Quando da ragazzi andavamo in strada a giocare a pallone, una volta decise le squadre, il dilemma, con domanda spontanea, era essenzialmente una e una soltanto: "Chi va in porta?".
Ripensandoci, mi viene da sorridere. La nostra era formata da due cartelle scaraventate a mo' di pali, non zaini, cartelle color verde militare che portavamo a tracolla. Le buttavamo non con disprezzo, ma quasi con orgoglio, comportandoci da grandi, quando in realtà non lo eravamo affatto, per fare vedere, noi di terza media, ai "primipari" che, finalmente, erano gli ultimi mesi prima di andare alle superiori.
Claudio no perché aveva più fiato di un cetaceo; Giovanni era il più alto: in difesa una giraffa come lui era una garanzia. Matteo era fondamentale in attacco. Colpiva il pallone con una tale forza che una volta, nei minuti finali, per mantenere il risultato, lo spazzò talmente lontano che, a distanza di quarant'anni, sono ancora a cercarlo...
E allora chi? "Iooooooo?" - rispondevo con sdegno. "Vi vorrei ricordare" - e qui usciva tutta la mia perfida - "che il pallone Tango (un autentico cimelio in quegli anni), è del sottoscritto. Facciamo come sempre, d'accordo?". Erano tutti, ovviamente, consenzienti; mi comportavo da ricattatore ma in realtà il mio era più un atteggiamento "doroteico", l'area che ha sempre rappresentato la porzione moderata della DC, la cosiddetta Balena Bianca. 
In sostanza, in porta, ci dovevamo andare tutti: lo chiamavamo il "chi buca entra". Chi subiva goal, doveva lasciare il posto a un compagno di squadra. Quando eravamo in vantaggio di diverse reti, ammetto, come davanti a un confessionale, di aver fatto passare un tiro non proprio imparabile per andare a fare il mio ruolo di "frangiflutti" davanti alla difesa.

"Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla - unita ebrezza - per trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch’io son parte".

"Goal" rappresenta uno dei componimenti e parte integrante della raccolta "Il canzoniere", in particolare tra le cinque poesie per il gioco del calcio, dedicata all'amata squadra di Trieste. Il tema è proprio quello di una partita di calcio in cui Saba proietta tutte le emozioni causate dalla rete decisiva per la vittoria della squadra. II protagonista è un giocatore che segna un goal e che quindi assume il ruolo di eroe, di conseguenza l'autore riporta questa gloria anche nella solennità linguistica: "il portiere caduto alla difesa". Fondamentale è il fatto che parli poco dell'azione in sé, accenna infatti solo in parte al lieve tentativo dell'avversario di parare il pallone, tende invece a focalizzarsi principalmente sulla vittoria e gli effetti che essa provoca nell'emotività delle persone siano essi giocatori o spettatori.

Da una parte abbiamo i vinti, come il portiere che si dispera in lacrime per il suo errore senza la forza di abbandonare il campo, dall'altra invece i vincitori "par trabocchi" che si abbandonano all'ebrezza del goal. Il portiere, in particolare, esulta a distanza dai compagni ma condivide comunque la loro gioia. Dato che l'attenzione viene puntata principalmente sull'aspetto emotivo, Saba afferma "la gioia si fa una capriola". Tra tutti i giocatori, i portieri rappresentano forse il focus principale. L'autore infatti apre il componimento soffermandosi sul numero 1 della squadra avversaria e conclude su quello della vincitrice. Tramite questo stratagemma sembra proprio ricreare, metaforicamente, il rettangolo di gioco del campo da calcio. Si verifica tramite un crescendo di emozioni, che passa dalla disperazione del "caduto" fino al delirio gioioso del "vincitore", questo permette di evidenziare la loro condizione di eroi. Se infatti nel primo caso si può assistere alla teatrale disperazione di un portiere e alla pietosa solidarietà del compagno che cerca di consolarlo "con parole e con mano", nel secondo invece si riscontra la gioia pura, quasi infantile, di un vincitore che ha la consapevolezza di aver portato al trionfo la propria squadra, descritta dolcemente, come una unione di "fratelli".
Il cosiddetto "Numero 1" ha sempre affascinato, diciamolo francamente, anche perché è sempre stato visto, giustamente, come l'ultimo baluardo. Il "saponetta", che hanno avuto tutte le squadre, fa parte di cliché naif che, in questo caso, non voglio assolutamente considerare; non è contemplato: l'errore fa parte del gioco e il gioco, a volte, ha bisogno dell'errore.

