Devo aver avuto dieci anni, eravamo sul finire degli anni sessanta ed io, come tutti i bambini, trascorrevo il tempo libero a giocare e divertirmi. Un nuovo gioco aveva conquistato i miei desideri e quelli di tantissimi miei coetanei. Era elettronico e, logica conseguenza, si giocava in casa.
Era la pista Policar. Prodotta in due versioni, la “classica” che rappresentava una gara automobilistica e quella “elegant”, una corsa di cavalli al trotto, con tanto di sulky, il carrellino dove siede il fantino. Nella prima versione era apparsa sotto l’albero alla vigilia di Natale.
La tenda della porta d'ingresso che si era mossa, lo scricchiolio dell'infisso in ferro e vetri, aggiunto al fatto che i miei genitori erano seduti, vicino a me, in una tavola che abbondava di delizie per i nostri palati, oltre che di parenti, smentiva totalmente un dubbio che stava serpeggiando fra i miei compagni di classe delle elementari. Mi riferisco all’esistenza o meno di Babbo Natale. I molti pacchi sparpagliati sotto il bellissimo albero, addobbato ai miei occhi in modo fantastico con palline colorate e fili lampeggianti e con una punta di vetro che, oltre a toccare il soffitto, cambiava colore al lampeggiare delle lucette, non lasciavano scampo a falsi e bugiardi. Babbo Natale, lui e non altri, era passato per casa mia, lasciando esattamente i regali che avevo chiesto con la più classica delle letterine. Le due splendide automobiline, una rossa Ferrari e una gialla Lotus, alimentate dall’energia elettrica, correvano veloci nel mio circuito che, incrementato con l'acquisto di pezzi sciolti, non aveva più la minuta forma dell’otto iniziale, ma si espandeva, imponente, per la mia ampia camera. Questa invenzione elettronica aveva investito i miei desideri fanciulleschi ma era sempre il gioco del calcio ad occuparne i primi posti, sia praticato fisicamente, fra amici e conoscenti, in strada o in campetti, nel tentativo di emulare le gesta dei grandi campioni di allora, sia trasformandolo in un gioco da tavolo, restando comodamente in casa, al caldo, cosa particolarmente vantaggiosa nelle corte e fredde giornate invernali.

La mia personale soluzione era stata quella di trasformare il tappeto dell’ingresso nel terreno di gioco dei grandi stadi dove ogni domenica si disputavano i match dei campionati.
La pallina era di carta, le porte realizzate con una scatola di cartone, quella delle scarpe ed i giocatori formati dalle bellissime figurine, a colori, che stampava la Tipografia Panini, di Modena, da raccogliere in appositi album. Le piegavo nella parte inferiore, quella che indicava squadra di appartenenza e cognome del calciatore raffigurato, al fine di posizionarle dritte. Davo così inizio a fantastiche partite, spesso giocate da solo, ma ugualmente divertenti. Fu su quel tappeto che diedi vita ad un torneo triangolare, con due compagni delle medie.
Benché la soluzione adottata fosse gradevole e similare alle vere partite, non tutto era perfetto. Giocando per terra, in ginocchio, ci capitava spesso di schiacciare le figurine, dovendo interrompere le partite, così come non era rara qualche involontaria quanto dolorosissima testata. Non essendoci alternative comunque sapevamo accontentarci. L'appuntamento fisso era al pomeriggio, pioggia permettendo, poiché dopo aver fatto i compiti assegnateci a scuola, o quasi tutti, ci ritrovavamo, spesso con la bicicletta, in strada nella laterale che collegava viale Garibaldi con via Ca’ Rossa, che al tempo non era percorribile dalle automobili e quindi poco trafficata.                                                                                                       

