Primi anni Settanta.
Il mercoledì pomeriggio degli autunni e delle primavere torinesi era spesso movimentato dallo svolgimento delle partite di coppa all’allora Stadio Comunale. Visti i discreti risultati delle due compagini sabaude, non passava settimana che a Torino sbarcassero, nella mattinata del giorno che dimezza la settimana, da aerei charter o bus scassati, centinaia di tifosi di nazionalità ignota ai più. I bar della stazione, i locali del centro e i ristoranti della zona attigua allo stadio si riempivano di masse di stranieri, parlanti lingue sconosciute e non sempre sobri e attinti e puntuali al pagamento del conto. La città in quegli anni non aveva ancora vissuto il cambiamento epocale portato dalle Olimpiadi Invernali del 2006 e non sapeva di poter usare appieno la sua natura di città turistica. Diciamo che tutti in città, tranne i tifosi, non vedevano l’ora che quei mercoledì, così movimentati per la partita, terminassero in fretta. Poca era la voglia di perdere tempo in code estenuanti, poca la preparazione delle forze dell’ordine, poca la voglia dei tifosi di non concedersi il piacere di dare qualche randellata qui e là. Insomma, quando alle quindici del pomeriggio iniziava la partita molti assicuratori di locali e ristoranti avevano già ricevuto denunce di rovinosi tentativi di farsi pagare il conto, la celere aveva già raccolto parecchi individui e trenta, quarantamila persone si erano assiepate, quasi tutte in piedi e accalcate come sardine sulle gradinate dello stadio fatto costruire nel ventennio. Consci che i problemi, dopo un paio d’ore di tregua, si sarebbero ripresentati al termine dell’incontro, i torinesi pregavano in silenzio il Dio del calcio. Una vittoria degli ospiti (francesi, scozzesi, belgi o normanni?) avrebbe permesso un vero e proprio “saccheggio” della città di quelle orde barbare. Meglio quindi calmare gli animi con una vittoria dei nostri (dei bianconeri o dei granata) e salvare, non senza qualche sacrificio, la città.

In questo clima nasce la storia, piccola e personale, che vorrei raccontarvi. In mezzo a tutti i vari bus turistici, e folcloristici, che arrivavano a Torino a frotte nelle mattinate del giorno della sfida di coppa, uno in particolare trasportava il parente lontano a cui ero più legato. Il fratello di mia nonna, lo zio Claudio, arrivava da Caravaggio, aggregato allo Juventus club del paese bergamasco. L’occasione di venire a vedere una partita memorabile e di incontrare i membri della famiglia era sempre molto ghiotta. Spesso lo andavo ad accogliere in posti strani della città per portarlo, con i mezzi pubblici, in piazza Rivoli, dove vivevamo tutti vicini, a casa della nonna. Una mangiata veloce, baci e abbracci poi via alla partita, ed un arrivederci alla prossima. L’uomo tarchiato, sorridente, donatore di sangue e raffinato conoscitore di calcio e di sport, andava felice al campo certo di vedere la sua squadra combattere con orgoglio.

Quel mercoledì invece, quando arriva in casa dalla nonna, lo zio Claudio è cupo, teso come una corda di violino, ingrugnito e silenzioso. Nessuno in famiglia capisce perché non abbia voglia di sedersi a mangiare, perché abbia troppa fretta di correre allo stadio, perché abbia negli occhi un dolore estremo. La nonna, sua sorella, intuisce il pericolo. “Con chi gioca la Juve oggi, fratello?”. Rispondo io “Gioca con gli Inglesi del Derby County”. È l’11 aprile del 1973, mezzogiorno è passato da poco. “Fermati a pranzo” impone la nonna al suo fratello più giovane che si siede. Mi avvicino. Ho una particolare simpatia per quest’uomo, sarà per il fatto che porto il suo nome, e mi fermo a parlare. Capisco improvvisamente i timori della nonna e riesco a comprendere la rabbia che agita il cuore dello zio. No, non è venuto a Torino per incontrare sua sorella, e nemmeno per vedere la partita e gioire della vittoria. Non ha fatto una scampagnata con gli amici. È venuto a cercare gli inglesi, è venuto a cercare vendetta. “Perché?” gli chiedo, osservando i suoi occhi stanchi ma iniettati di fiamma. Non racconta tutto, nessuno dei reduci ha mai parlato troppo dei ricordi di guerra, ma parla, e tra le frasi capisco, rifletto.

Era in Africa, a combattere una guerra inutile sotto il solo cocente. Molti suoi compagni sono morti, stroncati dalle bombe inglesi, dalle mitragliatrici e dal caldo. Forse, penso, sono stati fortunati a non cadere prigionieri nelle mani dei vincitori. Il racconto dello zio diventa duro, le lacrime gli solcano il volto. Il campo di concentramento, la fame, le angherie dei sergenti, delle guardie che insultano, picchiano, versano borracce d’acqua per terra. Ma non è un film. Gli Italiani, ricordate che l’Italia in quei giorni non è nemmeno più fascista, vengono, a dir poco, trattati come bestie, lasciati morire al sole, nei campi di lavoro e di concentramento. Chi è vessato non capisce il motivo di tanto odio, di tanta violenza verso i prigionieri, e sente quelle voci, quelle frasi, in una lingua che diventa incubo e maledizione. Poi tace, lo zio, immerso nei ricordi e nella tensione (sono passati solo trent’anni, non un’eternità). Ha ferite ancora segnate nella pelle, nello stomaco, negli occhi. Oggi è venuto a Torino a cercare il “suo” inglese. Oggi troverà, vicino allo stadio, qualcuno che parla quella lingua, che arriva da quelle città che hanno dato la luce ai suoi aguzzini. Non avrà pace, lo zio, se non sfogherà la sua rabbia di uomo ferito e schiacciato. Non serviranno armi o coltelli, no. Basteranno i pugni, basterà trovare qualcuno, non importa chi, basterà un po’ di sangue.

Mia nonna lo sa, conosce suo fratello. Un bicchiere di vino, un piatto di agnolotti, due lacrime per i parenti scomparsi, qualche chiacchiera sugli eventi del paese. Poi l’arrosto, le patate, qualche risata ed altri bicchieri di vino. Passa il tempo. Passa e la nonna mi fa cenno di stare zitto, di non far vedere l’orologio allo zio. Che non è scemo, ma forse ha capito anche lui. Forse è meglio non correre allo stadio, forse è meglio restare a parlare in famiglia, dimenticare la rabbia, dimenticare che è mercoledì pomeriggio e che Torino è piena di inglesi. La partita inizia che lui è ancora a tavola. Raggiungerà, accompagnato dal sottoscritto tredicenne, gli amici del bus posteggiato allo stadio, dopo la schiacciante vittoria della sua Juve, e gli inglesi raccolti lontano, dietro i cordoni della Polizia.

Se qualcosa può valere per me la vittoria di ieri sera è questa piccola rivincita. Credo che lo zio Claudio, in Paradiso, ora stia ridendo di gusto. Ha trovato senz’altro il suo inglese e gli ha offerto un bicchiere di vino. La fame lassù è certamente dimenticata, come le offese, le vessazioni e le violenze. Ma i rigori hanno regalato giustizia. E questo mi basta.

Clay Mc Pants