In questi giorni, dedicati alle nazionali, ho avuto modo di iniziare a prendere confidenza con la National League, la nuova competizione europea nata per diminuire le amichevoli e aumentare la competitività dei match disputati. Ancora non mi è chiarissimo il meccanismo che poi dovrebbe intrecciarsi anche con le successive qualificazioni agli Europei itineranti del 2020. Ieri ha esordito anche l’Italia che ha ampiamente deluso le aspettative della vigilia.

A parte il gioco che latita, soprattutto dovuto ad un centrocampo con troppa poca qualità e fatto di interpreti, Gagliardini e Pellegrini su tutti, non adeguati - ci sarà un motivo se non giocano neanche nei loro club...-, mi dispiace constatare che ancora non è stato metabolizzato il post Ventura. Sembra quasi che ci sia stato uno “switch”, un interruttore che abbia quasi azzerato la forza, l’orgoglio di vestire l’azzurro, la fame nel disputare certi incontri.

Una volta partite di questo genere, pur giocando male, le portavamo a casa tranquillamente, proprio perché avevamo “giocatori di classe superiore” che potevano fare la differenza in ogni momento e, con una giocata che solo un campione può fare, cambiavano favorevolmente le sorti della partita.  Invece tristemente oggi sembra che il livello si è appiattito verso il basso e facciamo fatica anche con una “Polonia” qualunque. Non me ne vogliano Lewandowski, Zielinski e compagni, ma per me i biancorossi sono una nazionale mediocre, non hanno nulla di eccezionale come anche l’ultimo mondiale ha mostrato.

Sono lontanissimi i tempi in cui vincevamo la coppa del mondo, anche se il ricordo di capitan Cannavaro mentre solleva al cielo la coppa in casa del nemico, è ancora vivo in tutti noi. Dodici anni sono passati da quando, fieri e orgogliosi di essere italiani, tutti noi ci sentivamo “campioni del mondo”, anche se quelle emozioni le avevamo vissute solamente davanti uno schermo o per i più fortunati sugli spalti dell’Olympiastadion di Berlino.

Quel momento, segnato anche profondamente dalle vicende di “calciopoli”, è stato lo spartiacque di un’epoca che non c’è più. Nell’Europeo del 2008, con Donandoni in panchina, usciremo ai quarti eliminati ai rigori dalla Spagna che poi vincerà il titolo. Nel mondiale sudafricano del 2010 il ritorno di Lippi in panchina si rivelerà disastroso. Infatti verremo eliminati arrivando quarti in un girone ridicolo composto da Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda. Il ciclo di Prandelli non sarà migliore. Nella finale di Kiev di Euro 2012 verremo umiliati con un perentorio 4-0 dalla Spagna. Nel mondiale brasiliano del 2014 ancora i gironi saranno fatali. Questa volta terzi dietro Costa Rica e Uruguay. Con Conte in panchina sembra che le cose possano migliorare. Primi nel nostro girone usciremo ai rigori nei quarti di finale contro la Germania, dopo che nell’ottavo avevamo battuto per 2-0 la Spagna. L’ex Juventus ci abbandonerà preferendo i soldi londinesi alla gloria italica, quindi il resto è storia. Secondo me non è un caso che questo periodo deludente sia anche determinato dalla massiccia esportazione dei nostri migliori tecnici fuori dai confini italiani.

Oggi, con Mancini alla guida, si può dire che c’è stato uno stacco netto e definitivo con quel passato di dodici anni fa. Tra i ben 31 convocati non c’è nessuno campione del mondo del 2006. Gli unici ancora in attività sono Buffon, Zaccardo, Barzagli, Gilardino, De Rossi. Buffon dopo l’ultima polemica per la sua convocazione col ct ad interim Di Biagio si è fatto da parte. Barzagli si è ritirato dalla nazionale, mentre Zaccardo e Gilardino sono attualmente senza una squadra di club e comunque erano fuori dal giro già da tempo. L’unico che, per bocca dello stesso Mancini, può ancora essere preso in considerazione è Daniele De Rossi. Ma il tempo passa per tutti e, a 35 anni, i tanti impegni iniziano a pesare sulle gambe, sopratutto per un giocatore, che ha fatto della corsa, della grinta e della determinazione i suoi punti di forza. Il suo modo di interpretare il calcio con “carattere” è molto dispendioso. Lo stesso “carattere” si è anche visto nello spareggio con la Svezia, quando, vendendo la sua squadra messa sotto dagli evidenziatori gialli, manifestava tutta la sua contrarietà mentre era chiamato a riscaldarsi.

