Mens sana in copore sano” diceva Giovenale. Il poeta latino aveva già compreso l’inscindibilità tra psiche e fisico. Serve un corpo sano per avere una mente sana e viceversa. Anche il nostro organismo è un sistema complesso in cui ogni elemento influisce sull’altro. E’ logico che, senza alcune parti del congegno, è impossibile vivere mentre altre sono sostituibili, ma tutto è collegato. Il solo rompersi un’unghia provoca fastidio anche se sovente la porzione eliminata non ha alcuna funzione utile, tanto che potrebbe essere levata con un’apposita e semplice procedura da effettuarsi tramite banali strumenti, da soli e senza alcuna difficoltà. Se si incappa in un errore, però, si può provare impiccio. Si immagini, invece, un intervento al cuore e l’osticità di operare in maniera simile. L’essere umano è una creatura magnifica che dev’essere considerata nel suo insieme altrimenti non funziona. E’ la più straordinaria esecuzione che la Natura abbia contemplato. La perfezione è essenza di Dio, ma noi siamo ciò che maggiormente le si avvicina. Un’entità così importante non può che vantare una struttura altrettanto impegnativa e sofisticata.

La testa è la guida. E’ il direttore d’orchestra che mantiene l’armonia tra tutti gli strumenti. E’ il pilota dell’areo che conduce i suoi passeggeri a destinazione. E’ il leader di un team che decide ascoltando i membri del gruppo. Insomma, è la luce. Se si spegne, è finita. In questo periodo si sta fornendo il massimo valore alla cura del corpo e, a tratti, ci si dimentica dell’anima. Provate a pensare a una persona che deve subire un ricovero ospedaliero. Entra in questo luogo che è sempre posto di sofferenza. Vede la paura. Osserva la morte da vicino. La signora di nero vestita si aggira tra i corridoi con la sua falce come nel più terribile film dell’orrore. Questa volta, però, non si può schiacciare il tasto “stop” e cambiare visione. No. Occorre rimanere lì ad assistere distrutti tale macabro spettacolo. Magari chi era nel letto vicino non ce la fa. Purtroppo la si sente appresso, ma non si hanno alternative e si deve resistere. Gli angeli sono completamente vestiti di bianco con tute giganti come fossero astronauti pronti a intraprendere un viaggio interstellare, invece, hanno esclusivamente il compito di avvicinarsi al paziente con lo scopo di provare a guarirlo. E’ solo. Nessun parente, amico o conoscente può fargli visita. Spesso ha il volto o l’intero capo coperto da una maschera che gli piomba l’ossigeno nei polmoni. Fatica a respirare. Normalmente una degenza in nosocomio è potenzialmente in grado di cambiare l’esistenza. Ultimamente è una certezza. L’uomo è fragile nel corpo e nello spirito. L’ultimo, però, può scegliere di ribellarsi. Lui può comandare e optare per una reazione. Se assume una simile decisione, forse la persona non tornerà più quella di prima perché certe esperienze la cambiano per sempre, ma vivrà. Avrà una personalità leggermente diversa, ma sarà solo un nuovo io. Migliore o peggiore? Chi lo sa. E’ soggettivo, ma la creatura ci sarà. La mente, signori, fa la differenza. Proprio per questo credo che gli operatori sanitari debbano fornire il massimo impegno per preservarla. Sono certo al 100 percento che già si stiano muovendo in tale ottica. Vorrei, però, che i pochi che ancora negano tale principio modificassero il loro parere.

La testa, quindi, è determinante e ciò vale anche nella vita di tutti i giorni. Se siamo fortunati, abbiamo l’opportunità di svolgere un mestiere che ci aggrada e allora potremo vantare un’esistenza meno oppressiva. Magari non sarà più serena perché i problemi sono sempre dietro l’angolo e molto spesso non sono legati al lavoro, ma sicuramente ci sentiremo più liberi. Se Caio avesse desiderato essere avvocato e riesce nell’impresa, faticherà a svolgere quella professione, ma credo la potrà onorare con amore e passione. Da cosa deriva tutto ciò? Dalla psiche. In base ai vari stati d’animo, si possiede una diversa capacità di concentrazione e il target potrà essere raggiunto meglio. Gli esempi sono molteplici. Quando un individuo vive uno stato d’ansia, è più semplice che riesca a compiere attività manuali piuttosto che celebrali. Se, invece, si vuole raggiungere un certo obiettivo e si hanno i giusti stimoli, le potenzialità si amplificano. Non è detto che questo venga centrato, ma sicuramente si allargano gli orizzonti e si accorcia la distanza che lo separa da qualcuno più capace, ma meno interessato al tema. Della serie: “Il ragazzo è bravo, ma non si applica”. Quante volte l’insegnante riferisce queste parole ai genitori… Esiste, al contempo, anche il caso dell’alunno che magari è superbo in filosofia, ma fatica nel momento in cui deve affrontare l’algebra. Se questi ripone grande impegno nell’ultima disciplina sicuramente può favorire il suo apprendimento. Non raggiungerà i livelli di Fibonacci, ma qualcosa lo imparerà.

