Il calcio e il basket sono due sport completamente differenti.
Del primo ne sono perennemente innamorato, fin da piccolo, quando mi dilettavo a giocare per strada o al parco con altri ragazzini della mia età, leggendo almanacchi e libri sul tema, collezionando le nostalgiche figurine (quando ancora erano un passatempo straordinario a costo contenuto), utilizzando costantemente il Televideo per potermi abbeverare di ogni notizia possibile e non perdendomi nessun programma sportivo che la televisione dell’epoca fosse in grado di trasmettere. Crescendo, ho smesso di sognare di poter divenire un calciatore (non ne sarei mai stato capace), ma questo sport continua ad essere il mio compagno di vita. In modo diverso: mi sono approcciato alla scrittura, sto cercando di seguire un percorso alternativo, non bado più solo agli aspetti tecnici ma mi incuriosisce tutto il tessuto. Insomma, mettiamola come vogliamo, ma io, il calcio, lo amo.

La pallacanestro, sebbene molto affascinante, non è mai stata nelle mie corde. Ricordo qualche tiro indegno ai tempi dell’università e poco altro. Lo sport, però, l’ho comunque seguito in modo non approfondito ma con una certa dose di interesse: il campionato italiano dei primi anni 2000, le partite della Nazionale e, naturalmente, quel fenomeno tutto statunitense che risponde al nome di National Basketball Association, per tutti NBA. Sono un amante del cinema, e ricordo con estremo piacere quel piccolo cult di Space Jam, che vedeva Michael Jordan alle prese con personaggi di fantasia quali Bugs Bunny e Duffy Duck.

Ora, premesso tutto ciò, qualcuno, un giorno, dovrà spiegarci sulla base di quale convinzione possa essere anche solo lontanamente pensabile riportare il modello NBA al calcio, in particolare a quello europeo. Le due configurazioni si poggiano su pilastri completamente differenti, che non ne consentono la contaminazione reciproca. Periodicamente, lo sappiamo, emergono le voci di una Superlega pronta a farsi largo, ritenuta da tutti assolutamente necessaria per incrementare i fatturati e lo spettacolo, riducendo tutta una serie di incontri ritenuti riempitivi e non indispensabili. Se su quest’ultimo punto si potrebbe anche concordare, molto meno comprensibile è questo voler a tutti i costi emulare un campionato professionistico amato in tutto il mondo che gode di alcune peculiarità non proponibili per un altro sport. Banalmente, già il sistema dei punteggi è completamente differente: nel basket non esistono i pareggi, si vince e si perde, e anche la classifica della regular season tiene conto della percentuale di vittorie sulle partite giocate, moltiplicata per 1000 in modo da avere un punteggio senza decimali e più “intuitivo”. Nel calcio, almeno nelle gare del formato di campionato, il pareggio assume un ruolo di spicco, in quanto ha un valore, e se pensiamo che fino al 1994 valeva addirittura la metà della posta in palio, capiamo bene quanto il movimento originale non possa prescindere da questo elemento. Non solo: il sistema NBA è un sistema chiuso. Attenzione, non è un’esclusiva del basket, ma dell’intero sistema sportivo professionistico statunitense ed in generale nord-americano, il quale è basato su questo meccanismo: ci sono delle squadre predefinite che partecipano ogni anno ai vari tornei, senza promozioni o retrocessioni, e dunque si affrontano l’una contro l’altra praticamente ogni anno. Ciò, ovviamente, è favorito dal fatto che le leghe professionistiche (tra cui appunto la NBA) non devono rispondere ad alcuna federazione sportiva nazionale. In più, consideriamo che le franchigie (termine ormai arcinoto per indicare le società appartenenti al campionato cestistico più famoso del pianeta) non hanno alcun vincolo con il territorio: cioè, per intenderci, se la società sorge in una determinata cittadina, questa può benissimo spostarsi altrove, mantenendo la medesima denominazione e portandosi dietro i trofei ottenuti. I colori, l’attaccamento, il logo: tutto può essere modificato senza grossi problemi.
Cosa diametralmente opposta al mondo del pallone: consultare la storia del Lipsia, divenuta in pochi anni una delle big di Germania o, in alternativa, andare indietro di qualche giorno e scorrere la marea di polemiche a seguito della decisione dell’Inter di mutare simbolo (e non denominazione!). Insomma, è chiaro che stiamo parlando di due universi agli antipodi: nel calcio europeo, e nello specifico quello italiano, la squadra non è solo una semplice società sportiva, ma rappresenta il sentimento di milioni di persone (nel caso delle grandi) o, in alternativa, di un territorio, piccolo o meno che sia. Avete mai avuto la possibilità di assistere a qualche sfida nelle serie minori? Avete mai provato a confrontarvi con sostenitori di squadre di provincia, di paese o addirittura di quartiere e sapere cosa pensino degli avversari limitrofi? Avete mai gustato un derby di quelli veraci, di quelli che valgono più dei tre punti? Ecco, chi riesce a rispondere affermativamente a tali quesiti, condividerà assolutamente questa tesi: non è applicabile quel modello al nostro sport preferito. Stessa cosa vale all’inverso: lì ci sono le franchigie e non sarebbe ammissibile vedere dei campionati simili ai nostri. Non esiste il migliore o il peggiore, ma si tratta di una questione di concezione dello sport professionistico profondamente diversificata, che rende entrambe le impostazioni uniche e vincenti.

