Una notizia letta ieri mi ha dato da pensare: la Juventus, per non essere arrivata almeno alle semifinali di Champions e per essere stata sopravanzata dalla Roma, chiude il bilancio in perdita, nonostante un incremento consistente del fatturato. 
Non che questo incida molto sul mercato, perchè si tratta di una società solida, con alle spalle una multinazionale ricchissima, con numerosi assets di proprietà e con prospettive di ricavi futuri in crescita. Ma rende chiaro il pantano nel quale si trovano a vivere le squadre italiane. 
Se parliamo di ricavi da diritti TV il nostro calcio è sottodimensionato. Lo è per scarso appeal, legato alla mancanza di grandi campioni nelle nostre squadre e anche alla formula della nostra Serie A, che vede 20 squadre. Una formula voluta per motivi politici, ma che non permette di avere una competitività allenante o avvincente.

Attenzione però, il problema non sono le squadre, più scarse, che retrocedeno. Sono le squadre di media classifica che, a due terzi del campionato, non hanno più nulla da chiedere e, alla fine, volenti o nolenti, finiscono con il falsare alcune partite per lo scarso impegno conseguente. 
Altro problema dato dall'elevato numero di squadre in Serie A è l'eccessiva diluizione dei giocatori più forti. Con rose ampie e troppe squadre, i giocatori realmente adeguati non sono sufficienti per avere squadre competitive.
Altra nota dolente dei diritti TV è la scarsa competenza dei nostri vertici dirigenziali, non voglio dire per malafede, ma sicuramente la gestione della vendita del prodotto è deficitaria, soprattutto se paragonata a prodotti come Premier, Liga, Bundesliga.
Si punta il dito, da anni, contro le modalità di distribuzione, paventando modalità che, invece di far crescere gli introiti generali, vadano a punire le società virtuose per compensare gli scempi di quelle malgestite. In realtà occorrerebbe vendere diversamente il prodotto, incrementando gli introiti in modo da avere una maggior liquidità disponibile per le squadre. 
Liquidità, ecco un'altra nota dolente. Il nostro sistema economico è in costante crisi di liquidità. La crisi di liquidità è uno dei parametri principe della crisi economica e il calcio non fa differenza. Il Milan è un caso eclatante di necessità economica immediata. Ma fa specie la Roma, terza in Serie A, in semifinale di Champions ma a rischio liquidità, nonostante un avvenuto aumento di capitale di oltre 150 milioni di euro.
Cosa vuol dire crisi di liquidità? Che non ci son i soldi ? No, si tratta di una cosa diversa. E' il motivo per cui falliscono i fornitori degli enti pubblici. Se tu avanzi milioni di euro dai clienti, sei a posto coi bilanci, ma non puoi pagare i fornitori fino a quanto non ha incassato il denaro.Le strade da seguire, quindi, sono due: o scontare le fatture in banca, perdendo una parte del guadagno che finisce nelle tasche delle banche che anticipano il denaro delle fatture scontate a fronte del pagamento di interessi sulle somme anticipate; o chiedere dilazioni di pagamento ai fornitori, i quali però, a quel punto, incrementano i prezzi per rientrare del ritardo del pagamento, iniziando un circolo vizioso di lievitazione e dei costi che incide negativamente sull'intero sistema.
Nel caso in cui una società non riuscisse a seguire, poi, una delle due strade, la mancanza di liquidità è motivo di per sè valido per portare al fallimento della stessa.

Altro motivo di doglianza del sistema calcio italiano è la mancanza di controlli sulle proprietà. Ben vengano cinesi o albanesi, ma si verifichi se hanno reali possibilità economiche e si trovi il modo di instaurare un sistema di controllo dell’affidabilità delle proprietà che sia più incisivo, non solo in relazione alla reale solvibilità o meno dei proprietari, ma anche alla congruità dei sistemi finanziari utilizzati rispetto alle richieste delle federazioni internazionali, in modo da evitare di avere poi ripercussioni, a stagione finita, sulle squadre e sulle tifoserie per il mancato adeguamento delle proprietà alle previsioni normative vigenti.
E’ sicuramente facile dare la colpa delle situazioni di Parma, Monza o, adesso, della situazione in cui si trova il Milan alle proprietà, ma è sbagliato. La colpa è di Federazione e Lega che devono vigilare. Loro compito è vigilare sul corretto svolgimento dei campionati, e non solo quando si lamentano i Presidenti o i tifosi di turno per presunti rigori non dati alla propria squadra ma, soprattutto, quando si ha l’ingresso di nuove proprietà per verificare la loro affidabilità. Si tratta di un atto dovuto ai tifosi, ma anche a calciatori e dipendenti delle società in questione.

Non bisogna, poi, dimenticarsi del sistema di tassazione interno italiano. Se è vero che il gioco delle plusvalenze ha permesso a molti di fare i furbi, è anche da dire che all’estero questo sistema è normalmente applicato, ma il sistema di tassazione, sia sui redditi (con ovvia incidenza sugli stipendi di giocatori, dirigenti e dipendenti), sia sui ricavi (con incidenza sui costi dei prodotti e dei servizi offerti), sia sugli investimenti (diventando un ostacolo al cosiddetto azionariato popolare, che ha fatto la fortuna delle squadre spagnole).

Il sistema Italia, inoltre, pone diversi problemi anche in relazione alla possibilità di creazione di nuovi assets societari. Non esiste, ad esempio, una normativa nazionale sugli stadi di proprietà e, nonostante il livore degli antijuventini, ciò che la Juve ha fatto non è contrario alla legge ma è, forse, l’unico caso in cui le norme siano state applicate senza che la burocrazia servisse da ostacolo alla realizzazione di opere di pubblico utilizzo, anche se di privata proprietà, invece che da controllo sulla regolare realizzazione delle stesse. Basta vedere cosa sta accadendo o è accaduto da anni a Roma, Cagliari, Milano. Si tratta di situazioni grottesche che bloccano la crescita di società che sono un patrimonio, non solo sportivo, ma anche economico delle città in questione. Si tratta di società veicolo di immagine in tutto il mondo, che non hanno la possibilità di sviluppare i propri interessi per motivi oscuri, legati a logiche che nulla hanno a che vedere con l’imprenditorialità che viene richiesta oggi ad una moderna società di calcio. Con conseguenze dannose anche in maniera diretta, in quanto tali società sono, direttamente e indirettamente, produttrici di ricchezza sul territorio, a partire dai propri dipendenti, spesso decine se non centinaia, per finire all’indotto legato al merchandising, alle partite, alle sponsorizzazioni e ai servizi.

Questo veloce excursus non lascia certo una buona immagine del sistema Italia. Ma, la cosa peggiore, è che non lascia nemmeno adito a speranze positive per il futuro. Abbiamo una schiera di dirigenti che ruotano nelle posizioni di vertice da decenni, e rimangono sempre gli stessi. Il nuovo non avanza e non è mai avanzato, in quanto è, oramai, palese che solo chi è allineato fa carriera o viene scelto, in modo da mantenere lo status quo e i privilegi acquisiti. Lo scopo di certi organismi è diventato, quindi, non quello di far crescere il sistema calcio, ma quello di mantenere posizioni di privilegio. Non che ci sia da stupirsi. Del resto parliamo di calcio italiano.

Quindi in armonia col sistema Italia generale.