Lo stesso vale per il calcio. Voglio raccontarvi una storia vera e relativa al sottoscritto. Quando ho iniziato a praticare tale sport al di fuori delle categorie giovanili, volevo fare la prima punta. Era il 2008. Avevo 19-20 anni. Da juventino, ero uno dei pochi che aveva come idoli Amauri e Iaquinta. Erano la mia fonte pallonara d’ispirazione. Desideravo imitare il loro stile e i movimenti. Come si dice dalle mie parti: C’era un però”. Quale? Il fisico. Non sono basso di statura, ma non raggiungo i 190 cm dei miei “ex” eroi. Sono dotato di ampie capacità aerobiche anche perché ho una corporatura parecchio esile. Mi basta veramente poco allenamento per correre la maratona. Nonostante tutto, sono un buon colpitore di testa. E’ chiaro, però, che alla prima botta ricevuta, cado come una pera matura. No, quel ruolo non faceva per me. Segnavo poco. Erano più le corse a vuoto o i recuperi per aiutare i compagni in fase di non possesso che i gol. La panchina divenne così il mio regno. Ci volle un po’ a convincermi che non potevo ripercorrere le imprese dei miei guru ma, quando colsi il punto, svoltai. Signori, fu necessario un cambiamento di vita. Sono quelle situazioni che capitano nell’esistenza di un individuo. Ora non voglio soffermarmi su vicende personali che non interessano e resto concentrato sulla tematica calcistica. Quando la mente decide che è il momento del reset, non vi sono alternative: occorre rispettarla, accettarla, seguirla e conviverci. Nuove frequentazioni, nuova quotidianità, nuovo stile di gioco. Avevo percepito che se mi applicavo senza pensare al gol o alla lotta fisica, che non erano nelle mie corde, avrei avuto le potenzialità per vedere le giocate. In sostanza, se volevo essere nell’undici titolare, dovevo usare la cabeza. Così lentamente sono maturato e ho arretrato la mia posizione spostandomi a esterno del 3-5-2. Nel 2013 ho cambiato squadra e modulo tattico. Mi sono riavvicinato alla porta avversaria come ala o più frequentemente seconda punta. Non sono diventato un cecchino, ma ho capito che tutto dipendeva dalla mia mente. Il mio umore post gara non derivava più dalle reti. La prestazione poteva essere positiva anche se non segnavo. L’importante era conquistare i 3 punti. La mia prova sarebbe risultata buona indipendentemente dalla marcatura, dall’assist o dalla magia. Dovevo solo svolgere il compito affidatomi e aiutare la squadra come meglio riuscivo, cioè apportando un rilevante compito tattico. Insomma, con il massimo rispetto, ero divento il Simone Pepe della situazione. Tutto questo può pure essere visto nell’ottica di una normale maturazione personale, ma la testa fa la differenza. Date le soddisfazioni iniziali, avrei potuto mollarci e smettere. La passione e l’amore per lo sport, mi ha condotto, invece, a trovare la mia confort zone.

La mente è decisiva. Non ci piove. Chi avrebbe pronosticato lo Scudetto vinto dalla Juve nel 2011-2012? Pochi. Buffon; Lichtesteiner, Bonucci, Barzagli, Chiellini; Vidal, Pirlo, Marchisio; Pepe, Matri, Vucinic. Questo era l’undici di base dei bianconeri. Il Milan, invece, era così formato: Abbiati; Abate, Nesta, Thiago Silva, Zambrotta; Nocerino, Van Bommel, Seedorf; Boateng; Ibra, Robinho. Prendete la macchina del tempo. Saliteci. Tornate indietro 10 anni che, vista la situazione, non sarebbe poi tanto male. Immaginatevi in quel periodo, quindi, con il terzino svizzero appena sbarcato a Torino. Lo stesso valeva per un 24enne centrocampista cileno che non aveva mai conosciuto la serie A. Il Principino stava assumendo lo scettro, ma non era ancora pronto a diventare Re. L’attuale mister della Vecchia Signora veniva considerato uno scarto dei rossoneri ormai a fine carriera. La BBC era ancora nell’iperuranio platonico delle idee. Sull’altra sponda, invece, si ammirava una compagine che si era appena laureata campione d’Italia. I due centrali di difesa erano una coppia solida ed elegante. A volte non si capiva se stessero giocando una partita di calcio o assistendo a un’operetta. La mediana era dotata di esperienza e classe. Dietro al dio svedese e a un forte brasiliano dai gloriosi trascorsi, agiva la perfetta icona del trequartista moderno: tale Kevin Prince che fece innamorare un’avvenente e affascinante showgirl sarda: niente poco di meno che la signora Melissa Satta. Ecco, considerate anche l’Inter, il Napoli e le varie rivali, il cammino dei sabaudi, provenienti da 2 settimi posti consecutivi, pareva segnato e piuttosto simile al passato. Non si calcolava, però, la variabile impazzita. Questa, signori, ha un nome e un cognome: Antonio Conte da Lecce. Fu lui il Demiurgo in grado di disegnare tatticamente una grande compagine, ma soprattutto di formare un’armata. Dal punto di vista mentale, quella squadra era devastante e la psiche arrivò dove il corpo non avrebbe mai concesso. La Juve era compatta. Era unita. Lo spogliatoio rappresentava una famiglia, quasi un luogo sacro. Pochi screzi e tanti sorrisi. Un sentimento di trasporto verso il raggiungimento del bene comune. La Vecchia Signora entrava in campo con gli occhi della tigre, digrignava i denti e superava ostacoli pure insormontabili. Oddio, la svista sul gol di Muntari fornì un importante aiutino, ma un campionato non si vince con gli episodi. Dopo 38 partite, trionfa chi ha meritato.

