Continuavo a guardare il soffitto bianco. Beh, bianco sporco. Soprattutto negli angoli era veramente una porcheria. Non male per essere un ospedale. Ero sdraiato su una panca di legno, le mani giunte dietro la nuca, e mi facevano compagnia decine di mosche che giravano circolarmente in centro alla stanza. Me lo sono spesso domandato. Perché si rincorrono in un circolo vizioso sempre in corrispondenza del punto centrale di un ambiente? Boh… “Speriamo che funzioni. Speriamo che funzioni”, continuavo a ripetermi. Proprio in quel momento si aprí la porta. “Venga, tocca a lei”. Mi trovavo all’ospedale militare di Baggio, a Milano. Anziché rientrare al “Corpo”, come si diceva una volta, (in caserma), a fine licenza mi ero presentato al Pronto Soccorso lamentando malesseri vari…A volte lo si faceva, quando non c’era molta voglia di tornare in caserma. Si fingeva qualche malanno, più o meno attendibile. Dopo qualche esame di routine, o si veniva rispediti in caserma o si spuntava qualche giorno di convalescenza. Il mio obiettivo. Nulla di cui essere particolarmente orgoglioso. Era il 16 Marzo 1979, un venerdì mattina. Sapevo che gli accertamenti clinici avrebbero richiesto tempo e, come minimo, il sabato e la domenica sarei rimasto a Milano. Si, ok, ma dentro un ospedale e oltretutto militare, direte voi. Al tempo! Al tempo!* Così come si diceva in gergo militare, dopo ci arrivo.
*Al tempo!: espressione di uso frequente nel linguaggio di ufficiali e sottufficiali: implica una pausa in un discorso o ragionamento; equivale a : "un momento…".
Entrai nella stanza, poco illuminata, dove c’era un medico poco rassicurante, molto magro e con due pronunciate fossette sulle guance. Avrà avuto un sessantina di anni. Non proprio l’immagine della salute. Mi disse: “Si tolga la maglietta e salga su quella pedana”. E a seguire: “Trattenga il respiro”. “Ok, adesso si rivesta e aspetti fuori”. Radiografia all’addome. Aspettai fuori. Non l’esito, per quello ci voleva tempo, doveva confermarmi la buona riuscita dell’esame.
“Speriamo che funzioni, speriamo che funzioni” mi ripetevo in continuazione.
Poco prima, nella sala delle mosche, avevo incontrato un ragazzo, anche lui ricoverato. Mentre parlavamo del più e del meno mi aveva proposto, aprendo il pugno della mano, “Prendi due di questi, vedrai che funziona!”. Mi si era annebbiata la vista, mai stato tipo da sostanze illegali. Il turbamento non mi fece notare che il commilitone teneva in pugno due chicchi di caffè. “Caffe?” gli domandai.
“Si”, mi rispose, “se li ingerisci senza masticare, risulteranno due macchie nell’esame radiografico e sicuramente resterai qui evitando la caserma, almeno per ora”. Perplesso ma motivato, deglutii i due chicchi. Stupido…La maniglia cigoló e la porta si aprì. Mentre mi tremavano le gambe il dottore disse: “Può andare, può andare”. Feci un sospiro di sollievo. Gaeta, luogo del carcere militare, minaccia costante da parte dei superiori, per il momento poteva aspettare. Forse l’avevo scampata. Tornai in camerata.
Indossavo un pigiama militare. All’atto del ricovero ti venivano requisiti i vestiti da borghese, li trattenevano loro. Ti davano un pigiama giacca e pantaloni blu con ciabatte, di due taglie più grandi. Nel corridoio che portava verso la camerata, una delle tante dell’enorme ospedale militare, incontrai il commilitone del caffè. Ci presentammo, si chiamava Marco. Mi chiese come era andata e gli risposi: ”Per ora tutto bene”. Iniziammo a parlare. Era di Baggio, zona periferica di Milano, poco lontano dall’ospedale. Scoprii che abitavamo non lontani tra noi e, di li a poco, mi aprì un mondo.
“Dalle ore 13:00 del sabato fino alle 24:00 della domenica, qui non fanno né visite né contrappelli. Gli ufficiali di fatto non ci sono. Ci sono solo gli Sten (sotto tenenti di leva) poco inclini ai controlli. Puoi fare quello che vuoi”.
“In che senso?”, chiesi.
“Puoi uscire e fare i tuoi comodi. L’importante è rientrare prima delle diciotto della domenica”.
“ Beh certo, con un pallone aereostatico e un po’ di fortuna potrei non essere visto mentre mi allontano…”
“Ma no, ma no. Si scavalca dal muro di cinta posteriore!”.
