"Bisogna pagare qualunque prezzo per il diritto di mantenere alta la nostra bandiera". 

È questa una delle tante frasi attribuite alla figura di Che Guevara, personaggio che, tra mille contrapposizioni, ha sicuramente influenzato il pensiero di tanti. Magari ha influenzato Franco Sensi quando, nel settembre del 2004,  rifiutò qualsiasi cifra proveniente dal Real Madrid per Francesco Totti. "Non avremmo mai tolto Francesco ai romanisti" sentenziò l'allora patron giallorosso. O magari ha influenzato Massimo Moratti quando, a più riprese, disse no ad offerte indecenti per uno dei tanti beniamini della Milano nerazzura. Viene più difficile immaginare che il Che abbia influenzato Silvio Berlusconi, ma, nonostante questo, anche l'ex presidente rossonero è sempre stato un fervido sostenitore delle bandiere nel calcio. E non solo quelle del proprio club. "Le bandiere non si comprano" dirà il Cavaliere, ammettendo, al tempo stesso, che più volte aveva pensato di acquistare Totti o Maradona. Poi però, a detta sua, ha fatto vincere il sentimento.

E forse è giusto così. Forse è giusto lasciare le bandiere al loro posto e non privare i tifosi dei propri beniamini. Il calcio, del resto, è fede. Quasi tutti i tifosi si sentono visceralmente legati ai propri colori, come se stretti da un rapporto di sangue. E, proprio per questo, si vogliono immedesimare in chi, sempre e per sempre, sarà simbolo dei proprio colori. Non può essere un caso se ancora oggi nelle classifiche delle magliette più vendute delle varie squadre  figurino la 10 di Del Piero o la 4 di Zanetti. Da sempre, e per sempre, ci sarà uno spazio nella memoria di ogni tifoso per quei calciatori che hanno deciso di consegnare ad una sola tifoseria, ad una sola squadra, la loro carriera. Eppure, oggi più che mai, sembra che legarsi ad una squadra  sia più una condanna che un privilegio per pochi eletti. Sembra che sia sempre più difficile diventare simbolo eterno di una squadra. Forse è vero che non c'è più spazio per i sentimenti nel calcio?

Se infatti guardiamo le ultime grandi bandiere del nostro calcio, nessuno sta vivendo un bel momento, almeno calcisticamente parlando. Del Piero, il primo a dire basta, dopo il suo ritiro non ha trovato spazio nella "sua" Juventus. Francesco Totti e Javier Zanetti, invece, sono accumunati dallo stesso destino. Entrambi amatissimi dal proprio tifo (e non solo), entrambi rimasti in campo fino a 40 anni, ed entrambi adesso nei quadri dirigenziali della propria squadra. Del resto son gli stessi tifosi che chiedono a gran voce che questo accada. Ogni tifoso vuole che il rapporto con i propri idoli sia un rapporto eterno. Vogliono che, anche una volta appesi gli scarpini al chiodo, continuino a difendere quei colori che li hanno segnati a vita. Spesso però, la volontà dei tifosi non va incontro con quelli che sono gli algidi dettami del calcio contemporaneo. Un calcio dove le squadre sono sempre più delle aziende, e , come tutte le aziende, guardano per prima cosa al profitto (o quantomeno ai bilanci). E quindi ecco che, per figure come Totti e Zanetti, vengono scelti ruoli solo di rappresentanza. Il ruolo di Francesco ancora non si è capito. Javier, invece, è il vicepresidente. Eppure, se chiedete ai tifosi di Inter e Roma cosa facciano oggi le due leggende in concreto, quasi nessuno vi saprà dare una risposta. Ogni tanto li vediamo nelle varie tv per difendere le scelte delle rispettive proprietà. A volte si espongono fortemente sul futuro delle proprie squadre. Totti facendo sognare il popolo giallorosso sul possibile  matrimonio "Conte-Roma", Zanetti dicendo che "L'inter targata Suning sarà entro poco tempo una delle migliori squadre del mondo". E proprio per queste dichiarazioni che, queste leggende, sono oggi costrette a vivere un qualcosa al quale, da giocatori, non sono mai stati abituati. La contestazione. Il tifo non risparmia neanche loro. "Cosa sta a fare lì? Perchè non si dimette se non conta nulla?". Questa stessa frase, recentemente, l'avranno sicuramente sentita sia Javier che Francesco. Entrambi tacciati di essere "pupazzi" usati dalle proprie presidenze per difendere il proprio operato. Ed entrambi sembra stiano reagendo alla stessa maniera. Ovvero chiedendo, ai rispettivi club, più poteri. Vogliono avere un ruolo più decisionale, e avere la possibilità di orientare i destini futuri dei colori che rappresentano. La stessa cosa che forse ha chiesto Paolo Maldini. Dopo l'addio di Leonardo, infatti, l'ex 3 rossonero ha appena ricevuto una proposta definita da lui stesso "allettante". Gazidis gli ha prospettato l'idea di diventare direttore tecnico del club, con ampi poteri di scelta su giocatori ed allenatore. Quello che forse vorrebbero anche Totti e Zanetti. Chissà se al punto da lasciare il club che amano.

