"... mi scusi se la disturbo, ma lei è il figlio di Carlino?".
Tutte le mattine, dopo i miei canonici 8 chilonetri tra camminata veloce e corsa (sarò sincero, non più di novecento metri), mi fermo in una famosa pasticceria del centro a prendere il canonico "basso in vetro" che mi dà l'ultima spinta per tornare a casa. Ero nei miei pensieri quando si avvicina a me un signore, molto distinto, in là con l'età che, fissandomi, aveva fatto la domanda doppiamente interrogativa. 
Il babbo lo chiamavano tutti con il diminutivo, anche quando aveva passato abbondantemente gli anta, perchè piccolo di statura e, "quell'ino" finale era, per lui, non solo un segno di riconoscimento ma anche di fraterna amicizia. 
"Sì, certo" - affermai. Lo scrutavo negli occhi perchè aveva qualcosa di familiare ma, dopo una vita (accorgendomi poi, nel parlare, che era dal 1993 che non lo vedevo), non riuscivo a focalizzare nome ed evento. Mi prese sotto il braccio e si commosse.
"Sono Vittorio" - bisbigliò. "Caro mio, ti posso abbracciare?"; mi fu spontaneo farlo senza ricevere la risposta. 
Mi offrì il caffè e, accompagnandomi per un pezzo di strada, ci parlammo del più e del meno. La differenza di età, che allora mi sembrava quasi impertinente, adesso era riconducibile a quella di un padre e figlio. Eppure gli anni, nella forbice, erano gli stessi ma quando a due persone solcano le rughe, più o meno profonde, e i capelli si fanno d'argento sembra che il tempo sia meno riconducibile fermandosi per uno dei due.

Dopo aver attraversato Piazza S. Marco ci incamminammo verso Via Cavour e, al civico 76, dove adesso c'è una importante e imponente società privata sanitaria, quasi d'istinto, ci affacciamo come quando Salvatore, il piccolo Totò di "Nuovo Cinema Paradiso", faceva capolino sulla sala per vedere estasiato la gioia delle persone nel guardare il film proiettato...
Il 15 marzo 1991 mio padre fu eletto, all'unanimità, Segretario Amministrativo della DC. Tutto si sarebbe aspettato ma non quell'incarico. Furono Ivo B. e Maurizio M. a spingere affinché accettasse. Segretario Provinciale era Roberto B., andreottiano, della Rufina. Ritrovò il partito in pieno regime delle correnti. Una condizione quanto più negativa se guardiamo al costume democratico. Questo frazionamento aveva agevolato il ruolo del leader di corrente nella DC fiorentina.
Esistevano ben dodici raggruppamenti, con proprie sedi e relativi centri studi. Chi si arrogava il diritto di giudicare di volta in volta e magari di dissentire o condividere scelte e opinioni di un altro leader, era considerato un traditore, un voltagabbana, una persona insicura. All'interno delle correnti il sospetto era la regola, si premiavano i detentori di tessere, i leccapiedi, i senza scrupoli, i mediocri. Chi era insofferente, per la prudenza a ogni costo o per l'ossequio al capo, doveva rassegnarsi: sarebbe stato emarginato.
Queste le regole e questi i "feudi": - Giuseppe M. (con Lapo P.), leader della sinistra con il "Centro di documentazione politica"; - Francesco B., leader forlaniano con il "Centro Nuove Prospettive"; - Marco R., leader dei Popolari per la riforma "Patto Segni"; - Edoardo S., leader dei dorotei con il "Centro Studi Alcide De Gasperi"; - Bruno S., con il suo quartier generale in Borgo S. S. Apostoli;  - Carlo C., leader del Movimento per la vita; - Ivo B., leader forlaniano con il "Centro Studi Branzi"; - Raffaele T., leader di Comunione e Liberazione;  - Maurizio M., esponente del "Centro Studi A. Piccioni", bisagliano prima e poi forlaniano; - Claudio e Niccolò P., forlaniani, esponenti del "Grande Centro"; - Tommaso B., leader degli andreottiani; - Gianni C., leader di Forze Nuove, con il "Centro E. Mattei". 
