Il vocabolario Treccani definisce lo stereotipo come “opinione precostituita, generalizzata e semplicistica, che non si fonda cioè sulla valutazione personale dei singoli casi ma si ripete meccanicamente, su persone o avvenimenti e situazioni”. Lo stesso dizionario afferma che il pregiudizio sia una “idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore.” Non è intenzione di chi scrive analizzare a fondo la differenza tra i citati concetti. Le scienze sociali operano una distinzione dettagliata e ben strutturata nella quale si preferisce non addentrarsi. Scusandosi con gli esperti di tale ambito, pur essendo consci della diversità delle nozioni, ci si limita a considerarle in senso generale pur sapendo che alla seconda viene solitamente fornito un significato negativo. Il preconcetto rappresenta una situazione alquanto fastidiosa, che può divenire logorante su chi la vive. Molto spesso la realtà pone gli individui di fronte a questa tematica e non è un caso se parecchie opere la trattano sotto diverse sfaccettature. Tra queste si pongono 2 film italiani che nella loro schiettezza hanno il grande pregio di rappresentare il contenuto in maniera assolutamente chiara e comprensibile. Mi riferisco alla pellicola di Luca Miniero dal titolo Benvenuti al Sud e al suo sequel, diretto dal medesimo regista, e chiamato Benvenuti al Nord. Osservando attentamente queste opere si può avere un’idea piuttosto precisa di cosa comporti il pregiudizio.

Il mondo del calcio pare essere assolutamente vittima dei citati preconcetti. Sembra che questa sia una verità piuttosto innegabile e molto spesso chi non ha la passione per tale sport vede i suoi protagonisti attraverso la lente di credenze prestabilite. Non essendo interessati alla realtà dei fatti, è chiaro che non si può conoscerla approfonditamente. Proprio per questo, forse, sarebbe più opportuno farsene un’idea concreta e non fondare l’opinione sul pregiudizio. Onde evitare di ricadere nel medesimo errore, urge sottolineare come non vi sia necessità consequenziale tra il mancato amore per il pallone e l’appellarsi al citato cliché che invece può appartenere del tifoso.

Recentemente ho avuto la fortuna di leggere la lettera che il 41enne Buffon ha scritto a se stesso, giovane Gigi alla soglia della maggiore età. Questo capolavoro è stato pubblicato da “The Players Tribune”. Non ricordo bene quale fosse il riferimento, ma ho ancora nella mente alcune parole che Daniele Adani pronunciò durante un avvenimento: “si tratta di insegnamenti di calcio e di vita”. Ora mi scuso con il famoso opinionista di Sky se la sua definizione non è stata riportata esattamente alla lettera, ma mi sembra che quanto affermato corrisponda al significato del concetto che voleva rimarcare. Prendo in prestito la sua dotta e geniale affermazione per collegarla all’epistola del portiere toscano. E’ un componimento ricco di tante realtà che servirebbero pagine su pagine per poterlo analizzare nel profondo. E’ un’opera che si potrebbe tranquillamente sottoporre agli studenti per la portata dei concetti che manifesta. E’ un capolavoro e mi sento di utilizzare tranquillamente questo vocabolo a volte abusato.