Quando ero entrato in ospedale, per il ricovero, avevo notato un cartello che diceva: “ Attenzione, zona militare, limite invalicabile”. Era fissato a un muro molto, molto alto. Appunto mi sembrava invalicabile….Poi aggiunse:
“Il retro dell’ospedale da su una via poco trafficata, (via Labus, per chi conosce la zona, ndr). Da lì si può scavalcare.”
“Come si fa a scavalcare un muro di cinta di almeno 3/4 metri di altezza?”gli chiesi pensando: “Mi ha forse preso per l’uomo ragno?”
“Ci sono delle tacche sul muro e una corda che pende appesa a un vicino albero”
Mentre elaboravo l’informazione, Steve Mc Queen, protagonista del film Papillon, tratto dall’omonimo libro, impallidiva nei miei ricordi.
“Ma figurati, se ne siamo a conoscenza noi, lo sapranno…se facciamo una cazzata ci beccano!”. Sono passati tanti anni, non ricordo come fece ma mi convinse a fare un sopralluogo. Mi condusse per una serie di corridoi finché sbucammo, attraverso una porta finestra, in un cortile sul retro a poche decine di metri dal muro di cinta. Proseguimmo sul prato, lui davanti e io dietro. Superato un cespuglio, osservai e rimasi sbigottito. C’era una fune che pendeva dal ramo di un robusto albero, aderente al muro di cinta. Ripensai a Papillon, che a questo punto era Marco. Io mi sentii come Louis Degas, socio delle fughe nel romanzo di Henri Charrière.
Sulla parete del muro era stato grattato l’intonaco e c’erano delle tacche della profondità di pochi centimetri. Sufficienti però a puntarsi con i piedi per arrampicarsi. Erano alternate a mò di scaletta. Incredibile! Mi spaventai abbastanza, ma contemporaneamente mi arrivò una scarica di adrenalina. Mentre tornavamo indietro, mi voltai due o tre volte, per verificare di non essere stati visti. Tutto liscio. L’idea mi allettava. “Domani, sabato pomeriggio, mi eclisso. Passo il sabato sera con gli amici. Dormo nel mio letto. Posso telefonare al mio amico di infanzia Fausto, (protagonista con me di un’altra storia che ho pubblicato), magari domenica pomeriggio andiamo a San Siro, c’è il derby, Inter-Milan. Finito l’incontro raggiungo l’ospedale, molto vicino allo stadio. La visita parenti è dalle 17:00 alle 18:00 e tranquillamente con i miei abiti borghesi rientro dall’ingresso principale. Perfetto!”.
Il progetto si autodistruggerà tra 60 secondi, 59, 58, 57….Mmmh… 60 secondi? No, molto, molto, prima. “ Che scemo”, pensai , “come faccio a scavalcare e raggiungere casa, vestito come un detenuto di Sing Sing?”. Il pigiama blu e le pantofole (sempre quelli di due taglie più grandi) sarebbero saltati all’occhio. Non mi ci vedevo prendere il tram verso casa così vestito. Ad un tratto, l’idea. Potrei telefonare a mio padre dicendogli di farsi trovare sabato pomeriggio in via Labus, sul retro dell’ospedale militare, con il suo furgone. Una volta scavalcato sarei saltato subito dentro, al riparo. Magari chiedendogli di portarmi degli abiti borghesi. Si poteva fare. Ne parlai con Marco, e mi disse convinto: “Vengo con te”.
La mattina di sabato, dopo il contrappello, passò veloce. Io e Marco ripassammo il piano. “Scavalchiamo, ci infiliamo nel furgone. Io mi cambio d’abito. Tu puoi restare vestito così. Ti lasciamo davanti casa. Ci si vede al rientro domenica pomeriggio”. A mezzogiorno arrivarono le suore che distribuivano i pasti e, avendo lo stomaco chiuso per la tensione, avanzammo quasi tutto. Ora il tempo rallentava e non passava mai. Le 13, le 13:30. Poi arrivò il momento. L’appuntamento era alle 14:00. E, come in tutti i piani che si rispettino, ecco l’imprevisto. Iniziò a diluviare, una pioggia incessante e battente che avrebbe complicato la fuga.