Gli indimenticabili, a mio modesto avviso, sono le seguenti Leggende.
Lev Jascin è l'unico portiere ad aver vinto il Pallone d’oro nel 1963. Il premio Fifa, per il miglior portiere di ogni Mondiale, è intitolato a lui. Di chi non stimava diceva: "Non vede il campo". Non subì gol in 209 delle 438 partite giocate, fra Dinamo Mosca e Nazionale. Parò circa 150 rigori. Spesso respingeva i cross con la testa e, per farlo, si toglieva il berretto in corsa. La sua famosa maglia nera, in realtà, era di un blu scurissimo.
Ricardo Zamora, "per vent’anni il miglior portiere del mondo", è stato mito indiscusso di Barcellona e Real Madrid. Ex giocatore di pelota passato al calcio perché "la palla era talmente grande che pensai sarebbe stato più facile" - diceva. La sua maglietta con collo visibilmente bianco era il terrore degli attaccanti, nei cui piedi non aveva paura a buttarsi. Divenne così famoso che, quando il suo omonimo Niceto Zamora divenne premier della Spagna, pare che Stalin fosse convinto si trattasse del portiere.
Gilmar il solo portiere bicampione del mondo nel 1958 e 1962 col Brasile di Pelé. Assoluto monumento in un Paese in cui, all’epoca, quel ruolo era considerato per "pazzi o gay", perché negava l’idea stessa di "futebol arte". È sua la spalla sulla quale il diciassettenne Pelé piange di gioia dopo la vittoria nella prima Coppa Rimet.
Impossibile non ricordare Sepp Maier, anche lui Campione d’Europa e del Mondo (Germania Ovest 1972 e 1974), oltre che plurivincitore di Coppe dei Campioni col Bayern Monaco, giocando 442 partite in Bundesliga. Altro grande teorico dell’inutilità degli azzardi, di lui si ricorda l’uso dei guanti di misura più grande rispetto a quella delle mani.

"Quando un portiere fa gol è difficile da dimenticare: è il sogno di ogni numero uno". Michelangelo Rampulla è infatti stato il primo portiere italiano ad aver segnato un gol su azione. E il giorno che fece il colpo disse: "Non ho mai provato una sensazione così meravigliosa". Successe il 23 febbraio 1992, indossava la maglia numero uno della Cremonese, giocava contro l’Atalanta, al 91’ segnò di testa il gol del pareggio che valse l'1-1.
"Perso per perso, e visto che l’Atalanta non riusciva a raddoppiare e che i miei colleghi d’attacco non riuscivano a tirar fuori un ragno dal buco, presi l’iniziativa" - affermò. I giocatori erano quasi tutti ammassati sul primo palo; Rampulla si spostò verso il secondo dove c’erano solo gli atalantini Bianchezi e Nicolini. Chiorri mirò decisamente al proprio compagno, un cross teso che sorvolò il grumo di uomini appostato sulla sinistra della porta. "Attenti al portiere!", urlò Bigliardi quando, troppo tardi, si accorse dell’irruzione di Michelangelo, divenuto poi il Magnifico. Tutti si voltarono a guardare Ferron, portiere dell'Atalanta, che stava valutando l’eventualità di uscire a respingere. Ma il numero uno cui bisognava prestare attenzione non era l'estremo difensore nerazzurro bensì il grigio-rosso cremonese. Colpì la palla di piena fronte e la mandò in rete!
L'anno successivo, la Juventus di Trapattoni e Boniperti, lo ingaggiò come secondo di Peruzzi. Accettò la prospettiva della panchina: ormai aveva scolpito a lettere maiuscole il proprio nome nella storia del calcio italiano.

"Il portiere su e giù cammina come sentinella.
Il pericolo lontano è ancora.
Ma se in un nembo s’avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all’erta spia".

Sempre Umberto Saba in "Tre Momenti" dedicava al portiere la propria fine penna; mai avrebbe immaginato che quel ruolo si sarebbe contraddistinto per un goal. La sentinella per eccellenza sarebbe entrato, di diritto, negli almanacchi.

"Aquellos de nosotros que tenemos un talento innato deberíamos mantenerlo desde una edad temprana. Incluso en soledad, no necesita ir al gimnasio" - affermava Casillas, uno dei più forti portieri della nuova epoca. Chi non conosce lo spagnolo, come il sottoscritto, o chiede a mia moglie, che ha studiato a Siviglia, oppure usa il traduttore di Google. Per comprenderne il ruolo è necessario. 
In fondo, la solitudine non è altro che ascoltare il vento e non poterlo raccontare a nessuno.