Dopo alcuni mesi, torno a contattare una persona che è stata importante nel calcio, anche se questa storia vi farà restare senza parole.
Oggi parlo del signor Aurelio - come sempre non svelerò il suo cognome per privacy - che si è ritrovato protagonista pur non essendo mai stato un vero appassionato di calcio da bambino.

Era l'anno 1945, quando l'Italia era sul finire della Seconda Guerra Mondiale, e tra i campi della periferia di Roma un gruppetto di ragazzini era intento a giocare con il pallone, mentre di là passava un altro ragazzino che li guardava da poco distante, era il 'nostro' Aurelio. Ma sentiamo dalla sua voce, la sua storia.

Sono Aurelio e sono nato a Roma nel 1928, diciamo che per Roma si dice le zone limitrofe, anche perchè in quel tempo la vera Roma era dentro le Mura. Ricordo che la mia vita non fu per nulla rose e fiori, mio padre era uno scarpellino, mentre mia madre era una casalinga che nel tempo libero rammendava vestiti e lenzula per chi poteva permettersi di pagare. Ricordo che al mattino proprio mia mamma, che aveva preso le quinta elementare, ci faceva da maestra, infatti io e mio fratello maggiore Mario, al mattino ci mettevamo al tavolo della cucina e ascoltavamo gli insegnamenti della mamma, soprattutto tra la matematica, che in quel tempo era importante soprattutto in quei periodi bui di quel vivere in una casa che non comprendeva altro che un tinello e una tazza nel bagno, dormivamo tutti in una stanza in quattro; Io,mio fratello, la mamma e il papà. Mi ricordo che papà Fernando si alzava al mattino alle 3 per recarsi al suo piccolo laboratorio appena due passi fuori da casa e incominciava a battere con il suo martello, tanto da svegliare tutto il vicinato, riusciva a malapena a tirare avanti, anche se non si rifiutava mai di lavorare, anzi anche con il lavoro fino sopra il collo, lui continuava ad accettare lavori ad oltranza.
Ricordo che la mamma quando era l'ora di pranzo gli portava un brodo fatto di spezie, per lo più trovate nei campi vicini, cosa che anche noi mangiavamo, visto che non c'era poi tutta questa scelta. Ricordo le notti insonni, tra una fame assurda, e un domani che avrebbe visto la stessa situazione. La notte quindi non riuscendo a dormire, pregavo, sì, pregavo guardando verso quella finestrella che rispecchiava quel cielo blu, nella speranza che il domani fosse migliore, sia per me che per la mia famiglia.
Un giorno dopo aver fatto i compiti, mio padre mi chiese di consegnare un paio di scarpe, dovetti camminare parecchio, prima di arrivare fuori ad una casa, e che casa... Ricordo che appena arrivato fuori dalla casa, mi sentii richiamare "Ehi! dove vai?", mi si parò davanti un signore di colore che mi proibiva l'entrata, così gli dissi "Sono venuto a portare le scarpe al signor Parghetto". Così dopo avermi ispezionato con lo sguardo, mi lasciò passare, ma con un avvertimento "Poggia le scarpe li sopra l'uscio, ma non entrare in casa, e torna subito qui", così feci, arrivai davanti alla porta di casa, ma non tornai indietro prima di vedere cosa c'era al suo interno. Vedevo due bambini come me, ma erano vestiti di tutto punto, uno di loro mi guardava con disprezzo e l'altro era totalmente impassibile e continuava a farsi gli affari suoi. Così quel bambino mi disse dopo aver battuto a terra il piede "Puzza via!", ed io scappai, corsi talmente veloce che anche passai il signore di colore e scappai verso casa. Una volta tornato a casa, mio padre mi chiese se avevo effettuato la consegna, e sedendomi al suo fianco gli chiesi "Papà, anche noi un giorno avremo una casa bella come il signor Parghetto?", lui sorrise, con i segni del viso che coprivano quasi interamente il suo viso e mi rispose "Nemmeno tra cent'anni caro Aurelio, c'è chi nasce ricco e chi nasce povero, la via di mezzo non c'è mai, noi siamo nati poveri e moriremo poveri e senza quattrini". 