Percorremmo il tragitto fatto il giorno prima. Aprimmo la porta finestra e ci avvicinammo veloci al muro di cinta vicino all’albero. Il tempo di arrivare a ridosso dello stesso ed eravamo bagnati fradici. A me, le solite ciabatte, scappavano da tutte le parti correndo sul prato e nel fango. Ai piedi del muro ci guardammo e in silenzio, con un segno di intesa, salii per primo. Non so come feci, si scivolava e la corda era intrisa d’acqua. Sormontai con la testa la cima del muro. Guardai a destra, poi a sinistra, la visibilità era ridotta a causa della pioggia. Poi vidi il furgone. Non era a metà via come d’intesa. Era in fondo, sull’angolo, a qualche centinaio di metri. Eppure ero stato chiaro: avremmo scavalcato a metà via circa. Non avevamo scelta. Indietro non si torna. Scavalcammo entrambi. L’atterraggio fu attutito dall’erba incolta che c’era fuori. Corremmo, corremmo a perdifiato verso il furgone. Appena ci vide, mio padre aprí il portellone laterale e ci lanciammo dentro. Ansimavo come un maratoneta all’arrivo, volevo parlare ma non ci riuscivo. Poi, una volta ripreso fiato dissi: “Ma papà, perché ti sei fermato qui?” Mio, padre, un uomo dolcissimo che per i suoi figli avrebbe fatto qualsiasi cosa, rispose :”Facendo la curva ho preso un’enorme pozzanghera e il motore si è spento….” Giove Pluvio ci aveva messo lo zampino, anzi lo zampillo… Non mi persi d’animo. Mi cambiai d’abito velocemente. Scesi dal furgone, da solo, e mi avviai al parcheggio dei taxi che c’era dalla parte opposta, all’ingresso dell’ospedale. Salii, facemmo il giro, salirono anche mio padre con l’amico e ci avviammo verso casa (il furgone lo recuperò mio padre il giorno dopo. Partì al primo tentativo, una volta che lo spinterogeno si fu asciugato).
Appena giunto a casa, dopo la romanzina di mia madre su quello che avevo fatto e sulle conseguenze che avrei potevo subire, telefonai al mio amico Fausto, compagno di infanzia. Lui aveva la mia stessa età ma mentre io avevo ricevuto la cartolina per partire e presentarmi in caserma lui era stato congedato. Pare che del nostro anno di nascita fossimo in troppi e molti furono appunto congedati per esubero. Curioso. Io e mio fratello facemmo il militare entrambi, persino accavallandoci per qualche mese. Lui, figlio unico, no… mah! Ci mettemmo d’accordo per andare a vedere il derby la domenica pomeriggio.
La mattina seguente dormii parecchio. Una volta alzato, una veloce colazione e poi via verso lo stadio. Andammo molto presto. Il fischio d’inizio era previsto per le 14:30 e non avevamo i biglietti d’ingresso. Alle undici aravamo già sotto San Siro. I cancelli venivano aperti a mezzogiorno e ci mettemmo alla ricerca di un bagarino. Per i pochi che non lo sanno, i bagarini erano dei venditori abusivi di biglietti che rivendevano i tagliandi acquistati in grandi quantità mettendoci un sovrapprezzo. Non ricordo con precisione, sono passati molti anni, ma fu un bel salasso. Entrammo e ci sedemmo nei posti cosiddetti “popolari”. Il settore più economico corrispondente al secondo anello di oggi, in curva.
Era in cartello Inter Milan, Eugenio Bersellini sedeva sulla panchina dei nerazzurri, Liedholm su quella del Milan. Erano i tempi di Altobelli, Oriali, Marini, Beccalossi e Muraro da una parte. Dall’altra Baresi, Maldera, Novellino, Bigon e Capello, per citarne solo alcuni. L’Inter dominò l’incontro, con molte occasioni da gol e fallendo un rigore con Altobelli ipnotizzato dal quarantenne Albertosi. Dopo l’errore dal dischetto i nerazzurri spinsero con più rabbia trovando il meritato vantaggio con Oriali. Raddoppio ad opera di Altobelli. A dieci minuti dalla fine doppio vantaggio dell’Inter. Poi, grazie ad un Fabio Capello ispiratissimo, la clamorosa rimonta grazie a una doppietta di De Vecchi. Risultato finale : Inter Milan 2 a 2. Scudetto della stella al Milan a fine stagione. Mentre con Fausto scendevamo le lunghissime rampe di San Siro, guardai l’ora. Erano le 16:25, in perfetto orario per la visita parenti all’Ospedale Militare, apertura alle 17:00.