Mio padre non credeva a un partito senza correnti, a un partito senza leader, ma sosteneva che tutti dovessero distruggere la ripartizione in "feudi".
Faceva parte di "Azione Popolare", la lista vincente al congresso provinciale, che raccoglieva gli amici di B. e Maurizio M., B. e Niccolò P., forlaniani e quelli di S., dorotei di G... Della maggioranza facevano parte anche gli amici di B., andreottiani, sebbene in congresso si fossero presentati autonomamente. In minoranza e all'opposizione, gli amici (che in politica non ha lo stesso significato...) della "sinistra". Vittorio D., nell'ottobre del 1990, era stato eletto Segretario del Comitato Comunale della città di Firenze, per statuto "grande centro". Non lo conosceva. Appena insediato, lo volle necessariamente incontrare per discutere diversi problemi e coinvolgere le due segreterie, comunale e provinciale, nella gestione della ristrutturazione.
II 22 marzo, pochi giorni dopo la sua nomina, il babbo convocò una riunione con Roberto B., Vittorio D., Michele G., Segretario Amministrativo Comunale, e Stefano B., Dirigente Organizzativo. Fu redatto un protocollo d'intesa sull'ordinaria amministrazione, ma concordarono anche una linea comune sulla gestione politica. Si impegnarono in un coinvolgimento reciproco. La ragione stava nella necessità di un coordinamento politico per le scelte del partito in città e nella provincia ed evitare, nei rapporti con le altre forze politiche, una non completa unità di intenti e di comportamenti. L'approccio con Vittorio D. fu positivo. Nacque un rapporto di reciproca stima e amicizia, una seria collaborazione tanto che venivano chiamati il nuovo "tandem" di Via Cavour, 76 (sede fiorentina della Democrazia Cristiana). Grande Dirigente!
Questo rapporto consentirà loro di ottenere grossi successi nelle "Feste dell'Amicizia" e non solo. Ci vollero ben otto mesi prima che mio padre presentasse al Comitato Provinciale le proprie comunicazioni sullo stato contabile, era il 15 novembre 1991. Fu un periodo di duro lavoro con tante difficoltà da superare. L'ultimo bilancio risaliva al 1988; il 1989 era ancora nella fase preparatoria. Dal 1990 la Segreteria Amministrativa era rimasta senza alcun dirigente e senza alcuna scrittura contabile. Non vi era stato neanche un "passaggio di consegne" con il predecessore, nonostante diversi solleciti.
Tuttavia, nonostante queste difficoltà, riuscì a portare un rendiconto al 28 marzo 1991.
Questi erano i numeri: 12.000 iscritti; 28 sezioni in città; 62 sezioni in provincia; 12 sezioni di Gip (sezioni delle maggiori aziende); 24 comitati comunali; 45 gruppi consiliari, 300 consiglieri comunali. Pur con la riserva delle eccezioni che i tempi della politica imponevano, era necessario giungere a una programmazione delle iniziative, in modo da consentire una loro distribuzione ordinaria e rendere possibile una pianificazione delle spese. L'improvvisazione, oltre a creare difficoltà di cassa non preventivate, portava inevitabilmente a sprechi e non consentiva di attivare tutti gli strumenti che potevano aiutare a fronteggiare i costi. In ogni caso era necessario evitare dispersioni e duplicazioni, mentre si imponeva una decisa collaborazione dei rapporti con il Comitato Comunale di Firenze. Il problema appariva delicato, perché da un lato poteva rappresentare un modo di interferire nella autonomia, ma dall'altro sottolineava la necessità di una chiara e lineare definizione delle reciproche competenze, avendo ben presenti le spese e gli impegni che erano chiamati a onorare.
Il primo atto di quella Segreteria, quindi, fu il "protocollo" d'intesa.
Ci riuscirono? Penso proprio di sì. "Quell'impegno ha assicurato a tutto il Partito" - concluse il babbo - "sul piano tecnico e operativo, una collaborazione effettivamente unitaria che ci ha permesso di risolvere alcuni problemi, non ultimo quello finanziario del Comitato Provinciale. C'era da rimettere ordine in diverse cose, precisare le rispettive competenze, aiutandoci, reciprocamente, a risolverle. Certo, non abbiamo raggiunto la perfezione, ma il bilancio può considerarsi positivo. Il mio augurio? Quello di poter continuare in questa collaborazione e l'auspicio di poterla estendere, più di quanto non sia stato fatto fino ad ora, per la parte politica. Il Comitato Provinciale di questa sera deve riuscire a chiudere, positivamente, quella "sessione aperta" dal 26 giugno u.s. per gestire, tutti insieme, la campagna politica del prossimo anno".

