C’è una frase, una soltanto, che accomuna tutti i bambini d’Italia, una frase che dai dieci anni in su, ci siamo sentiti ripetere almeno una volta (al giorno): “lascia perdere quei videogiochi, non ti insegneranno nulla di buono”. E forse, un minimo di verità i signori genitori l’avevano anche, dalla loro parte, visto che trascorrere le giornate nelle strade di una Los Angeles digitale immischiato nella guerra tra bande, non è che mi abbia insegnato poi molto, se non il rispetto e la lealtà; però c’è un gioco, o meglio, la modalità di un gioco, che ha dato davvero tanto a chiunque l’avesse mai avviata anche solo una volta. Che poi, avviarla solo una volta e poi non toccarla mai più sarebbe stato impossibile, perchè lei, è come una droga, un’assuefazione da cui è impossibile allontanarsi: stiamo parlando della “Master League” di Pro Evolution Soccer.

Vecchi amici

In un anonimo pomeriggio di metà febbraio, mentre mi accingevo a ripurile la cantina di casa, si presentò davanti a me un inpolveratissimo scatolone bianco, sopravvissuto nel corso degli anni, a varie sedute di “decontaminazione” da polvere e cianfrusaglie. Il perchè di tale resilienza lo si poteva intuire dalla scritta stampata su entrambe le facciate della scatola: PS2. In preda a un pieno attacco di nostalgia, collegai la consolle al monitor del computer, e in men che non si dica, mi ritrovai a pregare il perfetto avvio dell’unico CD rimasto ancora in bella mostra sullo scaffale affianco alla mia scrivania. Quello di Pro Evolution Soccer 6.

Avviatosi senza neanche il minimo segno di intoppo (nonostante l’età), la prima cosa che andai a cercare tra le voci di un menù che nonostante gli anni dimostravo ancora di conoscere a memoria, fu la seguente: “campionato Master”. In un attimo, con un veloce caricamento, mi ritrovai davanti a quello che alcuni definirebbero solamente come “un paio di nomi su di uno schermo”, ma che per me erano e saranno sempre come dei grandi amici. Ivarov, Stremer, Minanda, Castolo, Espimas, loro erano tutti lì, certì che un giorno sarei tornato per condurli ancora una volta su quei campi da gioco digitali che per anni avevano riempito i pomeriggi di un “me stesso” adolescente. Uomini prima che pixel, amici prima che giocatori, allorchè ai tempi, assegnai un soprannome a ognuno di loro. Ivarov, il portiere, era diventato, dopo un paio di partite, la “saracinesca socchiusa”, perchè quando gli avversari arrivavano a tirare in porta (un po’ troppo spesso) diventava un cinquanta e cinquanta: o la palla entrava dopo una goffa papera del portiere, o quest’ultimo si prodigava in una clamorosa parata per salvare il risultato; Iouga invece, il “tuttofare”, perchè lo si poteva utilizzare sia come difensore centrale, sia come mediano in casi di estrema necessità. Perchè sì, con quel gruppo di giocatori, non si vinceva mai; spesso si perdeva, qualche volta si pareggiava, raramente arrivava una vittoria. Ma quando ciò accadeva, quando in classifica si poteva registrare un “+3” sotto la voce “PES UNITED” diventava una vera e propria festa. Per non parlare di quando, per un intero week-end festeggiai insieme a un mio amico, la conquista della “WEFA Masters”, l’equivalente dell’attuale Uefa Europa League, nonchè l’apice in chiave trofei del “mio” gruppo.

