Tutti noi, comuni mortali, siamo immersi nei pensieri. Anche gli immortali sono attanagliati da grattacapi, ma essi, governano solo la fantascienza, le invenzioni e le più famose leggende o mitologie storiche, che siano greche o romane. Insomma, noi siamo i principali protagonisti delle idee che aleggiano nelle nostre menti: ci navighiamo, ci perdiamo e non smettono mai di tormentarci. Ci inseguono di giorno e di notte, anche quando pensiamo di non pensare. E, tali pensieri, possono avere dei connotati positivi, che ci accarezzano le sinapsi quando posiamo la fantasia su di essi, che sanno strapparci un sorriso sul volto, facendoci mostrare smaglianti agli altri mentre passeggiamo. Questi sono quelli più belli. Ma a volte, non sono sempre così e, come esiste il bello e il brutto per un qualcosa, oggetto, persona o animale che sia, la parte negativa può governare il perimetro delle concezioni, dandogli un’aura cupa, avvolta dalle inquietudini che, se marcata della drasticità, sanno essere ancora più tenebrosi, ti logorano dentro creandoti delle cicatrici perenni. Non ti lasciano scampo. Come la propria ombra, i pensieri negativi li si ritrovano ovunque, anche in quella che pare essere una bellissima giornata, con il sole che bacia il viso e acceca gli occhi. Quando accade ciò, si vive male, non più serenamente, ma scriverlo così diventa riduttivo. Non si dorme la notte, perché si cammina in questa solfa labirintica, si lavora male, perché ogni cosa è riconducibile ad essi e, insomma, sono sempre con noi. Ovunque. A tutte le persone, specie i più sensibili. E se c’è una persona, un uomo, che sta facendo i conti con tutto questo, se c’è una persona non superficiale ma ragionevole e razionale in quello che gli accade, se c’è una persona che non riesce a scrollarsi i fantasmi di dosso perché è perseguita da queste idee opprimenti, beh, questa persona è Josip Ilicic.

Un animo fragile in via embrionale
Nasce a Prijedor
, una città del nord della Bosnia ed Erzegovina. Una città che era la seconda municipalità per numero di abitanti, anche se adesso deve “arrendersi” all’ultima scala del podio, causa le numerose perdite umane dovute ai conflitti bellici che hanno coinvolto la Bosnia stessa e la Jugoslavia negli anni novanta. E proprio in quegli anni, più precisamente, nel 1988, che la cittadina dà luce ad un nuovo volto: il piccolo Josip. E se il neonato Josip nasceva nel 1988, un anno dopo, perdeva la vita il padre che non ha mai conosciuto a seguito della guerra, a causa dei serbi e fucilato da una rivalità mai cessata in campo di battaglia. Il papà, che anche se non hai mai visto negli occhi, anche se non ha mai potuto assaporare quell’ebbrezza di un abbraccio paterno, inconsciamente, segnerà per sempre il suo animo e che gli denoterà una sensibilità tale da garantirgli una fragilità d’essere che lo inseguirà per sempre. Con i rintocchi delle bombe, con le fughe per ripararsi e i giorni colmati da inquietudini senza la certezza del domani, si trasferirà con la famiglia in Slovenia dove giocherà dapprima con squadre come Triglav e Britof e poi all’impronunciabile Bonifika Koper, che in seguito si scioglierà. Dopo ecco che arriva a Lubiana: una città ricca di sentimenti, come racconta “Il ponte dei macellai”, ricco di lucchetti, un simbolo che denota un patto d’amore tra due innamorati. E, proprio nella capitale della Slovenia, Ilicic, trova un pezzo della nostra penisola: approda all’Interblock Lubiana guidata a quel tempo e solo per una stagione, da Alberto Bigon, ex centrocampista che ha conservato gran parte della sua carriera al Milan. Alla trentaquattresima giornata realizza la prima tripletta in carriera, una di tante. Già lì, si andava formando il carattere dello sloveno. Già lì, mostrava i primi scricchiolii caratteriali, comprensibili aggiungerei, visto tutto quello che aveva passato in età infantile e che lo hanno fatto diventare uomo prima ancora di essere un’adolescente.

