Sono le 17:15 di un qualsiasi giorno lavorativo, e come tanti altri giorni sto rientrando a casa da lavoro in sella alla mia bicicletta con le cuffiette e il "non stop live kom 19" di Vasco a supporto, meraviglioso concerto.
Sulla strada del ritorno passo sempre davanti al campetto di allenamento dei ragazzini del paese, che a quell'ora stanno facendo allenamento. Ogni giorno c'è sempre un qualcosa che mi mette fretta: spesa, dentista, barbiere, moglie bimbi che ti aspettano a casa, o più semplicemente voglia di tornare a casa, ma oggi no, non ho nulla di urgente da fare e decido di fermarmi a guardare un po' questi futuri campioncini.
Scendo dalla bici, mi avvicino alle rete ed inizio ad osservarli.
Ovviamente come un pugno sullo stomaco mi assale un po' di malinconia e i ricordi affiorano immancabilmente, e in un istante mi ritrovo in quel campetto quasi quarant'anni fa.
Quel ragazzino un po' timido che se ne stava sulle sue, che faticava a portare il borsone pesante, ma lo faceva con estremo orgoglio. Ora invece sono le mamme a portarlo, perché i ragazzini hanno il cellulare da portare. Avevamo solo il calcio in mente, e quel campetto dove d'inverno non trovavi un filo d'erba nemmeno con la lente di ingrandimento, era il nostro San Siro.
Oggi hanno campi sintetici e d'inverno ci si allena in palestra al calduccio. Le nostre scarpe Valsport dure come il marmo che ti tenevano i piedi al caldo, come un ghiacciolo in Alaska, ora hanno scarpe tecniche di marca super leggere multicolor comode come un mocassino di camoscio.
Il nostro pallone pesava dieci chili e d'inverno in questi campi era un macigno da spostare, ora i palloni sono leggeri come l'aria. L'allenamento consisteva in una corsa per scaldarsi e quante parole se non correvi, qualche esercizio di stop, passaggi e tiri e alla fine la partitella che era vissuta come una finale di Champions. Ora l'allenatore non deve permettersi una parola fuori posto, deve insegnare tattica e stare attento a trattare tutti con i guanti bianchi altrimenti le mamme...
Avevamo i nostri idoli, da Paolo Rossi a Bruno Conti, da Lele Oriali a Giancarlo Antognoni e Gaetano Scirea insomma, indipendentemente dalla squadra del cuore i campioni erano campioni per tutti noi, venerati a prescindere. Ora il tifo giovanile va oltre e si sentono frasi e insulti verso il giocatore della squadra avversaria non ripetibili.

Ritorno in me nel momento in cui un ragazzino bisbiglia una bestemmia e dice al compagno vicino di non vedere l'ora di andare a casa a giocare con la play station, e sua mamma che gli ricorda la cena da nutrizionalista che gli aspetta stasera stando fuori dalla rete.
E mi torna in mente quante volte il mister ci minacciava di spegnere i lampioni e chiudere gli spogliatoi se non andavamo a farci la doccia. C'era sempre un ultimo tiro in porta da fare, e casa pane e salame.

Non ho scritto questo articolo per fare il solito discorso in cui... "eh ai miei tempi era meglio", assolutamente no, anzi.
Questo tempo è decisamente migliore del mio tempo, i palloni, i campi, le scarpette e l'intimo termico, i cerotti colorati che sostengono le zone dolenti ecc... A non essere migliore è questa generazione che non sa apprezzare ciò che ha a disposizione. Almeno parte di questi ragazzi non hanno il calcio nel sangue, non giocano a calcio per pura passione e felicità. Molti lo fanno perché è ciò che vuole la mamma o il papà, altri perché è figo, altri ancora perché forse guadagneranno molto.
Tutte sfumature che ai miei tempi non avevano alcuna importanza. Vivevamo per il calcio, c'era chi era bravo di suo e chi doveva sudare molto per arrivarci, ma mai una volta ho sentito uno dei più bravi discriminare o sminuire il valore di un compagno di viaggio. Ai miei tempi i compagni di squadra erano la nostra famiglia, eravamo pronti a tutto per difendere un nostro compagno, eravamo uno per tutti e tutti per uno, ma lo eravamo davvero. Ora guardano le scarpe, il taglio di capelli e con che macchina mamma e papà lo hanno accompagnato.

Decido di tornare a casa, mentre riprendo la bici esce un ragazzino dallo spogliatoio, getta il borsone a terra e ordina a sua mamma di tirarlo su e caricarlo in auto, il tutto mentre smanetta già col cellulare. Quel ragazzino non ha il calcio nel sangue, magari è uno dei più dotati, ma chi non sente l'orgoglio del proprio borsone non ha il calcio dentro, non è la sua passione, non sarà mai campione. Perché per arrivare a certi livelli il sacrificio e la passione sono al primo posto, e se uno non sente nemmeno la voglia di portare il proprio borsone, allora non ci siamo proprio. Parlano di come si pettina un calciatore, di quale marca di scarpe indossa, di quanto guadagna o come si veste nel tempo libero.
Secondo voi a noi interessavano queste cose?
Secondo voi io sapevo che scarpe indossava Paolo Rossi o mi facevo i capelli alla Bruno Conti? Dai su non scherziamo.
Noi provavamo mille volte a copiare da loro qualche giocata o tocco di palla, quello sì ci interessava, e quando non c'era allenamento c'era comunque il campetto dietro la chiesa, perché un giorno senza pallone era un giorno triste.

Me ne torno a casa un po' perplesso, ma con la speranza che esistano ancora dei ragazzini ingenui, timidi, poco arroganti, ma con tanta voglia di portarsi in spalla quel pesante borsone...