«Il calcio è un linguaggio con i suoi prosatori e i suoi poeti» diceva Pasolini, perché dall’uomo non si sradicherà mai il gusto del bello, ed anche il calcio è, a suo modo, un’opera d’arte. Tuttavia, secondo il sommo Gianni Brera, “la grande poesia ha smesso di celebrarne gli eroi quando lo sport è diventato muscolo e professione, gioco e non più eroismo in toto”. E quando si parla di eroismo si parla di passione, fedeltà, coraggio, attaccamento a un valore, ad una maglia, ad una bandiera.

Parole che ritornano alla mente in questi giorni intorno alla vicenda di Federico Chiesa, il cui trasferimento presunto, negato, obbligato, scongiurato, ritenuto inevitabile, riporta il calcio italiano, ancora una volta, di fronte al bivio dal quale si dipartono due strade: quella della scelta di cuore, poetica, passionale, e quella della scelta razionale, calcolata, concreta.

La prima scelta, quella che vedrebbe Chiesa rimanere alla Fiorentina, magari anche più di un solo anno, magari anche a vita, è sostenuta dai soliti nostalgici del calcio romantico - tra i quali si iscrive anche il sottoscritto - ed è alimentata da una serie innumerevole di argomenti ed esempi.
Quello più evidente, in positivo, è rappresentato da Giancarlo Antognoni, che rifiutando la Juventus a più riprese ha, di fatto, rinunciato a qualche titolo di campione d’Italia, ma, quando giocava come a fine carriera, ha conservato un amore ed un rispetto della propria città e della propria squadra che nessun calciatore della Juventus dei suoi tempi ha avuto a Torino. Si pensi solo ai ruoli societari che ha sempre avuto con tre proprietà diverse, sicuramente per la forte popolarità della quale ancora gode tra i tifosi viola, e si confronti tutto questo col trattamento che hanno ricevuto a Torino i suoi compagni di Nazionale, Zoff, Gentile, Cabrini, Tardelli, Rossi. Tranne Rossi, sono stati tutti giustamente coinvolti dalla federazione come allenatori delle nostre nazionali, e pur operando bene, non hanno mai avuto il sostegno della loro ex società, neanche quando l’ingiustizia subita era evidentissima, come nel caso di Zoff, esonerato dopo un avvincente secondo posto all’Europeo 2000. La Torino bianconera, si sa, non adotta facilmente nuove bandiere; alla Juventus, come si dice, gli uomini non contano, conta solo vincere.

Altro esempio ricorrente, in senso opposto, è quello di Roberto Baggio, strappato con forza dalla sua Fiorentina, e, a detta dello stesso Caliendo, suo procuratore storico, non senza imbarazzo già dal momento in cui la sua mano si rifiutava di firmare il contratto. Non bastarono promesse di coppe dei campioni e Pallone d’Oro, né la minaccia di emarginazione dalla Nazionale, a convincere pienamente Baggio, che alla fine partì perché così era scritto, ma senza portare con sé il proprio cuore, che a Torino non arrivò mai, e probabilmente rimase sempre a Firenze. Lo ribadì raccogliendo la sciarpa viola l’anno dopo, quando tornò da avversario, e, ancor di più, lo ribadirono i suoi occhi pieni di luce, diversi anni dopo, quando tornò la Franchi con Stefano Borgonovo, per omaggiare il suo vecchio compagno dei bei tempi. 

Certo, son discorsi poco pratici in un calcio dominato dalle questioni economiche, tanto che tutti gli esperti della materia e gli stessi tifosi sembrano aver riposto negli armadi passione, cuore, sciarpe, poster e cappellini, e sono diventati tutti ragionieri, tutti con penna e calcolatrice,  esperti di plusvalenze, entrate, uscite, ammortamenti.
Son costoro che invitano e che guidano per la seconda via, quella della scelta razionale, calcolata, concreta. E non sorprende che anche qualche giornalista di dichiarata fede viola arrivi a dire che “Anche il più sprovveduto dei dirigenti sa che con un giocatore giovane cresciuto nel vivaio e valutato 80-100 milioni si deve monetizzare. Difficile che la sua quotazione possa andare oltre, caso mai il rischio è il contrario. Pare che qualcuno abbia prospettato a Rocco questa situazione, ma il presidente non ci sente, ora è solo cuore e passione, la logica può aspettare”. Sarebbe facile obiettare che il discorso non fila neanche sul piano logico, perché, se un calciatore vale, le pretendenti aumentano e il valore cresce, così some appare ovvio che la logica del guadagno immediato non è una logica assoluta, e può essere addirittura illogica e controproducente. Ma siamo su linee d’onda opposte, concetti paralleli, che non possono incontrarsi.

Eppure, sia che si voglia essere passionali, sia che si voglia essere cinici e razionali, non dovremmo dimenticare la lezione del Maestro Brera. Il calcio deve gran parte della sua forza attrattiva e della sua popolarità alla sua componente passionale, emotiva, sentimentale. Le partite sono rese più interessanti dalla presenza di uomini che lottano per una fede, per i colori di una città o di una bandiera.

Un derby capitolino del 2000 senza De Rossi e senza Totti, una Lazio del ’90 senza Di Canio, un’Inter del ’70 senza Facchetti, un Milan dei tempi d’oro senza Baresi e senza Maldini, una Sampdoria del '90 senza Vialli e Mancini, una Nazionale senza italiani, questo sarebbe il calcio senza poesia, eroismo, passione, fede e identità. E cosa c’è di più avvincente, di più bello, di più entusiasmante di una ragazzo che lotta per la propria fede? Questo è il calcio, l’insieme dei sentimenti che ne muove i sentimenti, per chi lo pratica e per chi lo segue.

Ora, non si vuole assolutamente sostenere che Federico Chiesa debba essere per forza un novello Giancarlo Antognoni o un Roberto Baggio liberato dalle catene del ‘90. Non lo è come tipo di calciatore, e non è detto che debba esserlo nel grado di attaccamento ai colori viola. Ma se fosse minimamente intenzionato a legarsi ai colori viola, tutto il mondo del calcio dovrebbe favorire questa scelta. Dovrebbe farlo il suo nuovo presidente, assicurandogli un ingaggio adeguato al valore e una squadra di livello. Dovrebbero farlo le pretendenti, perché non ha senso prendere uno cuore forte di ragazzo e farlo diventare mero strumento di guadagno, di vittorie e titoli, ammesso che arrivino. Dovrebbe farlo il mondo del calcio in genere, perché se c’è un modo di far morire o di rendere meno interessante il calcio è togliergli il cuore, la passione, i sentimenti.

La ragioneria sarà anche logica, ma risulta difficile andare allo stadio o seguire una partita tra squadre fatte con logica ragionieristica da dirigenti e calciatori privi di anima.



Francesco Germano