<<La guerra dei Balcani dentro e le ciabatte fuori. Eppure il mancino ce l’ha>>
Eccoci qui, è l’estate del 2010, l’anno di inaugurazione del ponte dei “lucchetti” in Lubiana. Ma la capitale slovena è già acqua passata, perché il talentino dall’animo fragile, busserà alle porte del Maribor. 105.089 è il numero di abitanti. Dieci anni fa erano sicuramente di meno, ma, tra questi, c’era proprio lui, Ilicic. Una trattativa messa sul tavolo da amici: sì, perché il direttore sportivo Zlatko Zahovič era amico del Presidente della Lubiana e, con un’offerta inferiore ai 100.000 euro, ecco che lo sloveno diventa un oggetto prezioso di scambio tra le due squadre. Ma è stato un matrimonio breve. Una calda e passionale esperienza estiva che ha fatto si che il giocatore non giocasse più di cinque partite in campionato, tra l’altro segnando anche un gol. Un gioiello quello sfilatogli al presidente dell’Interblock Lubiana, un gioiello da mettere al dito del Maribor, ma che ben presto scriveranno le carte del divorzio. Undici presenze in totale, la decima contro la sua futura destinazione. Ilicic realizza una doppietta all’andata del terzo turno preliminare di Europa League e, come scritto poc’anzi, una in campionato. Quattro gol, undici volte sceso in campo. La decima, però, è quella dove meglio si esibisce, dove mette in vetrina la sua migliore esibizione e dove trova in Zamparini un ottimo cliente interessato a lui. Alla gara di ritorno è tutta un’altra storia: il Maribor vince per 3-2, Ilicic segna il quarto gol con la squadra slovena, il gol del momentaneo 2-0, ma senza esultare. Perché? Perché la Sicilia gli aveva strizzato l’occhio ed era già conscio di approdarvi. A 230,2 km dall’Etna, sorgeva un altro vulcano, dove al posto della lava stava per uscirvi talento, eleganza e raffinatezza: era il salto in lungo di Josip Ilicic.

Un salto in lungo che avrà i connotati di un atterraggio non troppo confortevole. Ma lo slancio c’è, lo slancio è quello giusto, quasi perfetto aggiungerei. Con lui arriva anche Bacinovic, ma l’asta per lo slancio di quest’ultimo si romperà al momento clou. 4-2-3-1, è questo il modulo prediletto da Delio Rossi e che farà fare un sorriso a trentadue denti allo sloveno perché giocherà trequartista e farà vedere i fuochi d’artificio nei cieli del palermitano. Due presenze da titolare, entrambe a segno, prime sei presenze e quattro gol: la continuità del ragazzo stupisce tutti, perfino se stesso e fa brillare gli occhi dei tifosi. Poi arriva il cambio allenatore, viene Serse Cosmi e vede impiegato il giocatore nel ruolo interno di centrocampo nel 3-5-2. Non è il suo habitat naturale, non si sente troppo a suo agio, ma comunque luccica ugualmente. Poi l’altalena di Zamparini fa ritornare Delio Rossi ed ecco che ritorna il sorriso: 39 presenze in totale e un bottino da 8 gol in campionato, coadiuvato da prestazioni valevoli. Sì, perché se era stato acquistato per 2,2 milioni di euro, con il rinnovo del contratto e l’inserimento della clausola, Ilicic valeva 20 milioni.

La stagione successiva gli valgono dei primati, ma è un trend negativo, non solo al livello collettivo, ma anche a livello individuale: prima tripletta con la maglia rosanero e seconda in carriera; primo gol in una competizione internazionale con il Palermo; il primo giocatore della storia del club ha realizzare una tripletta in Coppa Italia; il giocatore più impiegato in rosa della stagione con trentasei presenze, ma solo due reti. Già, perché in quell’anno è stato un flop. Complici gli allenatori che cambiano repentinamente, complice un’annata poco fortunata e complice un momento di calo che può capitare a chiunque, Ilicic non chiude al meglio e termina la stagione anticipatamente, a causa di un infortunio alla caviglia.