Il 27 gennaio 1992 risultò eletto Emilio B., della componente dorotea di G., sponsorizzato dall'On. Edoardo S. Sarebbe stato il segretario che avrebbe gestito le politiche del 5-6 aprile e prima ancora la "battaglia" per la scelta delle candidature alla Camera e al Senato.
Si apprestarono a esaminare proposte di candidature senza un disegno organico, senza nessuna consultazione, primarie e altro, senza che fossero coinvolte categorie, associazioni e movimenti. Insomma, una lista di "casa nostra". L'eccessivo prolungarsi della soluzione della crisi della Segreteria Provinciale, risolta solo alla fine di gennaio, aveva impedito di svolgere quella ricerca attenta, serena e a largo raggio che viceversa la serietà del momento avrebbe imposto. Emilio B. aveva accettato di essere il Segretario Provinciale, nonostante che le difficoltà lo consigliassero diversamente. La sensazione del babbo era che invece di preoccuparsi di tamponare la falla e ricostruire lo scafo, ci fosse l'impegno, piuttosto, a salvaguardare l'immagine e la posizione di pochi in virtù della loro storia e delle loro responsabilità. Pur apprezzando la validità e il ruolo fin qui svolto, era indispensabile non solo rispondere positivamente all'esigenza di cambiamento, così chiaramente emersa dalla Conferenza Nazionale di Milano, ma anche accompagnarlo con l'uso appropriato delle regole statutarie oltre le quali ogni soluzione avrebbe aggiunto confusione a confusione.
Nel Comitato Provinciale del 13 febbraio 1992 mio padre si fece portavoce di questi valori: "Non posso condividere la logica che tende a salvaguardare più posizioni personali che non l'interesse collettivo. E' il momento di cambiare. E' il momento di superare legittime ambizioni e interessi, pur legittimi, a favore del Partito. E' il momento di rinnovare la nostra rappresentanza, unico segnale che la DC può dare in questo momento, agli elettori. E' il momento di rispondere positivamente a una richiesta di cambiamento che la società e gli iscritti al partito vanno chiedendo. E' il momento di non deludere le speranze della gente che vede ancora nella DC l'unica soluzione alla confusione imperante. Se questo Comitato Provinciale non fosse in grado di recepire questa profonda, sentita, corale esigenza di rinnovamento e si apprestasse, viceversa, a dare soluzioni scontate, ebbene io credo che la gente non lo capirebbe e anche coloro che sono ancora consapevoli del ruolo che la DC svolge nel panorama politico ci volterebbero le spalle".

La DC fiorentina varò la lista con Carlo C. - capolista - e, a seguire, Tommaso B., Giuseppe M., Bruno S., Paolo B., Ermanno B., Carlo Piero C., Stefano C., Michele L., Carla L., Anna Maria B. O., Giovanni P., Niccolò P., Sergio S., Raffaele T. e Gianfranco V.. Per il Senato al Collegio I Edoardo S.. La Democrazia Cristiana, nella circoscrizione Firenze-Pistoia, ottenne il 20,12% dei voti e soltanto quattro eletti.
Primo risultò Tommaso B. con 18.678 preferenze, Carlo C. con 17.568, Giuseppe M. con 15.367 e Raffaele T. 10.418. Giovanni P. riportò soltanto 4.401 voti. Nessun Senatore eletto. Edoardo S. risultò l'ultimo nella graduatoria regionale con 22.620 preferenze. Gli elettori avevano voltato le spalle alla DC. Lentamente verso la fine. "Quando votammo la lista per le politiche, c'eravamo tutti. Nessuno escluso! Ci macchiammo del vizio dell'opportunismo. Sul potere ci unimmo e per il potere siamo finiti".
