1 novembre 2020: la Juventus compie 123 anni.

La storia ultracentenaria della Vecchia Signora ha accompagnato la vita dei nostri nonni e dei nostri genitori e siglerà il cammino dei nostri figli e dei nostri nipoti. E’ stata (e sarà, ne sono certo) una storia leggendaria, con capitoli sempre nuovi, da scrivere, perché è una Società, che affonda le proprie radici nel passato ma, nel contempo, si proietta verso il futuro.

Ho rimosso tantissimi ricordi della mia adolescenza, ma restano bene impressi quelli che hanno segnato la mia fede bianconera.

La domenica pomeriggio andavo al Comunale con mio padre, che mi teneva per mano e l’ingresso allo Stadio (rigorosamente in Curva Filadelfia, poi ridenominata Curva Scirea, in onore di uno dei più grandi bianconeri di sempre, sotto ogni aspetto) era una sorta di rito, con mio padre che, invariabilmente, si doveva recare nei bagni perché, durante la partita, sarebbe stato praticamente impossibile raggiungerli, essendo gli spalti sempre gremiti, all’inverosimile. Dopo il “rito propiziatorio” si cercava di raggiungere le tribune (si fa per dire) della curva attraverso un ingresso angusto. Iniziava allora, il fenomeno a “pressione”, nel senso che per guadagnare un posto, occorreva procedere con spinte ad ondate, al fine di raggiungere gli spalti (di conseguenza c’era il rischio, a forza di ondate, di finire dietro la porta pur essendo entrati dall’ ingresso in cima allo stadio).

Era un’emozione unica per un ragazzino vivere la domenica pomeriggio allo Stadio e tifare la propria squadra dei sogni.

Purtroppo, però, l’emozione si trasformava talvolta in un incubo sportivo, quando, agli inizi degli anni ’70, avevo modo di assistere al derby. In pratica, la Juventus non riusciva a superare la propria metà campo per i primi 30 minuti e tutta la Curva Filadelfia assisteva attonita all’orchestra granata di quei tempi. Pur juventino nelle viscere, i miei occhi erano affascinati dai calciatori del Toro, che vestivano una divisa completamente granata (maglia, pantaloncini, calzettoni). L’attacco dei “cugini”, di cui ancora oggi ricordo perfettamente la composizione (Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici), era assolutamente formidabile, forse uno dei migliori che abbia mai visto all’opera.

Eppure, anche (e soprattutto) le sconfitte (e con il Toro per tutta la prima metà degli anni ’70, perdere era la regola) aiutano a crescere e consentono di far apprezzare al meglio le (tante) vittorie, che si susseguirono negli anni della mia crescita. Ciononostante, se, nel giorno del suo 123° compleanno, dovessi ricordare la squadra bianconera ideale, non avrei dubbio alcuno a tornare nuovamente indietro con gli anni.

Si tratta della Juventus della stagione 1976/77 e coincise con l’esordio sulla panchina bianconera di un giovanissimo Giovanni Trapattoni. Nell’anno precedente, avevamo perso il campionato proprio a favore del Toro e, sul mercato estivo, quel genio di Boniperti orchestrò un doppio scambio con le squadre milanesi ( Fabio Capello al Milan, in cambio di Romeo Benetti e Pietro Anastasi all’Inter, in cambio di Roberto Boninsegna).

Era una Juve tutta italiana, con una formazione titolare fantastica: Zoff, Gentile, Cabrini, Furino, Morini, Scirea, Causo, Tardelli, Boninsegna, Benetti, Bettega. Per me, solo la Juve di Lippi della Champions si avvicinò, senza superarla, a quella del 1976/77.

In campionato fu un duello avvincente contro il Torino (che aveva conquistato lo scudetto nella stagione precedente a nostre spese), che si concluse solo all’ultima giornata (51 punti contro 50!! Record assoluto per un campionato a sedici squadre). Prima dell’ultima giornata, la Juventus vinceva il suo primo trofeo internazionale, la Coppa Uefa, nel doppio confronto di finale contro l’Atletico Bilbao. Il ritorno al San Mames (dopo l’1-0 dell’andata) fu uno scontro epico, che terminò con la sconfitta per 2 a 1 ma con la conquista della Coppa, in virtù del goal segnato in trasferta.