La stagione 2012-2013 è un fiume in piena in tutti i sensi: il giocatore esplode, il Palermo implode e vede le porte della retrocessione spalancarsi. Si inizia di nuovo la Coppa Italia, torneo a lui amichevole, e spedisce la Cremonese a casa con un suo gol e tre in totale della squadra. Nemmeno fa in tempo ad esultare che già salta la prima giornata di campionato, nuovamente per infortunio. Questi ultimi non gli lasceranno mai tregua e saranno un altro vettore emotivo che scaverà nel profondo animo del calciatore. Comunque, arriva la seconda giornata, ed ecco che all’uscita di Fabrizio Miccoli, gli viene affidato lo scettro della squadra, ma anche della città direi visto che è una città che vive di passione e attaccamento alla maglia. Per un momento, per poco, Ilicic è per la prima volta il capitano della squadra e ha l’onere di assaporare un’importante responsabilità. Poi il gran giorno. È il 24 novembre del 2012, non una data qualunque, ma è la data del derby. È Palermo-Catania. Scocca il decimo minuto e scocca il minuto per il dieci di Palermo: Fabrizio Miccoli spacca letteralmente l’incrocio dei pali e fa quota 100 realizzazioni con la maglia rosanero. Più tardi, Brienza si accentra verso il limite dell’area di rigore e, prima di cadere, serve il 27 di Sicilia e, con una rasoiata, Ilicic trova il primo gol al derby. Esplode il Barbera, esplode anche lui. Ma non è tutto. Il Catania si espone in avanti e ci sono ampie praterie per la squadra di Gasperini, già proprio lui, ma anche qui ci ritorneremo più tardi. Ilicic si fa il campo, corre come un bambino ad acchiapparella, ma stavolta accarezza il pallone, entra in area di rigore avversaria, si ferma, e la mette alle spalle di Andujar. La partita finirà 3-1, ma che giocatore è Josip Ilicic? Poi la fascia da capitano da titolare e cinque gol in cinque giornate consecutive. Una media alta. Lo sloveno viaggia, e lo fa nonostante sia affetto da pubalgia. Il Palermo no però e, la sconfitta contro la Fiorentina, spedirà i rosanero nella serie cadetta. E proprio come successe diversi anni prima, la squadra che segnerà il loro termine alla Serie A, saranno i viola, quelli che gli apriranno le porte l’anno successivo.

Quelli incontrati a Palermo sono stati grandi giocatori e, alcuni, chi meno e chi più, lo sono ancora. Pensiamo a Vazquez, a Miccoli, e al talento Paulo Dybala, che però c’è stato solo un gioco di sguardi, nulla di più. È il primo agosto quando bussa alla porta di Diego della Valle. Il presidente viola gli fa un sorriso perché davanti a sé, ha un giocatore forte, capace di spaccarte le partite ed è quello che alla squadra serve. 9 milioni è il prezzo con cui è stato pagato, dipanati a 3 milioni d’anno. La sua clausola rescissoria sale a 25 milioni. La prima stagione, al contrario di quella palermitana, è condizionata da un infortunio che lo tiene troppo spesso impegnato con il fisioterapista e il primo gol arriverà soltanto nel mese della nascita del Signore. Tre gol in tutto, una rete in Coppa Italia e due in Europa League, ma delle prestazioni che sono condizionate da troppi fastidi muscolari che non lo lasciano giocare come meglio credere e non gli lasciano quella creatività che solo lui riesce a possedere.