Cosi iniziò il babbo l'intervento nella seduta del Comitato Provinciale del 17 aprile 1992 nel commentare i risultati elettorali. "...dobbiamo andare tutti a casa, compreso il sottoscritto. La riunione di questa sera è un modo ideale per passare dalla fase di puro dibattito a quella operativa con la formulazione di proposte. Il nostro partito, come tutti gli altri del resto, non è stato in grado di rendersi conto dei reali problemi e dei movimenti di idee che si sviluppavano al nostro esterno, con una massa di iscritti che aveva perso la coscienza critica ritrovandosi a essere facilmente manipolata. Un partito così logorato è diventato facilmente uno strumento inadeguato alla sua funzione. Gli uomini di partito non sono più riusciti a cogliere le necessità della base, né questa ad influenzare il vertice finendo per conservare una classe di potere e assolvendo solo alla funzione di mantenere se stessa nella propria situazione. I parlamentari hanno assolto la funzione di mantenersi nella situazione di privilegio conquistata dando l'impressione di preoccuparsi più che del partito dei loro ulteriori possibili successi elettorali. Il partito si era trasformato in una federazione di gruppi, dominati da oligarchie. In ogni gruppo si era costituito un insieme di condizionamenti, etichettando tutti e tutto. Ogni appartenente ad altri gruppi veniva considerato un conservatore, un reazionario, un attivista, un massone, indirizzandoli in lotte politiche personalistiche contro questo o quel personaggio. In base a tutto questo il proprio gruppo era considerato depositario del "vero", del"giusto" e con idee nuove. Tutto questo è finito? Per riformare la nuova DC è necessario risolvere prima di tutto il problema dei nostri rapporti. Andremo incontro alla fase dei congressi: comunale, provinciale, regionale e quello costituente, il nazionale a giugno. Dalle prime avvisaglie di presentazione il problema mi sembra sia stato impostato da alcuni secondo schemi tradizionali e secondo la logica di risposte altrettanto tradizionali, impostando nei termini, ancora, di "nuova maggioranza" un uso antico: una sommatoria verticistica con candidature precostituite. Una nuova maggioranza cosi intesa è un vecchio strumento la cui inadeguatezza è palese. Tutto questo non ha più senso. Oggi le "maggioranze" sono valide solo se si costituiscono dal basso attraverso l'adesione dei singoli a un nucleo di idee e quando tutti partecipano in qualche modo alla elaborazione e allo sviluppo delle idee stesse senza escludere nessuno. Nessuna fiducia quindi può essere riposta in operazioni di vertice che tendono, attraverso spaccature di vecchi gruppi, a ricostituzione di altri formalmente diversi ma sostanzialmente identici. Solo una "unità" espressa dal basso potrà essere lo strumento idoneo a instaurare una nuova politica per una vera rifondazione. Il problema va posto in termini nuovi. L'invito che rivolgo a tutti è quello di sollecitare uno sforzo unitario nel partito, ciò può essere realizzato partecipando alla elaborazione nei dibattiti, assumendo posizioni concordi con lo spirito del rinnovamento. Le prese di posizione personali sono da considerarsi la migliore forma di adesione. Vi è una netta contrapposizione fra il modo di procedere dei movimenti chiusi che porta il partito ad essere una federazione di interessi, e il metodo dell'assunzione di responsabilità personale. Questo metodo tende a spostare il discorso sul concetto di partito rinnovato, inteso come strumento al servizio della collettività."

Quello che successe a livello locale ma soprattutto nazionale ha già, idealmente, macchiato d'inchiostro i libri di scuola...
L'ultimo congresso della DC a cui partecipò fu tenuto nel teatro del Circolo Cattolico dell'Impruneta, il 22 e 23 maggio 1993. Dopo la relazione del Segretario uscente Emilio B., era inusuale che in un congresso provinciale il Segretario Amministrativo tenesse un proprio intervento. Forse qualcuno pensava che potesse essere una novità dei tempi, viceversa, mio padre riteneva necessario che a conclusione di un mandato occorresse anche fare il punto della situazione economico-finanziaria. Era la prima volta nella DC fiorentina. Dopo il suo ultimo incarico del 1966 come dirigente, era seguito un lungo periodo lontano da impegni "diretti", quando il 15 marzo 1991 fu eletto Segretario Amministrativo. Sapeva della grande responsabilità che andava assumendo. Il Segretario di allora era Roberto B. della Rufina. Le esperienze che aveva maturato, collaborando con amici che avevano lasciato traccia della DC fiorentina, erano stati utili sul piano politico, ma di nessun aiuto sul piano pratico. In due anni aveva avuto pochi collaboratori, ma tanti buoni amici. La sua fu una amministrazione molto oculata, priva del superfluo con una corretta gestione del personale. La realizzazione di due feste dell'Amicizia portarono in parità il bilancio.