“La tua anima. Ne hai una, che tu ci creda o no

La lettera di Buffon conferma e allo stesso tempo smentisce tutti i pregiudizi relativi ai calciatori e del quale lui è una delle principali vittime. “Iniziamo dalle cattive notizie. Hai 17 anni. Stai per diventare un vero calciatore, come nei tuoi sogni. Credi di sapere tutto. Ma la verità, amico mio, è che non sai nulla.” Il toscano sembra sottolineare come il giovane uomo che si affaccia alla fama e alla gloria tipica di questo sport affronti la situazione troppo sovente in modo spavaldo. Gonfio d’orgoglio dettato dalla consapevolezza di essere arrivato in un mondo di eletti si comparta come se dovesse mostrare di essere diverso dagli altri proprio per distinguersi da quella massa dalla quale gli pare di essersi elevato. “Tra qualche giorno avrai la possibilità di esordire in Serie A con il Parma e non lo capisci abbastanza per avere paura. Dovresti essere a letto, a bere latte caldo. E invece cosa fai? Vai in un locale a bere una birra con il tuo amico della Primavera. Bevi una sola birra, vero? Ma poi esageri un po’. Pensi di essere il personaggio di un film. L’uomo forte. È così che abitualmente gestisci la pressione che non sai neanche di provare. Tra poco sarai fuori dalla discoteca a discutere con alcuni poliziotti all’una di notte. Dai, vai a casa. Vai a dormire. E ti prego, non fare la pipì sulla ruota della macchina della polizia. I poliziotti non lo troveranno divertente, la società non lo troverà divertente e rischierai di compromettere tutto ciò per cui hai lavorato.” Prosegue: “È questo il tipo di situazione in cui ti caccerai senza motivo. C’è un fuoco dentro di te che ti porterà a fare tanti errori. Certo, pensi di dimostrare ai tuoi compagni che sei forte e libero ma in realtà è una maschera protettiva che porti.”. Pare che la realtà sia un'altra. Forse nel loro inconscio, questi uomini non si sentono dei. Semplicemente sono catapultati in situazioni che per chiunque sarebbero estreme. Alla domanda relativa alla pressione che potesse sentire il 22enne Benassi divenuto capitano del Torino, Mihajlovic giustamente rispondeva che un tale sentimento debba essere provato da chi si spacca la schiena tutto il giorno per cercare mantenere una famiglia con un salario insufficiente. Affermazione corretta al punto da essere ineccepibile. Si cerchi, però, di comprendere anche il ragazzo che non ancora maggiorenne si trova a dover affrontare la grande platea calcistica. Dall’ultimo tifoso, al giornalista, all’addetto ai lavori, tutti sono pronti a giudicare senza la minima remora e quello che si è creato con tanta fatica è continuamente a rischio di essere posto alla berlina. Non è semplice. Troppo sovente ci si dimentica che si è di fronte a esseri fatti di carne e ossa. Non sono automi programmati che dopo la partita o l’allenamento vengono spenti per essere riposti in qualche rimessa. Sono individui che hanno una loro personalità. “La tua anima. Ne hai una, che tu ci creda o no” dice Buffon. Quando si ritrovano soli, lontani dalle luci della ribalta sicuramente riflettono su quanto è accaduto e potrà succedere ancora. Piangono, soffrono, ridono e gioiscono esattamente come ognuno di noi. Di fronte a quei sentimenti, qualsiasi somma di denaro si detenga sui più svariati conti correnti è assolutamente inutile. Non fa alcuna differenza. Sono come noi e devono essere trattati alla stregua di qualsiasi altro individuo. Non bisogna scordarselo. Pure le scene di delirio alle quali si assiste con fans esagitati nel contemplare la quasi mistica figura del loro beniamino rappresentano qualcosa che trascende la realtà e non è certamente utile alla celebrità per divincolarsi dalle pressioni. E’ assolutamente fondamentale una normalizzazione della loro esistenza: “Se vivi in modo nichilista, pensando solo al calcio, la tua anima inizierà a cambiare. Alla fine sarai così depresso che non avrai più voglia di alzarti dal letto. Puoi ridere se vuoi, ma succederà a te. Succederà al punto più alto della carriera quando avrai tutto ciò che potrebbe volere un uomo dalla vita. Avrai 26 anni. Sarai il portiere della Juventus e la Nazionale. Avrai soldi e rispetto. La gente ti chiamerà addirittura Superman. Ma non sei un supereroe. Sei un uomo come gli altri.”. Non importa la posizione che si occupa. Ognuno di noi è un essere umano e come tale deve essere trattato.

“È per questo che sei diventato un calciatore. Non per i soldi o la fama. Per l’arte e lo stile di quest’uomo, Thomas N’Kono. Grazie alla sua anima”