La Coppa Uefa del 1976/77 resta l’unico trofeo internazionale vinto da una squadra composta esclusivamente da calciatori italiani. Durante la competizione, la Juve eliminò, tra le altre, le due squadre di Manchester, ribaltando in entrambi i casi, lo 0-1 dell’andata in terra inglese.

Era una Juve di autentici guerrieri, che mi è rimasta negli occhi e nel cuore (e uno dei calciatori che più ricordo era Roberto Boninsegna, interista sino al midollo... ironia della sorte).

Bando ai ricordi. Sono trascorsi quasi cinquanta anni e, nel frattempo è cambiata la società in cui viviamo: il terrorismo con i suoi anni di piombo, il crollo del Muro di Berlino e la fine del Comunismo, Tangentopoli e la scomparsa dei partiti politici tradizionali, il Berlusconismo e così, sino ai giorni nostri, con una pandemia che ci sta sconvolgendo la vita.
Ebbene, l’unica costante di questo mezzo secolo è stato l’amore per la Juventus. E' rimasto inalterato nel corso dei decenni, sempre scandito da un impeto adolescenziale nonostante l’inesorabile trascorrere dei lustri. Un amore, che ti fa ancora cantare allo Stadium (quando era ancora possibile varcarne la soglia) l’inno bianconero all’ingresso delle squadre in campo. Ieri come oggi, con un filo conduttore che non si è mai interrotto e che non potrà mai interrompersi.

In tutti questi anni, abbiamo vinto tutto quello che c’era da vincere ed abbiamo perso tutto quello che c’era da perdere.

Ma, in ogni epoca, il segno distintivo della Juventus è sempre stato presente. I nostri calciatori sono stati protagonisti indiscussi con la maglia bianconera ma hanno anche concorso – in modo determinante – alla conquista di quattro titoli Mondiali con la Nazionale, facendo sognare e gioire milioni di connazionali, di diversa fede calcistica, ad ogni latitudine.

A differenza di altre squadre a livello nazionale, che hanno segnato un ciclo ma in determinati ambiti temporali, la Juventus è sempre stata – dalla sua nascita – ai Vertici del calcio italiano. In ogni epoca, battere la Juventus equivaleva per molte squadre a salvare un’intera stagione, perché sconfiggere la Juventus significava e significa vincere contro il più forte. E, dopo essere retrocessi in B, abbiamo inanellato un record di scudetti consecutivi, che rimarrà impresso negli Annali del Calcio.

Siamo la squadra più amata d’Italia, ma anche la più odiata e, purtroppo, non è solo un “odio” a livello sportivo, perché, talvolta, si trasforma in odio di “classe”, tanto becero quanto violento. Le nostre tragedie avrebbero dovuto essere le tragedie di tutti e, invece, un clima avverso – supportato anche ad arte da addetti ai lavori che riescono a legittimarsi, solo soffiando sul fuoco di polemiche sterili – ha determinato lo scempio anche nei confronti dei nostri morti.

Molti tifosi (e non solo) di qualsiasi squadra avversaria antepongono alle proprie fortune sportive le “sventure” della squadra bianconera. Insomma, godono di più a vederci perdere piuttosto di vincere. Per contro, il tifoso juventino, in genere (escludendo quindi le frange più estreme, che albergano ovunque, sotto una qualsiasi bandiera), non nutre nei confronti di altre compagini sentimenti di odio. Si identifica perfettamente con la propria squadra, in quanto per la Juve non esiste un rivale da odiare ma un rivale con il quale contrapporsi sul terreno di gioco.

Inoltre è la stessa storia della Società, che rende la Juventus “superiore” alle altre. Sono solo le altre squadre che, a turno e per accreditarsi, cercano di autoproclamarsi rivali della Juventus, perché ciò consente loro di accedere al Vertice, di avere il momento di gloria.

Chiunque abbia frequentato lo spogliatoio della squadra bianconera ne è rimasto colpito ed affascinato. La cultura della vittoria si respira, da sempre e ciò determina un senso di appartenenza da parte di coloro, che hanno avuto la fortuna di indossare la maglia a strisce bianconere.

Cari tifosi avversari, occorre quindi farsene una ragione.
Se la Juve non ci fosse bisognerebbe inventarla ma, per fortuna di chi l’ama e di chi la odia, esiste e, quindi, ricordarla nel giorno del suo compleanno, se non è un piacere, è sicuramente un dovere per tutti, augurandole sempre, a seconda dei punti di vista, nuove vittorie e (ahimè) nuove sconfitte.