Nell’ultima sessione di calciomercato, in piena continuità peraltro con le precedenti, abbiamo assistito all’ennesima puntata delle società di calcio ostaggio dei calciatori. Ci riferiamo – per citare solo i casi più eclatanti - alle vicende riguardanti i casi Dybala, Higuain, Icardi e Mandzukic.

Tali giocatori hanno rifiutato uno o più possibili trasferimenti, in Italia o all’Estero, tenuto conto della loro posizione di forza nei confronti delle società di appartenenza, in quanto (i) un’operazione di cessione è possibile solo ove il calciatore ceduto, manifesti espressamente il proprio consenso; (ii) in caso di mancato consenso alla cessione, il calciatore può liberarsi, al termine del contratto, a c.d. “parametro zero”.

L’attuale normativa, che regola la compravendita dei calciatori, trova le sue radici nella famosa “Sentenza Bosman” del 1995. Il calciatore belga, nonostante un contratto cessato nel 1990 era comunque tesserato con il RFC Liegi, che gli impediva (a fronte di un corrispettivo giudicato non congruo) il passaggio, come auspicato dal calciatore, alla squadra francese del Dunkerque. Bosman ricorse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea che – alla luce del disposto dell’art. 48 dei Trattati di Roma – dichiarò restrittivo il citato sistema.

A fine 1995, fu quindi deliberata la nuova disposizione, che consentiva, da una parte, ai calciatori dell’Unione Europea di trasferirsi a titolo gratuito, al termine del contratto, ad un’altra squadra europea e, dall’altra, il venir meno, per la società acquirente, dell’obbligo di corrispondere alla società “cedente”, un’indennità (denominata “indennità di preparazione e di promozione”), calcolata sulla base dell’ ultimo compenso globale moltiplicato per un coefficiente stabilito dalla FIGC e ciò anche nell’ipotesi in cui il contratto vigente fosse giunto al termine.

La nuova normativa determinò una rivoluzione copernicana nel mondo del calcio e, a parere dello scrivente, gli effetti sul calcio italiano furono decisamente più rilevanti (in negativo) rispetto agli altri Paesi Europei, che hanno saputo adattarsi meglio alla nuova realtà.
Personalmente, individuo almeno tre effetti meritevoli di menzione


Il crollo delle presenze dei calciatori italiani e dei vivai

La prima conseguenza della “Sentenza Bosman” fu quella di abrogare la disposizione, che consentiva alle varie Leghe Europee di stabilire un numero massimo per rosa di giocatori stranieri (tre per le competizioni UEFA), in quanto atto potenzialmente discriminatorio verso gli atleti dell’UE. Stante la “liberalizzazione”, le società calcistiche che, prima, curavano con particolare attenzione i vivai, iniziarono a privilegiare l’acquisto di giocatori stranieri, rispetto alla crescita dei giovani calciatori italiani.

La presenza dei calciatori stranieri nel campionato italiano crebbe, stagione dopo stagione, passando dal 10% ad oltre il 60% odierno.

Ad esempio, la Juventus, che ha sempre considerato fondamentale per le proprie vittorie la presenza in rosa (ma soprattutto in formazione) del c.d. “zoccolo duro” dei calciatori italiani, è passata dalla stagione 1995/96 (coincidente con l’ultima Coppa dei Campioni bianconera) dove erano presenti in rosa 18 italiani su 22 alla stagione 2019/20 dove si contano 9 italiani su 29 (e senza considerare che, a livello di formazione tipo, si è passati da 8 su 11 a 1 su 11).


La mancata qualificazione ai Mondiali 2018

Il culmine dell’effetto del crollo della presenza di calciatori italiani può essere considerato quello della mancata qualificazione (dopo 14 partecipazioni consecutive) della nostra Nazionale agli ultimi Mondiali disputati in Russia. C’è da chiedersi, però, come mai tali effetti negativi non si sono riverberati anche nelle Nazionali degli altri Stati Europei, che ospitano i principali campionati.

Infatti, in Spagna e in Francia e, in minore misura, anche in Germania, le generazioni dei talenti sono proseguite nel corso degli anni. In Inghilterra, invece, sono stati impiegati capitali per la costruzione di nuove strutture, sempre più attrattive nei confronti dello spettatore utente.