La lettera prosegue con il magnifico ricordo di Gigi relativo a come nacque la sua passione per il ruolo di portiere. Il carrarese ricorda il Mondiale del 1990. Quello italiano cantato da Nannini e Bennato nell’inno rimasto impresso nella storia del nostro calcio e chiamato Notti Magiche. La gara che diede avvio alla kermesse era tra Argentina e Camerun. Si giocava a San Siro. Buffon, 12enne, seguiva la sfida in una stanza buia al fine di proteggersi dalla canicola che durante il mese di giugno accaldava la Toscana. La nonna era in cucina a preparare il pranzo e Gigi si “innamorò” dell’estremo difensore africano, Thomas N’Kono. Il ragazzo non sapeva nemmeno dell’esistenza della nazionale che riuscì a sconfiggere la Seleccion di Maradona, ma fece un tifo sfrenato per quella squadra. Il numero 77 della Juve si rende ora conto di come a colpirlo non furono le capacità del suo idolo, ma quello che rappresentava. “Non vuoi fare semplicemente il portiere. Vuoi fare questo tipo di portiere. Vuoi essere selvaggio, coraggioso, libero.”. Non vi è situazione migliore di quella per la quale ci si innamora di una professione perché tramite essa si percepisce la possibilità di tramettere qualcosa. Questo si può avere anche nel calcio. Il giocatore che intraprende tale carriera non lo fa sempre con la volontà di vincere trofei, guadagnare cifre spropositate o avere fama. I soldi e la fama non sono l’obiettivo. Se non ti prendi cura dell’anima, se non cerchi ispirazione fuori dal calcio, ti deteriorerai. Vi sono i più svariati motivi che conducono il ragazzo verso l’apice di questo sport e può capitare anche che il pallone tolga la persona da situazioni potenzialmente pericolose. Si pensi a Carlos Tevez. Viveva nella Boca, uno dei quartieri con il maggior tasso di criminalità di Buenos Aires. Ecco che si prova a sfatare un altro pregiudizio perché c’è chi, grazie al calcio, è riuscito a emergere da situazioni di completa povertà. Non è sempre vero che chi occupa posizioni prestigiose lo abbia fatto solo per una sfrenata ambizione.

La depressione e Chagall

Marc Chagall è un pittore russo naturalizzato francese e vissuto nel corso del 900. Come si collega la depressione, terribile malattia dell’anima umana, con questo grande artista? Buffon racconta che ormai la routine lo stava logorando e questo tremendo “morbo” lo aveva colpito tanto da rendergli difficile anche la più banale attività di vita quotidiana. Un giorno, mentre andava ad allenamento, Gigi notò una mostra dedicata proprio a Chagall in un museo di Torino. Come spinto da una forza esterna nella quale qualcuno potrebbe vedere anche la famosa Divina Provvidenza manzoniana, il portiere fu convinto a visitare quelle opere. Ne notò una chiamata La Passeggiata. Fu un colpo di fulmine. Il toscano venne assorbito completamente da questa immagine che definisce “quasi infantile. Un uomo e una donna fanno un picnic al parco, ma è tutto magico. La donna vola via verso il cielo come un angelo ma l’uomo rimane in piedi a terra tenendola per la mano, sorridendo”. Tutto questo è utile a riportarlo alle origini che ormai la routine della sua professione aveva condotto nel dimenticatoio. “Quest’immagine ti trasmetterà qualcosa di un altro mondo. Ti farà sentire come un bambino. La sensazione della felicità nelle cose semplici. La sensazione di Thomas N’Kono quando respingeva la palla a 30 metri con i pugni. La sensazione di tua nonna che ti chiama dalla cucina. La sensazione di sederti dietro il televisore, pregando. Invecchiando si possono dimenticare facilmente queste sensazioni.”. A questo punto Buffon ricorda di quando era giovane giocatore del Parma e, sentendosi un leader di quella squadra, decise di stamparsi sulla maglietta la scritta “Boia chi molla”. Gigi aveva visto questo aforisma su un banco a scuola e non ne sapeva il significato intrinseco. Gli pareva un semplice slogan che potesse essere utile a caricare i compagni. In realtà provocò grande sofferenza a lui e alla famiglia. “Ma questi sbagli sono importanti perché ti ricordano che sei umano. Ti ricorderanno in continuazione che non sai nulla, amico mio. Questo è importante, perché il mondo del calcio cercherà di convincerti che sei speciale. Ma devi ricordarti che non sei diverso dal barista o dall’elettricista di cui sei amico da una vita”. Ecco il capolavoro finale che pare racchiudere tutto il pensiero del toscano degno ormai di un’opera filosofica. Chiunque ricopra un qualsiasi ruolo che comporti fama e responsabilità non deve mai dimenticare che ha il medesimo valore di ogni altro individuo. Se il narcisismo porta a oltrepassare tale concetto, è meglio abbandonare la propria fama onde evitare di recare danni a se stessi o agli altri. La nuda e cruda ambizione determina il rischio concreto di voler superare i limiti sentendosi quasi una divinità. Così non si teme nulla e ci si percepisce onnipotenti distruggendo tutto quello che ci si para davanti compreso la propria anima.

Grazie Gigi!