Bastava veramente poco per essere felici, quattro sassi per delimitare le due piccole porte, larghe un passo e senza portieri, un pallone e la nostra energia. Il gruppetto era numeroso ed affiatato. Stefano, il figlio del proprietario della Pizzeria Progresso, era uno dei più assidui, sempre presente, si alternava con me la responsabilità di portare il “mezzo da lavoro”, il pallone. La Pizzeria era collocata, allora come adesso, all’angolo fra Viale Garibaldi e via Fradeletto, una tappa fissa per tutti noi. Fu lì, in un pomeriggio annuvolatosi improvvisamente, al punto da farci interrompere la partita che Stefano, presa una grande scatola verde da sopra un mobile, mi fece vedere il suo nuovo gioco, dal nome strano, quasi impronunciabile.                                                 

Alzato il coperchio rimasi in silenziosa attesa, nella certezza che sarebbe comparso un nuovo gioco elettronico, sbagliando ogni previsione. Come un mago che tira fuori conigli o colombe, in continuazione, dal suo cilindro, così lui incominciò uno show che mi lasciò sbigottito e a bocca aperta. Il primo ad apparire fu un panno verde, che srotolato era rettangolare, bello grande e largo in cui era disegnato, perfettamente un terreno di calcio, curato in ogni particolare.
Il cerchio di centrocampo, le linee laterali, il dischetto del rigore, insomma tutto. Altro che il tappeto di casa! Fu poi il turno delle due squadre, formate da undici giocatori, dieci da posizionare a propria scelta nel campo ed un portiere, quest’ultimo munito di una lunga asticella di plastica verde, che veniva afferrata da pollice ed indice, affinché si muovesse così, a proprio piacimento, nel tentativo di parare i tiri scagliati in porta, dall’avversario. Non avevo mai visto una cosa simile, sembravano dei soldatini alti circa due centimetri, colorati in ogni particolare, incollati su strani basamenti tondeggianti che, sfruttando sia la parte piatta che quella circolare, spinti dal dito indice, restavano in equilibrio e consentivano movimenti in tutte le direzioni.                                           

La prima squadra era la Svizzera, maglietta rossa e pantaloncini bianchi. L’altra l’Italia, nella classica casacca azzurra, pantaloncini bianchi e calzettoni azzurri con bordino bianco. Incredibile! Tirò fuori poi le porte, curate in ogni particolare, bianche, di plastica, avevano i pali quadrati, come si usava a quel tempo, una con la rete rossa e l’altra con la rete blu, a riprendere i colori delle squadre. Ero estasiato e c'era ancora altro da vedere, le quattro bandierine da posizionare sugli angoli del rettangolo di gioco, la recinzione verde di plastica, con pilastrini marrone, con tanto di pubblicità inserite, (utilissima per interrompere la corsa dei giocatori evitandone l'eventuale uscita, o ancora peggio, il rischio di rottura). Mi rimaneva da vedere solo una cosa, quale soluzione era stata elaborata per raffigurare il pallone, l'attrezzo attraverso il quale, lo sport del calcio, ha affascinato e conquistato il mondo. Quando Stefano mi mostrò una pallina di plastica arancione, che in tutta la sua rotondità, correva per il campo, i miei occhi brillarono. Mai gioco si era avvicinato così tanto alla realtà.                                                                                   

Restai ammutolito, incredulo, oserei dire, fulminato, benché non fossi non sulla via di Damasco. Già pensavo a come poter riuscire a controllare la spinta del dito indice, su miniatura e conseguentemente sulla pallina, potendo così simulare, perfettamente, una partita di calcio. 

Tornai a casa, inebriato, quasi ipnotizzato, tutto era rivolto ad un unico pensiero, a quella scatola e se sarei stato in grado di muovere quegli splendidi giocatori in modo appropriato. Una cosa era certa, da quel giorno il mio mondo dei giochi cambiava totalmente.  
La Policar venne montata sempre più raramente, tutte le mie attenzioni erano rivolte a quando avrei potuto avere quel gioco di cui non ricordavo più il nome.  


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