Un giorno mentre ero a passeggiare con mio fratello Mario, ci imbattemmo in un gruppo di ragazzini che giocava a pallone, io non ero attratto dal calcio, mentre mi piaceva veder giocare, così ci sedemmo in terra e prendendo un filo d'erba e messo in bocca continuavamo a seguire quella palla rotolare, mio fratello che aveva 18 anni, mi disse "Aurelio, ma perchè non vai a giocare insieme a loro?", io risposi "Non sono capace a giocare, non voglio fare figuracce. Meglio guardare". Ma proprio in quel momento una voce disse "Ehi voi! Perchè non venite a giocare con noi?". Così decidemmo di alzarci e di andare a dare due calci a quella palla, ma non ero proprio entusiasta di giocare, infatti era più i calci che prendevo che i palloni toccati, ricordo che ero una ciabatta in tutto e per tutto, infatti correvo senza mai prendere una palla, alla fine decisi di fermarmi e chiedere a mio fratello di tornare a casa. Ritornai a casa e parlammo con la mamma di quel che avevamo fatto quel pomeriggio, lei ci ascoltava con grande attenzione, già lei che si muoveva soltanto per portare il cibo a mio padre, ogni tanto da quelle parti passava una cara amica che lavorando dai 'Signori' portava con sé del pane raffermo, quindi era una festa vera e propria. Poi dopo essere passato per casa, andavo da mio padre e lo aiutavo nel suo lavoro. Un giorno mio padre, mentre ero intento a picchettare i chiodi nel tacco di un mocassino, mi tolse il martello dalla mano e mi disse "Tu non devi fare questo lavoro, tu devi pensare a divertirti, a questo ci penso io, tu devi vivere da bambino e non da adulto". Quella frase mi fece male, piansi molti quel giorno, sì perchè non capivo che mio padre voleva una strada migliore per me, mentre pensavo che ero solo d'intralcio per lui, gli volevo bene ma non accettavo quelle parole, che avrei capito soltanto in futuro. 

Così in quei giorni continuai a passeggiare con mio fratello, e ogni tanto trovavamo quei ragazzini che giocavano e puntualmente tornavamo a divertirci con loro. Un giorno intento ad imparare a giocare, venne un signore, avrà avuto una settantina di anni, con sigaretta in bocca e dita gialle, penso fumava parecchio, già aveva su per giù le stesse dita del mio papà, fumatore incallito. Mi disse "Ragazzo, ci penso io a impararti a giocare. Comincia a correre intorno il perimetro del campo". Così anche non sapendo chi fosse, cominciai a correre, dopo dieci giri di corsa, poi prese dei sassi e li mise a distanza di due metri l'uno dall'altro, e mi disse di fare uno scatto quando lui mi avrebbe detto di scattare. Il primo giorno non mi fece giocare al pallone, ma mi fece soltanto correre, così mi disse di presentarmi anche il giorno dopo. Così raccontai tutto ai miei genitori, e mio padre mi disse "Stai attento, perchè non si sa mai chi potrebbe essere, vai sempre con tuo fratello, mai solo. Hai capito?". Così i giorni seguenti, tra una risata e l'altra del signore che mi vedeva sgraziato nel passare il pallone e soprattutto nella corsa, cominciai a vedere i primi miglioramenti, e in quel momento cominciai a capire che mi piaceva quello che facevo. Pensai tra me "Ma ne vale la pena? Alla fine sarebbe meglio lavorare e portare dei soldi a casa", anche se pensavo sempre alle parole di mio padre. Così un giorno, sempre questo signore portò con se delle maglie e dei pantaloncini, e li diede a tutti noi ragazzini e disse a mio fratello di fare la testa della fila e di decidere l'allenamento atletico, anche se lui non sapeva cosa fosse, si ingegnò a farci allenare a modo suo.
Passò un anno e il mio attaccamento a quel pallone era divenuto morboso, non riuscivo mai a farne a meno. Mio fratello unendo degli arbusti riuscì a formare una palla, che unita con il terriccio divenne dura come la pietra, era quasi impossibile da muovere, se pensiamo ad oggi potrebbe essere associata alla palla medica, immaginate a spostarla con i piedi, una fatica... Così passarono altri due anni, ero arrivato all'età di 11 anni, quando scoppiò la Guerra, la Seconda Guerra che poi sarebbe divenuta Mondiale in futuro. Dovemmo abbandonare tutti i nostri divertimenti e rinchiuderci in casa, devo dire che dalle nostre parti passavano soltanto camionette, ma non si fermarono mai, noi abitavamo su uno sterrato dove non c'era altro che erba, mio papà fu costretto a chiudere il suo piccolo laboratorio e rintanarsi in casa, altrimenti lo avrebbero fatto schiavo, proprio per rimettere apposto le scarpe dei soldati tedeschi. Tutto sembrava peggiorare giorno dopo giorno, mio padre era provato da tutto quello scompiglio, e piangeva in bagno, si chiudeva dentro e non voleva essere disturbato, solo la mamma aveva il permesso di entrare, già li sentivo piangere entrambe e carpivo poche parole "...Anna...non riusciremo ad andare avanti in questo stato...Come faremo...come faremo...". La fortuna volle, che un amico di papà gli chiese di lavorare per lui, a costruire una abitazione decente per chi aveva avuto la sfortuna di vedersela buttare giù. Così la situazione cambiò, anche se un giorno una scheggia di un'esplosione lo colpì sul fianco sinistro e dovette ridurre le sue ore di lavoro. I quasi cinque anni di guerra terminarono, e tornammo a vivere in tranquillità.