I valori di un tempo

Ma per quale motivo, PES6 e la sua “Master League” (presente anche nelle altre edizioni del gioco, questo va precisato) dovrebbe astenersi dal “lascia perdere quei videogiochi”? La risposta è semplice: la Master League è in grado di insegnarti dei valori importanti, e lo fa in maniera divertente.
Se oggi i ragazzini distruggono joypad come fossero soldatini per colpa di FIFA e della famosissima modalità chiamata “Ultimate Team”, con Ivarov e compagni, perdere poteva essere dannatamente divertente. Già, perchè al contrario di adesso, un tempo si partiva con una squadra dannatamente scarsa: per fare un paragone, adesso puoi avere subito tra le mani Cristiano Ronaldo, mentre un tempo, dovevi accontentarti di Huylens, un attaccante bulgaro esistito solo nelle fantasie dei programmatori, ma che di certo non ricorda Berbatov.
Ed è proprio questo il bello: arrivare al calcio d’inizio con la consapevolezza di dover, ogni volta, provare a fare l’impresa per portare in cascina almeno un risicato punticino, rendeva in primis le cose molto più interessanti (vincere subito, annoia) e ti preparava ad accettare la sconfitta, che il più delle volte era davvero inevitabile, specialmente nelle prime partite. Se all’asta del fantacalcio riesco ogni anno a resistere all’idea di puntare tutto sull’attaccante più appetitoso disponibile sulla piazza, lo devo a quel pomeriggio in cui mi presentai davanti al Merseyside Red (ndr, il Liverpool) schierando Klose come punta centrale, ma con Stremer e Ceciu come centrali di difesa, errore che mi permise di capire che il bilanciamento è qualcosa di importante. Ecco perchè adesso, c’è chi spende follie per accaparrarsi Cristiano Ronaldo e Immobile, arrivando a giocare in sette a fine campionato.

Gli amici (veri)

Al giorno d’oggi, per sfidare un amico basta una connessione ad internet. Ai tempi di PES6 invece, l’unico modo per sfidare un amico, era quello di andare a casa sua o viceversa. E spesso, quello che “partiva per la trasferta” doveva anche portarsi il joypad, perchè nel lontano 2006, anche solo l’idea di provare a lanciarlo per terra dopo una sconfitta equivaleva a mesi e mesi di console sequestrata dai genitori, o nel più fortunato dei casi, all’impossibilità di giocare per via della mancanza di quell’aggeggio in grado di impartire a Minanda l’ordine di tagliare a rientrare verso la porta, per ricevere lo scarico di Dodo. E se c’è una cosa, di cui con il passare del tempo sento maggiormente la mancanza, sono proprio quei pomeriggi, anzi, quel pomeriggio.

Era un mercoledì di giugno, e nonostante i circa quaranta gradi che si potevano percepire nella mia angusta cameretta, io e Marco (nome di fantasia) eravamo lì, a giocarci una finale. La finale della “WEFA Masters”.
I patti, erano chiari: quarantacinque minuti a testa, più l’eventuale recupero. Stessa regola in caso di supplementari, mentre nel remoto caso in cui si fosse arrivati ai rigori, ne avremmo tirato uno a testa.
Un bambino di undici anni con ogni probabilità avrebbe giocato da solo quella partita, ma Marco era “l’amico più forte”, quello che a volte per compassione mi lasciava anche vincere, quindi avevo bisogno di lui. Castolo, Ivarov, tutti i miei amici avevano bisogno del mio amico. La scelta si rivelò vincente: dopo i suoi primi quarantacinque minuti, andammo negli spogliatoi in vantaggio per uno a zero. A insaccare era stato proprio Castolo, abilmente comandato da Marco in una serpentina tra le maglie dei difensori della Lazio.
Nel secondo tempo, quando le redini del gruppo passarono tra le mie mani, arrivò il pareggio: Tommaso Rocchi all’epoca era infermabile sotto porta. Galvanizzato dall’idea dei supplementari, e quindi di tornare a giocare, Marco consigliò a Iouga il “tuttofare” di passare a una formazione prettamente difensiva (sì, Iouga era anche quello a cui affidare le tattiche in mezzo al campo), ma fortuna volle che per errore, sbagliai tasto, scegliendo la via del pressing. Fu cosi che nel giro di cinque minuti, quando alla fine dei tempi regolamentari mancavano appena cinque minuti, conquistai tre corner consecutivi, da cui arrivò, all’ultimo tiro dalla bandierina, il micidiale colpo di testa di Stremer. Due a uno e filmato di premiazione ancora stampato nel cervello. Perchè ogni volta che in televisione mi capita di guardare una partita di Europa League (spesso, per via della mia fede calcistica) la mente non può fare altro che tornare a quell’afoso pomeriggio e a quel gruppo di eroi.
Perchè la Master League, era la Master League.