Avevo raccontato tutto al mio amico, era come un fratello per me. Mi era parso molto divertito della mia bravata, ma sotto sotto rimango convito che si preoccupò parecchio, tanto che mi disse: “Ti accompagno, mi faccio un giro dentro anch’io, poi esco”. “Ok” gli risposi, quasi con sollievo, me la stavo facendo sotto. Il senso di colpa cresceva dentro di me. Non dovevo fare ‘sta roba. Nel mentre risentivo i rimbrotti di mia madre. Poche fermate di un autobus (ricordo che aveva il numero 49) e fummo davanti all’ingresso del nosocomio. Non dovevo avere una bella cera, Fausto mi disse: “Tranquillo, cosa vuoi che succeda, al massimo ti spediscono d’urgenza in caserma”. “Già” pensai io, senza però rispondergli. Mi stavo immedesimando nella parte del parente che va a trovare un congiunto ricoverato. Mente ci avvicinavamo all’ingresso, passando davanti all’Ufficiale di Picchetto, mi sentivo tutti gli occhi addosso, come se gli sguardi di tutte le persone fossero su di me, mi parve anche di sentire qualcuno sghignazzare. Non ero agitato, di più! La salivazione azzerata di Fantozzi mi faceva compagnia. Con passo veloce passammo il presidio, poi a destra, dritto fino in fondo, poi a destra di nuovo e due corridoi a sinistra. Poi, superato un enorme stanzone, ancora a sinistra e… A quel punto Fausto mi prese per il braccio e chiese: “Siamo in ritardo o siamo dentro la zona bersaglieri?” Aveva ragione. Comminavo a passo spedito e non sapevo neanche dove stavo andando e lui , il mio migliore amico, dietro di me. Riguadagnato un minimo di contegno, lo abbracciai forte e mentre si avviava all’uscita si voltò due volte per guardarmi mostrandomi il pollice all’insù, mentre io mi incamminai verso la camerata. Marco era già rientrato. Era seduto sul letto. Mi avvicinai e quando mi vide scoppiò a ridere “Hai visto? È stato facile, no?”. Feci un sorriso di circostanza. Non era roba per me. Avevo agito di impulso. Non avrei dovuto. A cena mangiammo insieme e poi a letto. Il mattino dopo, appena alzato, venni convocato dall’Ufficiale di Picchetto in sevizio. Quando entrai nella sua stanza c’era già Marco che mi lanciò una rapida occhiata. L’Ufficiale di Picchetto ci disse: “Ieri avete saltato due contrappelli, dove eravate?” Marco rispose prontamente: “Ero in giro dentro l’Ospedale, ho tanti amici magari ho tardato qualche minuto al contrappello ma ero qui, ero qui”.
L’Ufficiale diede un’occhiata ai due militari che presidiavano la porta dietro di noi, che lo presero in consegna, aggiungendo: “Ok, ne risponderà davanti al comandante dell’ospedale. Si procuri un difensore d’ufficio.” (Il difensore d’ufficio altri non era che un pari grado che avrebbe assistito al processino davanti al Comandante, senza diritto di parola, presente solo per firmare le carte della sanzione comminata). A quel punto era il mio turno, mi vedevo già a Gaeta, speranzoso di ricevere una pagnotta con dentro una lima. E, mentre ero perso nei miei pensieri, “E lei, dov’era? In giro per amici anche lei, o magari si è appisolato dentro un bagno mentre faceva i bisogni saltando il contrappello?”. Si stava mettendo male, malissimo. Entrai in modalità “confesso tutto”.
“Tenente, sono giovane, ho fatto una cazzata. Sono molto pentito. Se potessi tornare indietro non lo rifarei di certo, e bla e bla e bla…” Quando finii di parlare il tenente mi guardò in silenzio senza dire una parola. Eravamo rimasti solo io e lui nella stanza, i due militari che avevano preso in consegna Marco non erano ancora tornati. Era fermo, immobile, inespressivo. Poi abbassò lo sguardo e fissò per un momento delle carte sulla sua scrivania. Mi disse: “Grazie per il Tenente, sono uno Sten (sotto tenente) di leva. Sono come te, solo che faccio 15 mesi anziché 12. Vedi, oggi è lunedì. Fra quattro giorni, venerdì, mi congedo. E voglio dimenticarmi tutto, ma propio tutto di quest’ultimo anno. A cominciare da te. Visto il tuo “mea culpa” facciamo cosi: adesso esci da questa stanza, velocemente, vai in camerata e prepari la tua roba, velocemente. Poi passi dal medico di servizio e sempre velocemente e gli dici che sei guarito, che sei in ottima forma e che l’unico tuo desiderio é di tornare in caserma. Alle 12:00 di quella stessa mattina ero in Stazione Centrale a Milano, che aspettavo il treno per tornare a Udine, alla mia caserma.
Non ho mai ben capito la storia del muro con le tacche e la corda a vista. Ma col tempo mi sono fatto una ragione. Forse era li per mettere alla prova chi veramente era malato e chi no. Chi provava a fare il furbo veniva rispedito in caserma ancor più velocemente del tempo necessario agli approfondimenti diagnostici. Io ho pagato l’errore in piccolissima misura, nessuno finiva a Gaeta per una cazzata di questo tipo. Si tornava in caserma con dei giorni di consegna da scontare in coda al servizio di leva. In poche parole ci si congedava dopo aver scontato la pena in giorni aggiuntivi di militare e credetemi, messi in coda sono pesantissimi! Marco non l’ho più visto. Spero che questa esperienza abbia insegnato qualcosa anche a lui.
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