Nel concludere il suo intervento volle sottolineare che ci sarebbero stati tanti cambiamenti. Forse, lo stesso modo di riunirsi a congresso, sarebbe stato diverso. La questione morale, tangentopoli, lo stravolgimento dei riferimenti politici sul piano nazionale, l'essenza stessa del partito, erano messi in discussione in un accavallarsi di ipotesi e di proposte indescrivibili. La situazione era cosi ingarbugliata che quanti avevano il compito di passare il "testimone" sembravano adattarsi più alle circostanze, piuttosto che tracciare rotte.
Ma una cosa era certa, la sua generazione doveva lasciare il passo: lui l'aveva sempre creduto, fin dall'inizio, altri ne erano obbligati! Potevano adattarsi a parlare di rinnovamento generazionale, di regole nuove e di nomi nuovi; forse superficiale, ma a lui pareva che sarebbe stato sufficiente per tornare a essere credibili e rifare loro i princìpi dell'azione che erano poi quelli che avevano il potere di risvegliare l'orgoglio ma anche la soddisfazione di essere democratici cristiani.
Avviandosi verso la fine del suo intervento aggiunse: "... consentitemi però di aggiungere che sbaglierebbe chi pensasse di ritornare ai nostri antichi ideali adottando metodi contrari alla giustizia, alla solidarietà, alla stessa carità; lasciatemelo dire: non si può raggiungere fini giusti percorrendo strade sbagliate. Vedete, cari amici, il motivo per il quale vinco una certa mia ritrosia a intervenire in pubblico è anche quello di salutare non soltanto voi che siete presenti ma anche quanti piccoli e grandi hanno pensato di darmi una mano in questa mia ultima fatica per il partito. In particolare lascio il mio incarico con la consapevolezza di consegnare al mio successore una situazione più tranquilla e la soddisfazione di aver provato anche a me stesso che per costruire, oltre a parlare, bisogna saper lavorare. Lascio però anche con la tristezza motivata da una situazione generale molto preoccupante e con il rimpianto del modo di fare e di essere in politica di maestri ormai scomparsi. Ho finito!". Non ricordo se ricevette o meno l'applauso finale, ricordo invece che lasciò subito la sala del congresso accompagnato dall'amico Vittorio per non farvi più ritorno.

 

"Ti ricordi quella scalinata?" - esplodendo in una calorosa risata. "In vetta c'è il Paradiso" - diceva il babbo, quando udiva le persone all'ingresso che chiedevano del segretario. "Adesso, invece, è presente una elegante pre-accettazione con signore di bella presenza per "filtrare i pazienti" che devono eseguire gli esami, mah...".
Ci salutammo forte forte. "Lo sai vero che quella sera all'Impruneta aveva capito che era la fine?".
"La fine o l'inizio Vittorio?". 
"Non è il cammino che è difficile, è il difficile che è il cammino..." - ricordalo Ginni.

Ritornai a casa e, dopo una doccia infinita, mi abbandonai sul divano. Non ricordo se chiusi gli occhi, assopito, o se pensai non vedendo. "Vattinni! Fino a quando ci sei ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno, due, e quando torni è cambiato tutto: si rompe il filo. Non trovi chi volevi trovare. Le tue cose non ci sono più. Bisogna andare via per molto tempo, per moltissimi anni, per trovare, al ritorno, la tua gente, la terra unni sì nato. Ma ora no, non è possibile. Ora tu sei più cieco di me". 
Il mio peregrinare può portare a perdersi o ritrovarsi; in fondo, anche il più lungo viaggio inizia con un singolo passo.