Finisce così, 0 a 2, la sfida di coppa tra Juventus e Barcellona. Finisce tra gli attacchi deliranti dei commentatori, tra le critiche ficcanti dei detrattori trinariciuti; finisce con Fabio Capello che rispolvera il mantra dell’inadeguatezza del calcio italiano reo, secondo Don Fabio, di non offrire la giusta competizione ai top club della Lega di Serie A – ammesso che di top club, al di fuori della Juventus si possa parlare, vista la storia recente del movimento calcistico italiano a livello Europeo. Infatti, esclusa la presenza stabile della Juventus nelle migliori 12 squadre, ci si deve aggrappare alla miracolosa Atalanta e ad un'Inter che nell’edizione scorsa dell’Europa League faceva la parte di Golia di fronte alla pochezza delle squadre avversarie per poter godere di qualche dolceamara soddisfazione…

A una sconfitta – meritata – della Juventus, corrisponde un dibattito generale sull’inconsistenza delle rivali italiane, come se Sampdoria, Hellas Verona, Sassuolo e Fiorentina avessero qualcosa da invidiare alle rispettive antagoniste del disorganizzato calcio inglese, o meglio ancora di quello tedesco, spagnolo e francese. Spazi aperti e poche interruzioni di gioco, gegenpressing, tiqui-taca, denaro: con l’approssimazione della sintesi si sono appena riassunte le caratteristiche principali che allineano più o meno le squadre nei rispettivi campionati. Se ancora una volta un allenatore italiano – o meglio l’Allenatore italiano, Carlo Ancelotti – sta guidando la propria squadra in testa alla Premier League, ciò è sintomatico di due dati oggettivi: una fase difensiva bassa, organizzata, è ancora più che mai determinante nel raggiungimento del risultato finale; in secondo luogo, il caro vecchio 4-4-2 all’italiana (nel caso dell’Everton nella variante a rombo con Allan e James a presidiare i vertici longitudinali del quadrilatero, con il colombiano a galleggiare tra le linee di attacco e centrocampo nelle zone centrali e di destra del rettangolo di gioco) fa ancora la differenza in un campionato giocato perlopiù all’arrembaggio – fatto salvo per le recenti comparsate di Klopp, Mourinho e Guardiola – con Claudio Ranieri che attualmente osserva dall’alto del monte Fasce fiero dello stesso formato con cui il suo Leicester si laureò campione d’Inghilterra stagione 2015-2016. Se il calcio tedesco, incalzato dalla leggendaria supponenza teutonica, si fregia ora del kloppiano gegenpressing, quello spagnolo è ancora vittima dello snervante tiki-taka di Guardiola e simili con le due eccezioni del calcio pragmatico di Zidane (del quale stiamo assistendo al tramonto visto il recente ritmo claudicante del club madrileno nella Liga) e del cholismo di Simeone (altro sistema oramai uscito dalla luce dei riflettori). In ultima analisi, l’altro maggiore campionato europeo, quello francese, fa del denaro il perno dell’organizzazione di gioco, aggiudicandosi i prototipi migliori del calcio “moderno” Mbappé e Neymar, e un allenatore di scuola tedesca seduto in panchina che ha rischiato di inficiare l’orgoglio nazionale portando a casa, solo allo scadere, un quarto di finale a scontro diretto con l’umile Atalanta di Gasperini – tanto per dirne una sulla scarsa competitività all’interno del calcio italiano.

Dov’è dunque l’Italia del calcio? Dov’è il catenaccio che ha portato il nostro fútbol sulla vetta del calcio mondiale?
La risposta che vorrei dare a questa domanda è la seguente: ancora una volta – e la situazione pandemica lo ha ben dimostrato – l’Italia e noi italiani ci stiamo preoccupando di scimmiottare i modelli stranieri, dimenticandoci dell’inadeguatezza economica e delle carenti infrastrutture sportive che ci remano contro. Come accade ormai da anni anche il calcio dimentica le proprie origini, le proprie tradizioni. Sono fieramente breriano nell’attribuire motivazioni antropologiche all’originalità del nostro calcio: un’Italia piccola, operaia, minuta anche nel fisico della propria gente, dei propri calciatori, non può e non deve attaccare in gran pompa l’avversario come invece può permettersi di fare la solenne Germania, forte nel corpo e nelle risorse economiche e finanziarie. Nella sua condizione operaia, artigianale, l’italiano non può nemmeno permettersi il settecentesco lusso del francese, investendo ingenti somme di denaro per avere una rosa dai nomi altisonanti da far sfilare sulla passerella verde del rettangolo di gioco, concludendosi ironicamente con un nulla di fatto di proporzioni storiche; l’esempio dell’acquisto a cifre monstre di Cristiano Ronaldo da parte della Juventus ha causato alla società bianconera strascichi economici che probabilmente perdureranno ancora per un’altra stagione.