Neanche le bandiere ancora in attività vivono un bel momento. Buffon, ritenuto di troppo dalla dirigenza bianconera,  è stato costretto, un anno fa ormai, ad emigrare in Francia per continuare a giocare a pallone. Stessa sorte è toccata a Daniele De Rossi, che, travolto dall'ennesima rivoluzione che si prospetta per la Roma americana, dovrà scegliere tra Boca e MLS. Tutti e due non hanno fatto mistero che avrebbero continuato con piacere a difendere i propri colori. A loro, però, Juve e Roma hanno proposto solamente un incarico da dirigente. Ed entrambi hanno risposto "No, grazie". Non potendo più però difendere, almeno da giocatore, la propria squadra.

Oggi poi, sembra sia impossibile diventare una bandiera. Guardiamo Lorenzo Insigne. Da anni la tifoseria partenopea voleva uno scugnizzo al quale consegnare i gradi di capitano. Eppure, dopo qualche anno di idillio, sembra che ora il rapporto tra Napoli e il suo figlio prediletto possa interrompersi bruscamente. Più volte il pubblico azzurro l'ha fischiato, una volta per una prestazione opaca, un'altra per un rigore sbagliato. E lui, forse ferito nell'orgoglio, ha fatto capire che non è cosi scontato donare un'intera carriera ad una squadra. "Finchè sarò qui, darò il massimo per questa maglia". Non serve aggiungere altro.  

E Alessandro Florenzi? Forse lui avrà il compito più duro. Quello di comandare le truppe giallorosse dopo gli addii di Totti e De Rossi. Lui, romano e romanista, sembra l'erede perfetto per quell'eredità. Eppure, anche lui, è stato oggetto di critiche. "Non è adatto, non sarà un degno capitano". Non ha fatto neppure in tempo ad indossare la fascia da capitano che già sembra venga delegittimato. E non è neppure la prima volta. Quest'anno, più volte, all'Olimpico cori o striscioni l' hanno etichettato come "Trenta denari". Perchè? Perchè l'estate scorsa, al momento di stipulare il contratto più importante della sua vita, con le sue pretese economiche, ha fatto andare troppo per le lunghe le trattative col Club. Noi, al momento di firmare un contratto lavorativo, non guardiamo al salario? L'ha fatto anche lui e per questo è stato criticato. Così come fu criticato anche Daniele De Rossi quando siglò un rinnovo da 6.5 milioni annui con la Roma. Le critiche, come detto, non hanno mai risparmiato nessuno.