In 3 stagioni, il salentino spremette la squadra come un arancio a Natale. Così non si poteva più andare avanti perché il martello aveva spappolato l’incudine. Serviva darle tregua. Si abbisognava di un nuovo cambiamento di rotta anche per invertire un trend europeo che con il pugliese non aveva soddisfatto. Fuori Conte, dentro Allegri. La sensata spensieratezza a tratti goliardica del toscano fu utile alla stregua di una cioccolata calda dopo una giornata sugli sci. Max riportò serenità e tranquillità. Questi elementi parevano un po’ allontanati dalla sana foga sportiva del predecessore. “Ogni cosa ha un suo tempo”, si dice. Così i sabaudi non solo continuarono a trionfare in Italia, ma sfiorarono importanti traguardi internazionali facendo vivere stagioni esaltanti ai tifosi e arricchendo le casse del club. Anche in tal caso, quindi, fu necessario un clic mentale per marcare la differenza.

L’attuale Nazionale italiana mi pare molto simile alla prima Juventus di Conte. Nel 2014-2015 ebbi l’onore di seguire il Carpi come inviato sul campo. Era la prima versione biancorossa targata Castori. Ricordo ancora che, nell’estate precedente la stagione, andai a visionare la squadra in un’amichevole a Carpineti. E’ un Comune dell’appennino reggiano dove, al tempo, il Sassuolo svolgeva il ritiro. Una compagine che militava in serie A da 2 annate con un ciclo ormai consolidato, i neroverdi, contro una rivale che si preparava ad affrontare il secondo anno di cadetteria con un nuovo mister, il Carpi. Mbakogu e compagni demolirono i rivali con un gioco favoloso e un'osticità verace. Quella squadra non aveva enormi campioni. E’ vero poteva contare su Letizia, Lasagna e Inglese che tutt’ora militano nella massima categoria, ma erano giovani provenienti dalle serie inferiori o dai vivai. La vera luce fu rappresentata dalla forza mentale trasmessa dal marchigiano ai suoi ragazzi che, in Emilia, sono attualmente definiti “gli Immortali. Centrarono, infatti, la prima e unica promozione biancorossa in serie A. Vorrei che lo stesso appellativo fosse presto affibbiato agli uomini di Mancini perché credo ne abbiano le possibilità. Unione, fame, passione e volontà di raggiungere l’obiettivo non mancano. Gli azzurri non vantano tanti nomi altisonanti. Donnarumma, Emerson, Bonucci, Chiellini, Florenzi, Verratti, Jorginho, Insgine e Immobile sono giocatori di appeal internazionale, ma il gruppo non è poi così folto. Per comprendere le differenze, si pensi alla Spagna o alla Francia. Nessun calciatore che veste la maglia azzurra ha mai vinto la Champions. Soltanto i 2 rappresentanti del Chelsea hanno trionfato a livello continentale vincendo l’Europa League nel 2019. Poco conta. Il gruppo è incredibilmente unito tanto che pare di assistere al gioco di un club. Qualcuno lo ha paragonato al Barcellona di Guardiola. Forse è eccessivo. Le potenzialità, però, sono infinite perché chiunque indossi quella camiseta si trasforma. Come dottor Jekyll e mister Hide. Basti osservare le prestazioni di Federico in nazionale e Bernardeschi nella Juve. Sembrano 2 persone diverse. Eppure non può essere e non è così. A Coverciano vi sarà sicuramente un piano tattico che agevola il giocatore, ma parecchio è legato alla sua psiche.

Sì, signori. Sono assolutamente convinto che con questa forza mentale potremo vincere gli Europei. Molto dipenderà dalla capacità di rimanere sul pezzo fino alla metà di luglio dopo una stagione stressante che è praticamente attaccata alla precedente ma, se Mancini riuscirà a mantenere questo status psicologico, prepariamoci a gustarci un’estate particolare. Come Lippi nel 2006 o, per essere meno iperbolici e più realistici, come Prandelli nel 2012. Occorre solo modificare l’epilogo.

Ah, dimenticavo: nel mese di ottobre 2021, poi, sarà Final Four di Nations League tra Milano e Torino. Grazie agli azzurri, il tricolore ospiterà nuovamente un importante torneo internazionale. L’auspicio è che vi sia il pubblico con i relativi annessi e connessi di guadagno economico per i vari commercianti e albergatori. Il calcio porta benessere. Qualcuno dovrebbe ricordarselo.