Nel 1947 all'età di 19 anni incontrai di nuovo quel signore che mi aveva fatto da allenatore pochi anni prima che mi disse se ero ancora interessato a giocare, così mi diede un indirizzo dove dovevo recarmi e lo avrei trovato lì. Quindi con mio fratello costruimmo una piccola valigia, sempre intrecciando fili d'erba e c'incamminammo verso la destinazione, non era tanto distante da dove abitavamo. Così ci ritrovammo davanti ad un campo di calcio, un vero campo di calcio. Così entrando trovai questo signore, che non ricordo il nome, anche se ce l'ho sulla punta della lingua, che mi presentò niente meno che..."Questo è Amedeo Amadei, attaccante della Roma - che per chi non lo conoscesse oggi, fu il giocatore più giovane ad esordire in Serie A, a l'età di 15 anni e poco più, e soprattutto il più giovane a segnare una rete in Serie A - lui gioca nella Roma, la squadra più importante di Roma, lui alla tua età era già un fenomeno, quindi dopo avergli stretto la mano con grande stupore, anche se non avevo conosciuto nessun calciatore vero più di allora, rimasi soddisfatto. Mi disse "Ragazzo, questo è un allenatore con le balle quadre, sei capitato bene", io risposi "Lo so Signor Amadei, mi ha fatto fare tanta corsa, quasi fino allo sfinimento", e dopo avermi dato una pacca sulla spalla salutò tutti e se ne andò. Non lo vidi più nel corso degli anni, anche se sapevo notizie dai giornali del periodo, era davvero molto forte. Così decisero di farmi entrare in una selezione di promesse, anche se per la mia età ero abbastanza fuori dal contesto 'giovani'. Così dopo un anno intero tra i campi di Roma e dintorni, venni chiamato a fare tanti provini. La prima squadra a chiamarmi fu L'ambrosiana Inter, si l'Inter di oggi, ma non piacevo all'allenatore del tempo, mi disse che non rispecchiavo l'ideale per la sua squadre e venni rispedito a casa. Poi la chiamata del Venezia, che decise di tenermi sotto osservazione, ma proprio quando il sogno stava per realizzarsi, mi ritrovai in uno scontro in allenamento che mi distrusse il perone, e dovetti abbandonare il sogno di giocare da professionista vero, anche se poi il Venezia prima e la Roma poi decisero di darmi un lavoro, lasciandomi nel calcio, decisero di utilizzarmi come scopritore di talenti, già. io che per loro ero un talento che non aveva avuto una possibilità, meritavo di essere assunto come scopritore di talenti. Mi piaqque anche se inizialmente ero seguito da un altro grande del periodo, e così nel 1950 cominciai la mia strada da solo, tanti talenti scoperti, alcuni divenuti vere e proprie legende del calcio italiano.

L'Insegnamento di mio padre mi fece capire che 'Non bisogna mai piangere del presente, ma pensare sempre positivo sul futuro', lui se ne andò proprio in quella stagione che mi vedeva girare l'Italia in e largo, e la mamma per dispiacere lo seguì appena due anni dopo. Mio fratello era entrato in fabbrica, ma non disdegnava il fatto che quando aveva del tempo libero veniva con me in cerca di talenti, e devo dire che da Roma mi consigliava dei talenti, visto che lui girava Roma e paesi limitrofi e mi dava delle dritte, così decisi nel 1960 di portare mio fratello a fare il mio stesso lavoro. Sono passati tanti anni, nel 1980 decisi che era arrivato il momento di dire stop con il calcio e di vivermi la mia vita, con la mia famiglia, già mia moglie Marta conosciuta a Roma all'età di 22 anni e i miei quattro figli: Furio, Camilla, Ermenegildo e Arcibaldo. Oggi mi godo la mia pensione e quel che resta della mia vita, con la mia famiglia, i figli sono grandi e hanno le loro famiglie e sono anche nonno di tre bei nipoti, due maschi e una femmina.

E' stata una grandissima avventura, partita da quel bambino che non aveva nemmeno la sicurezza di un pasto, al provetto ciabattino, per poi conoscere il grande Amedeo Amadei, al sogno spezzato di divenire calciatore e che s'è ritrovato a scoprire talenti.
E pensare che a me il calcio non piaceva...