La stagione dopo, quella 2014-2015, è colorata di nero e di bianco, senza sfumature, ma solo con colori netti, schietti e marcati, sinonimi di male e bene. Il nero è un colore troppo scuro e assorbe tutti gli altri tipi di colori. Di fatti, tutte le prestazioni cristalline che avevano deliziato i tifosi, vengono assorbite in queslla sorta di buco nero e, voci di mercato, affermeranno che sul cartellino del giocatore c’era scritto “sell in”. Nella stagione precedente, c’erano stati alti e bassi, complici anche gli infortuni, ma in questa non aveva scuse e, i tifosi, si erano spazientiti. Ma tutto cambia nella seconda metà del campionato: convince se stesso e anche i beniamini; convince l’allenatore, il Presidente e anche gli addetti ai lavori; convince la critica; convince tutti. Due gol in Europa League, otto in campionato, tra cui uno alla sua ex squadra. Penultima giornata e vedeva al Renzo Barbera scontrarsi Palermo e Fiorentina. La viola era una squadra di giocatori con la “G” maiuscola: Salah, Marcos Alonso, lo stesso Ilicic, l’esperienza di Gilardino, Neto in porta. Il Palermo aveva Dybala e Belotti, due giocatori che sarebbero esplosi, con il primo già promesso sposo della Juventus. Insomma, di tutto e di più. E lo sloveno realizza un eurogol che fa ammutolire tutto lo stadio, anche se dopo gli concedono un applauso. Segna, ma non esulta. Aveva paura di aver ferito i suoi vecchi amici, la sua vecchia famiglia. Il giocatore dall’animo fragile piange dentro e piange fuori, perché i cori che lo stadio gli riserva sono da ricordare per sempre. Non solo dagli ex, ma anche dal presente, perché i tifosi gigliati lo perdonano dalle vecchie prestazioni. Ma è un perdono superficiale perché succede sempre così: qualche gol per cancellare i brutti ricordi, qualche brutta prestazione per rimuovere quelli belli.

Le due stagioni successive sembrano ripetersi nei colori bianco e nero, ma più nero che bianco direi. Ilicic non parte, perché Sousa lo vuole e sa che è un giocatore importante. Lui lo ripaga facendo 13 in campionato e una doppietta importante in Europa, ma è macchiato dall’incostanza, uno dei nodi che si porterà dietro per tutta la carriera. Però è diverso dagli altri e con l’Atalanta focalizzeremo al meglio questo aspetto. Tanti gol, mai così performante sul piano realizzativo, ma il non giocare sempre nel migliore dei modi, fa storcere il naso a tutti e gli fa fare un sorriso a metà. Ma che gli vai a dire ad un giocatore che gioca così e così, ma segna e fa assist? Bella domanda, ma nella stagione successiva non verrà riconfermato e verrà mal ricordato dai tifosi viola, nonostante le sue 138 presenze, 37 gol e 18 assist. Stefano Borghi mischierà suoi pensieri alle affermazioni dei tifosi e scriverà “la guerra dei Balcani dentro e le ciabatte fuori. Eppure il mancino ce l’ha”. Eccome se ce l’ha.

Si può ancora crescere a 29 anni?
Il 5 luglio 2017, Ilicic viene ufficializzato alla squadra bergamasca
. Arriva alla soglia dei 30, con quei 29 anni che si dicono essere gli anni di saturazione di un calciatore, anzi, avviene anche prima: arrivato a quel punto, o sei un giocatore forte o sei un giocatore normale. E, la Fiorentina, lo vende come se fosse un calciatore normale: 6 milioni di euro è la cifra che basta, facendoci anche plusvalenza. Una superficialità abnorme, che vedendo Ilicic mi metterei a ridere. I gigliati si erano liberati di un peso estremo, di quelli che ti comprimono lo stomaco e che ti fanno avere un senso di disagio. L’Atalanta coltivava interesse, specie tra tutti il suo amico ritrovato Gasperini, che lo avrebbe riaccolto a braccia aperte. Ma come si poteva provare interesse per un giocatore così crepuscolare, che in tutti questi anni, aveva dato l’idea di essere un rebus troppo difficile da decifrare, anche per i più abili? Un atleta così pieno di risorse, con ampi sprazzi di idee, creatività, inventiva, ma, allo stesso modo, adombrato da una costante indolenza fisica. Cos’è successo a Ilicic?

“Ha incontrato Gian Piero Gasperini, involontariamente gli ha dato l'assist, gli ha regalato la grande sfida, per l'allenatore ingegnoso e coraggioso che si è ritrovato con in mano un materiale pregiatissimo impossibile però da rinchiudere in un sistema, da ingabbiare in uno schema: la sfida era quella di esaltarlo per fare esaltare tutta la squadra. Come? Facendolo divertire". [Borghi]

