimento, vero, profondo, viscerale, che trascende “parole, opere e omissioni” e che si chiama umanità. Siamo uomini e donne, liberi e uguali davanti a qualsiasi forma di potere e a qualsiasi Dio.
L’abbraccio tra Ramin Rezaeien e Antonee Robinson è il dipinto perfetto di quel sentimento.
Loro hanno il sole in tasca...