I “vecchi” sono stati sostituiti da giovani, se non giovanissimi. Ha fatto molto discutere la convocazione del 19enne Zaniolo, compagno di De Rossi alla Roma. Condivido il pensiero con chi ha affermato e pensa che la Nazionale con la N maiuscola, quella maggiore, sia una cosa che vada conquistata e sudata sul campo. Per meritarsela non basta il semplice status di potervi far parte, ossia essere italiano. Non ho nulla contro l’ex primavera Inter, che ha la stessa età di Donnarumma. Ma se per quest’ultimo la chiamata è stata guadagnata sul campo, e lo confermano anche le parate di ieri, che ci hanno salvato da una figuraccia in casa ben peggiore del pari, con le oltre 100 presenze con la maglia del Milan, lo stesso non si può dire per lui, il cui “curriculum” ancora non è così florido e l’ “esperienza” a certi livelli è limitata. Forse giocare nell’under 21 avrebbe avuto più un senso. Per conoscerlo il ct poteva benissimo andare a Trigoria durante le settimane di allenamento dato che la domenica non gioca mai..

I problemi non si risolvono convocando i giovani che per giunta non giocano neanche nei loro club. Purtroppo sarà una banalità, ma la nazionale è figlia dei tempi. L’impoverimento di campioni nostrani è sotto gli occhi di tutti. Se poi anche quelli bravi li mettono in panchina, come Federico Chiesa ieri sera, allora è dura. 

Mancio disse che un campione può spuntare fuori anche nel giro di un anno, come Mbappe che due anni fa non lo conosceva nessuno. Haimè, ..a parte Zaniolo, non mi sembra che un futuro crack italiano possa sbucare dietro l’angolo dal nulla. Non so se questo sia dovuto ai tanti stranieri che da giovanissimi, anche per aggirare la limitazione sugli extracomunitari, arrivano nel nostro paese affollando le primavere. Non so se sia colpa dell’incapacità dei tecnici delle serie inferiori e dei vivai deputati a formare al “calcio” i ragazzi. Non so se sia dovuto alla mancanza di coraggio per far giocare e quindi anche sbagliare i giovani italiani, in un calcio business dove l’errore, che fa perdere milioni di euro, non può essere tollerato.

I motivi possono essere tanti ed altri ancora. Fatto sta che, da parte di chi “comanda”, ancora tali problemi non sono né stati ancora individuati, né arginati. Non può bastare la norma che limita l’importazione di giocatori extracomunitari. Finora vedo che le squadre di A hanno un gran numero di stranieri, e spesso la domenica scendono in campo formazioni senza neanche un italiano. La situazione sembra addirittura peggiorata perché se prima si prendeva lo straniero forte, già affermato, adesso lo si va a prenderlo adolescente. Di sicuro ha influito una diminuzione della potenza economica delle nostre squadre. Anche se, valutando l’altra faccia della medaglia, si scopre che prendere uno straniero comporta commissioni e quindi costi maggiori. È quasi un controsenso, ma è un tema troppo delicato e scottante per essere approfondito in questa sede. Secondo me, la migliore soluzione potrebbe essere quella dell’imporre un limite minimo, magari 5 per squadra, di giocatori selezionabili per le nazionale italiana che devono partire nella formazione iniziale.

Comunque oramai a qualunque latitudine il calcio è cambiato. È difficile trovare, sia a livello di club che di nazionale, la cosiddetta squadra “materasso”, sono sempre meno. La globalizzazione ha portato una omogeneizzazione del livello calcistico mondiale. Ma se noi piangiamo, anche altre gloriose nazioni non mi sembra siano messe meglio. Una volta un mondiale era bello anche perché si aveva la possibilità di incontrare e vedere all’opera squadre come Brasile e Argentina che erano ricche di talento e campioni. Ora invece abbiamo da una parte il neo capitano Neymar, un campione  più fuori dal campo tra sponsor e paillettes che in campo, simbolo della Selecao, mentre dall’altra, reduce anch’egli dal flop mondiale al pari del suo collega brasiliano, il simbolo della Seleccion è la stella (un po’ decadente) Messi . Il fuoriclasse argentino sarà anche il giocatore di calcio più pagato al mondo, il più famoso, il “goat” - greatest of all time -, ma ogni volta che è uscito fuori dal suo Barcellona non ha mai ottenuto gli stessi riconoscimenti, sia in termini personali che di squadra. Al momento il “dio del calcio” si è preso una pausa dalla nazionale, ed è una coincidenza come dopo dodici anni – anche per lui – sia rimasto fuori dai finalisti del premio FIFA “The Best”. Questo premio ha cambiato nome molte volte, ma una costante era la presenza del campione argentino.

Il calcio è cambiato e per stare al passo bisogna voltare pagina quanto prima. I campioni sono eterni solo nella memoria, ma purtroppo il tempo, come il campo, non dà scampo, ha un verdetto inesorabile. È difficile dire se sia veramente la fine di un’era, ma bisogna farsene una ragione e non vivere di ricordi.