L’Atalanta fa una valanga di gol, attuando il suo massimo nell’anno del Covid-19. Ilicic, come ha detto Borghi, si diverte e fa divertire chiunque lo guarda: alla sua prima stagione con la maglia bergamasca fa 11 in campionato e 4 in Europa League, con una splendida doppietta contro il Borussia Dortmund. In tutto questo realizza anche il suo pezzo forte: le triplette. Un’altra, di nuovo, contro il Verona. 5-0 totale, tre sono suoi. Il pallone pure. Il cuore dei bergamaschi anche. In un anno si è preso l’animo dei beniamini e ha fatto portare rancore a chi lo ha mandato via. 6 milioni di euro per un ragazzo che a 29 anni continua a crescere in tutto. Anche fisicamente nonostante gli infortuni. Un ossimoro, si, ma plausibile visto che lo sloveno è un rebus senza soluzione, di cui anche il destino lo guarda con fare spiazzato. Gasperini ne è innamorato come ai tempi del Palermo. La Dea arriva settimana con 60 punti e 57 gol: un quinto sono di Josip. Quell’anno, però, c’è anche la scomparsa di Davide Astori. Josip lo conosceva benissimo, un amico, un confidente. Quello lo scosse tantissimo. Era l’inizio di un vortice.

L’anno dopo realizza due triplette: strepitoso. Una di nuovo a Verona, anche se la vittima è il Chievo; l’altra è il Sassuolo. 13 gol e 9 assist. Quanto cresce questo giocatore. Sembra tratto dal film “Il curioso caso di Benjamin Button”, più passano gli anni e più ringiovanisce. Ma come è possibile? Forse le arti mistiche potranno darci un parere. La nota dolente è che perde un’altra finale. La terza. Palermo, Fiorentina e adesso Atalanta. Ma poco importa, perché la squadra si qualifica per la Champions e inizia una favola che non termina con il “Vissero tutti felici e contenti”, ma sarà comunque a lieto fine. Con il Torino fa un’altra tripletta, ormai in carriera se ne è perso il conto: 40 metri lontano dalla porta eppure la butta dentro. Non commento, sarebbe solo un’altra domanda dovuta alla mia incredulità. Ma non mi fermo qui, ma contro il Valencia. Sì, perché dopo un avvio in terre estere che non li avrebbe visti nemmeno retrocessi in Europa League, gli orobici continuano comunque l’avventura, ce la fanno. Assurdo. Tre sconfitte consecutive, poi un pareggio, poi due vittorie, e poi passano. Che meraviglia il calcio. Che meraviglia Ilicic. Nell’ottavo di finale pescano il Valencia, ma poco importa, l’impresa già era stata scritta. Eppure ne scrivono un’altra: 4-0 dopo sessantadue minuti. Una marcatura è dello sloveno, l’ennesima, ma ormai siamo abituati. La nuova squadra di Florenzi riuscirà a fare un gol, ma il futuro già vede scritto il passaggio del turno. Il ritorno, però, si deve giocare, è la regola della competizione. L’atmosfera è diversa, silenziosa, cupa. Siamo nel pieno dell’emergenza Covid: stadi vuoti, Bergamo sarà la città più colpita e qualcosa entra nell’animo di Josip. Un’incubazione, come quella di ogni infezione, che si sarebbe scatenata di lì a poco tempo, all’insaputa degli altri, non sua però. Quella sera, l’Atalanta, farà nuovamente poker: 3’, Ilicic su rigore; 43’, Ilicic su rigore; 71’ Ilicic; 82’Ilicic. Un mostro, un alieno. Un giocatore che cresce esponenzialmente. Un’adrenalina che scorre nelle sue vene come la corrente di un fiume in piena. 32 anni e 41 giorni, quattro gol. Cinque tra andata e ritorno. Spiegatemi cos’è Ilicic, perché è un bel mistero. Il calcio si ferma e, con lui, si ferma anche il talentino sloveno. È successo un qualcosa di struggente nel suo animo, che ha avuto inizio con la perdita del suo amico Davide e, forse, ha avuto inizio anche a livello inconscio quando era un fanciullo, quando non conobbe mai il padre, quando ebbe la guerra dentro di lui. Poi il calcio riparte, ma Ilicic no. Il giocatore che ricalca i campi da gioco è un giocatore vuoto, trasparente, che nemmeno è consapevole di quello che sta facendo. L’Atalanta va, vola direi, ma Ilicic è rimasto sul posto. Un cataclisma si è abbattuto su di lui. Un accumulo di cose che lo hanno sempre perseguitato esploso dentro di lui, rendendolo impossessato di un animo amaro, svuotato dalla brillantezza, paralizzato dagli eventi: era ed è il compimento del suo animo fragile.