Dalla Juventus son partito, e con la Juventus voglio concludere, invitando Andrea Pirlo a non sottovalutare la storia, a non voler ergersi come innovatore di un calcio che andrebbe certamente più giocato tatticamente che rincorso in modo confusionario tra una metà campo e l’altra. Sia il Maestro così vecchio da essere innovativo, così indietro da essere avanti. Per quanto mi riguarda, nella partita di mercoledì sera con il Barcellona, la Juventus ha difettato maggiormente nel lavoro di organico, nella gestione di reparto degli spazi di gioco. A livello dei singoli (ad esclusione dei peggiori: Kulusevski e Bernardeschi – giustificherei Dybala a causa di un’evidente mancanza di forma fisica – la Vecchia Signora ha dimostrato di poter affidarsi ai propri giocatori: i due centrali Bonucci e Demiral (macchiato dall’espulsione sul finale della gara per un fallo sull’ex Pjanic) hanno messo più che una pezza sulle folate offensiva di Messi, Griezmann e Dembélé; lo stesso Danilo ha retto egregiamente l’uno contro uno con i due trequartisti francesi. Il terzino bianconero è stato probabilmente agevolato dal fatto che gli avversari posti sotto il suo presidio hanno nel mancino il loro piede forte e amano entrare dentro al campo per concludere l’azione, ma essendo Danilo piazzato a piede invertito sulla fascia sinistra ha potuto chiudere con più sicurezza le traiettorie degli avversari.
Sempre guardando ai singoli, nel reparto di centrocampo, Rabiot e Bentancur sono probabilmente la coppia mediana che meglio si compensa: il francese è stato determinante in un paio di recuperi su Messi nei pressi della trequarti; Bentancur, invece, oltre a godere di una buona fase difensiva, dispone di un’ottima visione di gioco, tanto che le sole due sgroppate di un promettente Chiesa sulla fascia sinistra sono nate da imbeccate provenienti dal piede caldo dell’uruguagio.
In attacco, ad un Morata in forma smagliante (tre gol annullati per posizione di fuorigioco), corrisponde un Dybala indietro di condizione e probabilmente malcontento e della propria condizione contrattuale e dell’ulteriore competizione creatasi nella propria zona del campo con gli innesti di Kulusevski e dello stesso Chiesa. Resto dell’idea che una Juventus così disposta necessiti di un più funzionale Ramsey che dell’estro di un fuoriclasse come Dybala, avendo già Ronaldo libero di gestire i propri ritmi partita nel corso delle gare. Il gallese inoltre ha il pregio di calcolare correttamente i tempi di inserimento in area avversaria, cosa che avrebbe agevolato Chiesa che è stato oggetto di continui raddoppi da parte di Sergi Roberto e Dembélé, giocatori di tendenza offensiva dalla parte dei quali la squadra di Pirlo avrebbe potuto affondare con più vigoria se un trequartista o una mezz’ala come Ramsey avesse tagliato nello spazio tra terzino e centrale, portando via di fatto un marcatore al giovane talento italiano.

Nonostante questi evidenti deficit a livello di gioco di squadra, rimane il fatto che la Juve continua a subire gol, fatta eccezione per le partite con Sampdoria e Dinamo Kiev avversarie certamente alla portata di una corazzata di talenti come quelli della Vecchia Signora. Certo alla squadra di Pirlo vanno concessi tutti gli alibi del caso: un rodaggio che è ancora in atto, l’inesperienza dei giovani neoacquisti che devono conoscere le dinamiche di un grande club e di una grande competizione come la Champions; alla squadra però, non all’allenatore. Il bresciano infatti fino a ora si rivela quale grande teorico, visionario, fautore di un calcio liquido che forse lavora fin troppo sui principi di gioco piuttosto di dedicarsi alla pratica esecuzione delle dinamiche interne al rettangolo verde. Un signore di nome Massimiliano Allegri denunciava l’eccessiva teoria incombente sul nostro calcio, la tendenza certo ardimentosa a emulare rivali che fino a qualche decennio fa ci guardavano almeno in ambito sportivo con rispetto e ammirazione.
La speranza è che giovani tecnici come Andrea Pirlo tornino alla vecchia e cara sintesi del nostro calcio: difesa e contropiede; non solo per una romantica nostalgia di antichi fasti trapattoniani, ma per anche caratteristiche tecniche dell’organico juventino: con due mediani di una certa mole (Bentancur e Rabiot), quattro difensori centrali perfettamente alternabili nella difesa a 3 capaci e nell’uno contro uno e nella difesa di reparto, e una batteria offensiva di strappo, corsa e fantasia di vanto mondiale, si potrebbe ridare al nostro calcio il lustro che merita, rimanendo fedeli a noi stessi e alla nostra storia, evidenziando quella linea di demarcazione tra il calcio vero fatto di orgoglio e risultati, e quello giocato per soddisfare i palati di qualche critico che confonde la passione con il mestiere. E proprio l’orgogliosa società di Andrea Agnelli che si pone spesso sprezzante alle e delle critiche, dovrebbe ricordarsi del proprio tanto millantato motto “vincere è l’unica cosa che conta”, perché per essere dei circenses qualunque allora sarebbe bastato confermare Maurizio Sarri.

Emilio Boaretto