Non saranno di certo bandiere, né tantomeno figli prediletti di una città, però, fino a poco tempo fa, Paulo Dybala e Mauro Icardi potevano diventare qualcosa che forse non diventeranno mai. Il primo, paragonato addirittura ad Omar Sivori, si è visto consegnare la 10 di Del Piero. Il pubblico bianconero già l'aveva eretto come proprio idolo, pronto ad accedere, a carriera finita, nell'Olimpo dei più grandi. Maurito per anni ha indossato la fascia nerazzurra. È vero, all'inizio è stato contestato. Sembrava non adatto, immaturo, forse troppo giovane. Tutti ci ricordiamo il polverone che si sollevò dopo la pubblicazione della sua autobiografia. Da lì in avanti, però,  il rapporto tra il tifo nerazzurro e l'argentino è stato ottimo. E Mauro pareva esser diventato un capitano modello. Leader, in campo e fuori. Eppure qualcosa si è rotto, sia per Dybala che per Icardi. Vuoi per una serie di prestazioni sottotono, vuoi per una serie di comportamenti ritenuti non adatti per un capitano, ed ecco che, per entrambi, l'addio sembra prossimo. Con il benestare del tifo che fino a ieri si immedesimava in loro. 

Dirigenti, giocatori, il ruolo cambia poco. È un processo che tocca tutti, anche gli allenatori. Ecco che quindi Rino Gattuso, seppur con gli onori del caso, non sarà più l'allenatore del Milan. Onori che son toccati anche a Claudio Ranieri. Il tecnico testaccino-romanista se ce n'è uno- è stato chiamato da James Pallotta per cercare di salvare una situazione, quella della Roma, che era disperata. Lui non ha esitato a dire sì, spinto dal tifo e dal legame indissolubile che lo lega ai colori giallorossi. Nonostante ciò, e nonostante dei risultati che per poco non hanno permesso al club di ottenere una insperata qualificazione alla prossima Champions League, non è stato neppure considerato dalla Roma nella scelta del prossimo allenatore. Conte, Gasperini, Giampaolo, Fonseca, De Zerbi, Sarri, Blanc. Mille nomi, di ogni tipo. Non il suo. Forse meritava maggiore considerazione, forse meritava di entrare quantomeno nella cerchia di nomi dal quale estrarre l'allenatore della stagione 2019/2020. E che dire di Josè Mourinho? Qui la cronaca si fonde con le voci di mercato. C'è chi giura che da mesi si proponga all'Inter, e, nello specifico, a Massimo Moratti nella speranza di ricevere una chiamata. Chiamata che non ha ricevuto e non riceverà mai. Chi è che doveva farla quella chiamata? Beppe Marotta, simbolo della rinascita Juventina degli ultimi 8 anni, scelto, da Suning, per provare a riportare l'Inter sul tetto del mondo, cosi come fece Josè. È forse questo il manifesto della decadenza delle bandiere. L'Inter che "scarta" una delle figure più amate dai propri tifosi, e, per mezzo di un ex bianconero, sceglie Antonio Conte. Altro grande simbolo del rinascimento juventino. Sicuramente più di qualche tifoso insorgerà dinnanzi a questa scelta, ma siamo sicuri che, se il tecnico leccese dovesse far bene, tanti di coloro che forse lo contesteranno diverranno presto i suoi primi sostenitori. E forse, "vincere non è importante, è l'unica cosa che conta", sarà presto un motto anche del club di Milano.

Tempi duri quindi per le bandiere. Totti, De Rossi, Buffon, Zanetti. Ma anche Florenzi, Icardi, Dybala e Insigne. Tutti sicuramente avranno lo sguardo un pò triste nel vedere che forse è vero, forse questo non è più il tempo delle bandiere. E, pensando a cosa  poi è materialmente una bandiera, non si sentiranno più un mezzo per issare al cielo un vessillo glorioso, ma piuttosto si sentiranno banalmente un'asta metallica adibita all'unico ruolo di parafulmine, capace di attirare su di sé tutte le critiche estemporanee di tifosi inferociti.

De Rossi, nella sua lettera d'addio, ha citato una  frase che un tifoso della Roma si tatuò: "26 maggio 2013, eppure il vento soffia ancora". E ha usato questa frase per far capire al popolo giallorosso che anche dopo il suo addio il vento non smetterà di soffiare. Chissà se la penseranno cosi anche le altre grandi bandiere del nostro calcio, presente e passato.

Una cosa è certa caro Daniele. Guardando il trattamento riservato a voi leggende, anche se il vento non smettesse di soffiare, forse, tristemente, le bandiere sarebbero già state ammainate.

E questa, Daniele, è la dura vita di una bandiera.