<<Più invecchio e più divento forte>>
Un paragrafo che spezza, prima di raccontare il vero animo fragile di Ilicic. Un animo comprensibile per quello che ha passato e per quello che ha visto passare con i propri occhi, ma ci arriveremo dopo.
Questa, quella che leggete nel titolo di questo paragrafo, è quanto rilasciato da Ilicic dopo il poker, suo e della squadra, al “Mestalla” di Valencia. All’età di 32 anni, lo sloveno, ha raggiunto risultati che nemmeno un calciatore di tre o quattro anni in meno riuscirebbe a raggiungere. Parlo di giocatori normali ovviamente. Eppure no. Gasperini lo ha trasformato in Benjamin Button del calcio. Un talento che non ha mai avuto un rapporto direttamente proporzionale con le sue prestazioni, perché spesso, come hanno raccontato le vecchie esperienze, specie quella con la Fiorentina, sono state altalenanti, oscillanti, che quando sembravano trovare un perfetto equilibrio, ecco che una folata di vento forte ridava la spinta. Forse condizionato dagli infortuni, forse no, fatto sta che l’allineamento perfetto lo ha trovato a Bergamo, dove Gasperini gli ha inventato un ruolo che non esiste, perché lo fa giocare come vuole, come meglio crede: si accentra, il più delle volte, ma poi le giocate sono sue; le invenzioni sono sue; l’arte è tutta sua. Per questo ha realizzato, quest’anno 21 gol in 34 presenze. Per questo è un genio incompreso. Da tutti descritto come un “talento estemporaneo” che prima o poi si sarebbe dovuto spegnere. Eppure, anche quando gli staccavi la spina, lui assorbiva comunque la corrente e si trasformava in SuperIlicic. Una squadra che ruota intorno a lui e al Papu. Tutti guardano lo sloveno, tutti lo servono, lo cercano, come se fosse una boccata d’ossigeno dopo tanti secondi di apnea. Lui pensa, idealizza e realizza passaggi chiave che era impensabile immaginarli e con tiri dalla distanza che possono superare qualsiasi soglia. Tratti che gli sono sempre appartenuti, e che si sono solidificati proprio adesso, all’età di 32 anni.

Numeri impressionanti anche agli statistici. Dati oggettivi che rendono oggettive anche le sue capacità di trascendere il calcio, di renderlo più moderno di quanto lo sia già. Ilicic è avanti, vede cose che gli atri non riescono, e va oltre il normale. Gasperini, come scritto sopra, gli ha dato la possibilità di fare da solo, di scegliere per se stesso, perché forse, nemmeno lui riesce a dargli una collocazione. Se i poeti possiedono quella che viene denominata licenza poetica, lo sloveno, la possiede nel panorama calcistico. E il Pais, gli regala queste parole:

«Ilicic è uno spirito libero che si sente benissimo lasciandosi trasportare dalle sue visioni. llicic conosce il gioco perché lo vede, non perché lo analizza. Non si è dedicato al calcio per affrontare i problemi ma per distrarre la mente».

L’ultima frase, però, ha preso una strana piega, perché mai come prima, si è evoluto il suo animo fragile. Le crepe erano sempre più numerose e, prima o poi, il gioco era destinato a rompersi.