Chiaramente, gli introiti mostruosi della NBA fanno gola. Peccato, però, che la stessa associazione statunitense preveda altri parametri molto interessanti, quali il salary cap, che in molti credano si tratti di un semplice tetto massimo collettivo agli ingaggi dei cestisti tesserati. Certo, è anche questo, ma è una regola molto più complessa e articolata: in primis, il tetto varia di stagione in stagione in funzione dei profitti di lega ottenuti nell’annata precedente; a ciò si aggiungono minimo e massimo salariale e altre regole complementari quali la Luxury Tax, somma che viene pagata da chi supera il tetto e che viene redistribuita alle altre franchigie che sono rientrate nei parametri consentiti. E ancora, il Draft: negli Stati Uniti, gli atleti si formano nelle scuole e nei college; i settori giovanili, per come li conosciamo noi in Europa, non esistono! In occasione del suddetto Draft, le squadre con i risultati peggiori hanno la precedenza nella scelta dei migliori talenti in circolazione, cercando dunque di colmare il gap con le altre. Nel calcio, al contrario, i club più blasonati fanno incetta dei calciatori più promettenti, amplificando il differenziale. E non parliamo della questione economica e finanziaria.

Insomma, ci rendiamo conto che stiamo parlando di due sistemi che non hanno nulla in comune?

- La nuova Champions League: siamo seri?

L’ultima novità sarebbe quella di costituire una competizione continentale rafforzata numericamente, incrementando il numero delle rose partecipanti alla fase finale dalle attuali 32 a 36. Quattro squadre in più, su cui già si dibatte: i campionati top già pregustano di avere cinque team in partenza, mentre altri ritengono debbano spettare alle migliori qualificate della precedente stagione.

La vera rivoluzione, però, verrebbe introdotta nel sistema di qualificazione alle gare ad eliminazione diretta, vero cuore della manifestazione. Sostanzialmente, invece di un assetto basato sui gironcini a cui siamo ormai abituati, avremmo un’unica lista, in cui alcune squadre ne sfidano altre secondo cervellotici (ma non tanto, rispetto ad altre brillanti iniziative tipo la Nations League…) criteri: le squadre di prima fascia affronterebbero un certo numero di avversari appartenenti alla medesima o alle fasce concorrenti e via discorrendo. Insomma, un modello NBA attuato in Europa. Come è stato ampiamente premesso, però, questa riforma non ha alcun senso, in primis dal punto di vista tecnico: negli USA è una tradizione quella di giocare un certo numero di gare contro le contendenti, nel calcio no. Esistono gli incontri di andata e di ritorno, ci sono le classifiche, e soprattutto è una questione di mentalità: come si può premiare una squadra che affronta solo alcuni team e altri no? Che criterio è mai questo, nel mondo del calcio? Innovare è un conto, stravolgere l’essenza di una coppa è un altro.

Ovviamente, l’idea è tutta legata ai possibili risvolti economici: ma siamo davvero certi che sia così? Quale interesse potrebbe suscitare assistere a incontri che potrebbero replicarsi costantemente nel tempo? Quale sarebbe l’upgrade nell’avere un unico tabellone con 36 squadre in graduatoria? No, davvero, anche solo a scriverlo mi vengono i brividi. La tesi, condivisibile, dell’aumento delle gare internazionali è senz’altro uno spunto interessante, ma tra le molteplici ipotesi, questa appare davvero come la peggiore in assoluto.

- Alternative: ritorno al futuro!

A volte, nella morbosità di cercare di migliorare qualcosa che è già funzionante di suo, si perde di vista il fulcro della questione. La Champions League è la competizione più affascinante che ci sia, e il format attuale, a mio avviso, non meriterebbe alcun ritocco, ma se proprio vogliamo forzare la mano, c’è stato un periodo, tra il 1999 e il 2003, in cui la Champions League aveva assunto un ruolo predominante, con le squadre finaliste che sarebbero arrivate a disputare 17 gare in totale (praticamente un intero girone di campionato). La formula era anche piuttosto semplice: prima fase a gironi con 32 squadre (come adesso), e poi, invece degli ottavi di finale, una seconda fase a gironi con 4 gruppi da 4 squadre. Le migliori due per girone accedevano ai quarti di finale. Ora, qualcuno potrebbe dire che cosa ci sia di così sbagliato nel riproporre una formula simile? Avremmo un numero di partite più alto di quello attuale e, contemporaneamente, le possibilità di assistere a match di altissimo livello si incrementerebbero (pensate alla seconda fase a gironi con le attuali squadre qualificate e che spettacolo ne potrebbe venir fuori). Non solo, con questo assetto, si potrebbe anche introdurre la “Final Eight” così tanto accattivante e che potrebbe divenire un vero e proprio evento mediatico, al pari delle finali NBA.

Non si vuole guardare indietro perché sarebbe come ammettere che la coppa si sia involuta piuttosto che evoluta? Bene, costruiamo 4 gironi da 8 squadre e poi ottavi di finale. Otto match in più sarebbero davvero tanta roba e avremmo quel minicampionato che sembra essere il grande obiettivo delle potenze europee (ma la coppa è bella perché ci sono le sfide secche; se lo trasformiamo in un campionato… mah).
Se poi l’intento è quello di preparare un terreno per la Superlega… a questo punto, direi che non c’è nulla da poter aggiungere.

 

Indaco32