Alle 12.41 di lunedì 17 giugno Francesco Totti ha rassegnato le dimissioni da dirigente della società AS Roma con un'email. Francesco Totti, il Re di Roma, Er Pupone, l’uomo dello scudetto storico, del selfie intra-derby, si è licenziato via email. Certo, è andato a esplicare questa scelta in una conferenza stampa della durata di una partita più recupero in sede del CONI, quindi la somiglianza ad un atto di dimissioni qualunque si interrompe alla mail scritta. Ma sta proprio nelle parole enunciate da quel eterno ragazzo dall’accento periferico e dall’ironia palleggiante la svolta epocale dalla quale bisognerà, a prescindere dalle reazioni e dai pensieri, trarre tutte le future conclusioni, e sulla quale non ci sono dubbi: Totti ha purgato ancora, Totti ha chiuso un epoca. 

L’epoca della bandiera è morta alle 12.41 con un'email. La bandiera - controparte di quell’altro segno mistico che è la maglia, simbolo di permanenza e fragilità - è la matrice del calcio, ma lo supera totalmente. Andando oltre il calcio lo minimizza, lasciando indietro e sottraendogli importanza, mentre al contempo lo esalta, ampliandone i confini a tal punto da fare confluire nello sport lo spirito stesso dell'umanità. Totti ha avuto la capacità di creare tifosi, nel senso che attorno alla sua figura sono nati passioni e discepoli, segnando una generazione di italiani e non che non possono farne a meno. In Totti vediamo anche noi stessi, poiché il giocatore sinonimo di tecnica sopraffina che donò ad una città il sogno di una vita non ha potuto nascondere i plurimi difetti di un uomo qualunque, talvolta incapace nella padronanza di sé di dimostrare quell’eleganza e controllo di cui con il pallone era maestro indiscusso. Ma nella fragilità dell’uomo e nella perfetta conformità alle esperienze quotidiane dei suoi tifosi si è andata mano a mano a costruire e solidificare un mito indistruttibile: il ragazzo romano genuino e sincero che, continuando anche a sbagliare, si conquistava ogni domenica il pubblico di una città (con un cucchiaio) e ogni anno i cuori di un’intera nazione che pur non tifando i suoi colori riconoscevano in lui l'onore della convinzione che lo portò a rinunciare e rimanere.

Ecco, rimanere. La bandiera nasce dalla perseveranza in faccia alle minacce, dalla vittoria della permanenza sulle tentazioni dell’effimero.  La bandiera è il tessuto contro il quale si staglia per primo lo splendore delle glorie ma anche il velo pietoso steso ai piedi dei fallimenti. Contro la bandiera si avventano i nemici, carichi della forza prorompente che si alimenta dalla contrapposizione a tutto ciò che la essa contiene. I seguaci invece la caricano sulle proprie spalle e la ergono a rappresentanza dei valori di cui è portavoce silenziosa. La bandiera dà colore all’ostacolo e voce alla resistenza, rende fedeli e semina inimicizia. La bandiera ci regala la possibilità di essere partigiani un un periodo di pace, di essere pensatori radicali nel salotto del post-partita. Essendo una costante, la bandiera raggruppa e aggrega popolazioni di spettatori e non. Se la pietra miliare della società democratica e il confronto libero delle idee, ebbene la bandiera ci dà la sorgente da cui estrarre i principi che popolano quel dibattito, struttura il dialogo con cui vengono formate propagate le scuole di pensiero.

Siamo attualmente alla ricerca di bandiere. Siamo in un mondo che le rinnega o le disperde. Vediamo società che vorrebbero disfarsene (caso De Rossi), giocatori che ne subiscono il peso schiacciante (Insigne), squadre che le hanno adottate ma poi dovute cedere (R. Madrid con Ronaldo), giocatori che vorrebbero diventarne una ma a cui la carriera non ha aperto le porte (Quagliarella), città che si identificano con una ma che si domandando se forse ne sono fin troppo dipendenti (Messi), bandiere acquisite che poi decisero convivialmente di separarsi dai colori per un bene reciproco (Buffon) e infine vediamo l’emergere del fenomeno allenatore-bandiera, la quale particolare distinzione dal calciatore sta nella freddezza (alcuni la chiamarebbero dissimulazione) con cui riesce a svestirsi di una per indossarne un’altra - con le conseguenze del caso - senza nulla togliere dalla capacità di condurre un popolo attraendolo alla propria causa (e.g. Conte, Sarri, Guardiola, Allegri). Andrebbero anche menzionati quegli allenatori che furono delle quasi-bandiere o piene bandiere che, forti della loro moral suasion e potenza attrattiva sul popolo di tifosi, cercarono di capitanare da mister la squadra per cui giocarono, spesso con risultati che rischiarono di infrangere la loro sacralità (Montella, Inzaghi, in un certo senso anche Gattuso, ecc.). 

Ogni domenica si va a caccia di bandiere. Il calcio, specchio della società e talvolta anche della politica, necessita oggi come sempre di un caposaldo, un riferimento inamovibile anche se divisivo. Peccato che il calcio, come la società che riflette, abbia smarrito la capacità di gestirli quando presenti e ritrovarli una volta persi. Ci rimane solo la triste consolazione che la sconfitta, come la bandiera, può diventare di tutti.