L’evoluzione perfetta del suo animo fragile
Ritorniamo a Prijedor, nel 1988. La città si apprestava ad aggiungere un fiocco azzurro, perché Josip era stato messo al mondo da poco. Il calcio stava per conoscere un nuovo talento, ma per il momento, era coccolato tra le braccia di mamma. Solo di mamma, perché papà stava lì, a combattere in quella maledetta guerra, quelle che non sono mai cessate su questo pianeta, la cavia principale. Già lì, in dentro quella sua piccola culla pronta ad ospitarlo, si apprestava ad arrivare un ospite indigesto per ogni tipo di animo, ma, quella volta, aveva deciso di incontrare il suo. Gli penetra dentro, silenziosamente, innescando un periodo di incubazione lunghissimo. All’inizio asintomatico, solo pian piano che diventava grande i primi sintomi cominciavano ad emergere. E così il papà non l’ha mai conosciuto e, l’unico modo che aveva e che ha di viverlo, sono le fotografie, l’immaginazione e il l’idea stessa di averlo messo al mondo. Josip cresceva, diventava grande ed è diventato uomo prima di rendersene conto: la guerra continuava, le bombe colpivano qualsiasi cosa, mietendo vittime ogni giorno. Case distrutte, vite infrante, e il suo animo, pian piano, si andava sensibilizzandosi sempre di più, inquinato da quella distruzione causata dall’uomo stesso. L’unico pertugio ove trovava riparo era il calcio. Uno sguardo di intesa, come quello che c’è tra due innamorati, in cui non servono frasi d’amore, poesie, o pazzie, ma uno sguardo, uno solo. E tra l’arida vitalità, conosce Tina, la sua amata moglie ed <<è per Tina se non ho mai mollato>>, dirà a Sportweek. Lei lascia l’atletica per Josip, e Josip, lascia la Slovenia per avere stabilità. In Italia sembrava andasse tutto per il verso giusto, un animo fragile e, anche se indolenzito, il nemico malvagio che glielo stava corrodendo, sembrava essersi acquietato. Sarà per Tina, sarà per la fuga da un posto inondato dalla distruzione, sarà per qualsiasi motivo, ma Ilicic sembrava esser sereno. Gli anni passavano, Ilicic lottava contro la sua incostanza abbagliata da bei gol e il suo animo quiescente come un vulcano in riposo. Poi, nel 2018, quando intraprendeva una stagione mozzafiato con la Dea, ecco che sorge un fatto che lo paralizza: la scomparsa di Davide Astori. Un suo amico, un compagno di squadra, un capitano, Davide era un uomo sorridente, smagliante; non era il difensore più forte al mondo, ma era un leader, un vero e proprio leader. Quando Ilicic venne a sapere del misfatto i suoi muscoli si paralizzarono, e il terremoto interno risvegliò la fragilità di un animo rimasto a riposo per troppo tempo. La paura, il non sapere cosa succederà domani, Ilicic era preoccupato. << E se non mi svegliassi la mattina, e se non vedessi più la mia famiglia?>> dichiarò in un’intervista. Josip non dormiva più, il fuoco fatuo al suo interno lo tormentava e i fantasmi del passato, compensati da quelli del presente, cominciarono a farsi sentire, manifestandosi pienamente un paio d’anni dopo con la pandemia. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Scappato da una guerra ora ne vive un’altra. Perlomeno in Slovenia il nemico era visibile, qui no. A Bergamo no. Persone innocenti, vitali, innocue, sterminate a più non posso da un’infezione silenziosa che stravolgeva gli animi delle famiglie. Il suo soprattutto. Questo ha scatenato dentro di sé un impetuoso vortice che ha risucchiato la sua forza, gli ha prosciugato l’energia sprizzata per tutto questo tempo (anche se lo chiamavano il “nonno”), l’opacità che ha sostituito la lucentezza. Le nubi vulcaniche del suo animo fragile si sono addensate nei suoi pensieri, annebbiando la vista, annullando le prestazioni, sconvolgendogli l’anima. Se ne è ritornato a casa, tra i boschi, con la famiglia. Un accumulo di cose che poi sono esplose con i camion dell’esercito, ove trasportavano persone innocenti. Tranquillità, serenità e purificazione da quella oscurità che se lo sta mangiando. Questo serve ad Ilicic. E ha avuto il supporto di tutti, non solo di Tina, ma anche dei tifosi, che hanno provato a mandargli segnali di vicinanza con un messaggio sui social o cambiando la propria immagine profilo sostituendola con la sua; dall’allenatore, con la sua pacatezza, frasi nette, che gli dimostravano affetto, senza andare troppo nell’intimità e nella riservatezza; dei giornalisti, che hanno scritto di lui, depennando le critiche sulle prestazioni; tra gli appassionati di calcio, che non vedono l’ora di riassaporarlo in campo.

Deve prendersi il tempo che gli è necessario, solo lui saprà quando scoccherà l’ora del suo rientro. E noi, non possiamo far altro che aspettarlo, per ammirare la sua genialità moderna, ancora più moderna di un calcio altrettanto moderno.