Suscita quindi un moto di tristezza ma anche di perplessità, leggere ed ascoltare – a proposito della nostra recente qualificazione agli Europei – come l’Italia sia nuovamente in una fase rinascimentale. Evidentemente, i critici fanno finta di non vedere quali squadre abbiamo affrontato nel nostro girone.


La crescita astronomica degli ingaggi

In seguito alla “Sentenza Bosman”, furono radicalmente modificate le regole del mercato calcistico. Salvo rare eccezioni, i dirigenti partirono alla rincorsa dei giocatori in scadenza di contratto, offrendo agli stessi ingaggi principeschi (e ai procuratori commissioni pazzesche). E’ evidente che ciò non poteva non determinare una lievitazione conseguente del monte emolumenti (con il raggiungimento di cifre impensabili prima della pronuncia della citata sentenza) del parco giocatori della società che andava ad acquistare il “parametro zero” di turno. A livello nazionale, l’esempio della Juventus è assolutamente calzante in questo senso.

La Juventus, nonostante una consistenza patrimoniale rilevante e un incremento di ricavi costante, deve comunque ricorrere al mercato (prestito obbligazionario e aumento di capitale) per sostenere la crescita e ciò anche in relazione agli oneri derivanti dal monte ingaggi. D’altra parte, la ricchezza di una società (calcistica o meno) dipende dalla propria capacità di indebitamento.

Altre società, come Inter e Milan, sono state messe sul mercato dai precedenti proprietari, proprio perché la gestione finanziaria non era più sostenibile e gli effetti di tali squilibri sono ancora attuali (Milan) o comunque molto recenti (Inter).

Terminata la rapida disamina sui perduranti effetti negativi per il calcio italiano della “Sentenza Bosman”, solleciterei una riflessione su un aspetto, che personalmente valuto distorsivo con riferimento alla citata sentenza.

Senza soffermarmi troppo su aspetti tecnici, si può tranquillamente affermare che l’art. 48 dei Trattati di Roma – su cui si fonda la sentenza - è posto a tutela della libera circolazione dei lavoratori all’interno della comunità europea.

In particolare, la Corte di Giustizia Europea stabilì che: “l'art. 48 del Trattato osta all'applicazione di norme emanate da associazioni sportive secondo le quali un calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, può essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza un'indennità di trasferimento, di formazione o di promozione”.

Ora, è possibile definire “lavoratore” il calciatore professionista, quando il suo ingaggio supera un determinato ammontare? Penso che a stento potremmo considerare “lavoratori” Messi e Ronaldo, ma anche tantissimi altri calciatori, che eccedono un determinato tetto di ingaggio annuale, tenuto anche conto che (i) l’emolumento non è “una tantum” (ma pluriennale e ordinariamente a salire); (ii) al compenso percepito dalla società si aggiungono compensi per diritti di immagine, sponsorizzazione, etc; (iii) i calciatori sono assistiti da procuratori, che a loro volta percepiscono commissioni astronomiche e che sono i veri proprietari dei cartellini dei calciatori.

In realtà molti calciatori sono delle vere e proprie imprese dello spettacolo e forse sarebbero più corretto definirli imprenditori.

Ma, se proprio volessimo paragonare i calciatori professionisti a dei “lavoratori”, dovremmo necessariamente inquadrarli nel novero dei manager apicali di un’impresa (Amministratori Delegati o Direttori Generali sui generis). Ebbene, a tali soggetti è normalmente impedito al termine della loro esperienza presso una società di accasarsi – se non decorso un certo numero di anni - presso una società concorrente, per effetto di patti di non concorrenza, il cui corrispettivo può anche rientrare nel compenso annuale percepito.


Alla luce delle citate considerazioni, trovo sconcertante che possa configurarsi come legittimo il rifiuto al trasferimento da parte di quei calciatori, che guadagnano cifre astronomiche se la società acquirente garantisce quantomeno lo stesso livello di ingaggio. Inoltre, ove il trasferimento avvenga a fine contratto, dovrebbe essere comunque garantito alla società cedente un corrispettivo adeguato, tenuto conto che il calciatore svolgerà “attività in concorrenza” (in Italia come in Europa) con la società cedente che, quindi, avrà diritto ad un equo indennizzo.