Qualche giorno fa, ho letto un capolavoro di Arsenico17 dal titolo: “Ti voglio tanto bene Peppe!”. Come ho scritto pure in un commento al pezzo, al di là dei contenuti con cui si può sempre essere in accordo o dissentire, la stesura di quel lungo articolo mi ha coinvolto talmente tanto che, nonostante immagino siano parecchie pagine Word, ho riassaporato lo scritto più di una volta per carpirne ogni singolo dettaglio. Non riuscivo a staccarmi dal testo. Così ho deciso di provare a rispondere.

Proprio come ama fare il mitico Collega Blogger, cerco di raccontare una storia. Arsenico, non la prendere come volontà di copiare, ma soltanto quale riconoscimento alla tua infinita capacità di attrattiva.

In un tempo lontano, il papà di Caio tornò a casa stanco e distrutto da una pesante giornata trascorsa al lavoro. Era ormai tarda sera. Il signor S si accasciò stremato sulla poltrona del salotto davanti a ciò che restava del fuocherello acceso dal figlio per scaldarsi e cuocere un pasto frugale che aveva potuto assaporare, solo come un vagabondo, nella stanzetta, rectius monolocale, in cui viveva con il babbo. La mamma, purtroppo, era venuta a mancare a causa di un terribile virus che stava colpendo tutti con una ferocia degna di Attila il Re degli Unni. L’unico genitore rimasto, quindi, doveva provvedere a ogni necessità del giovane ragazzo. Caio aveva solo 11 anni, ma era dovuto crescere in fretta e imparare ad arrangiarsi da solo - espressione più romanzesca del termine “sopravvivere”, ma che vanta il medesimo significato. Caio stava leggendo uno dei pochi libri che il padre non aveva dovuto vendere per riuscire a mantenere se stesso, il figlio e pure quell’osteria vantata nel cuore di un piccolo paesino chiamato “Non c’è”. Il nome deriva dal fatto che tale località rappresentava un luogo di passaggio su un'importante arteria dove solitamente circolavano le carrozze atte al trasporto delle merci, ma anche i viaggiatori che si muovevano per motivi professionali. Così nacque “Non c’è”, il posto che c’è, ma nessuno lo nota, quindi non c’è. La stessa sorte vale pure per i suoi abitanti che, dopo la morte della mamma di Caio, erano 4 perone in croce. Il ragazzo, il babbo e un’altra coppia di anziani signori che lavorano i campi e, con la loro fondamentale opera, riuscivano a campare. Ogni tanto, la signora P, moglie del signor F e vicina di casa di Caio, lo aiutava nei suoi compiti quotidiani mentre il padre cercava di fare il possibile per mantenere vivo il suo piccolo e umile ristorante, unica fonte di reddito della famiglia. Prima di morire vi lavorava anche la mamma di Caio e, a causa della sua prematura scomparsa, il signor S doveva svolgere da solo tutte le mansioni necessarie. Non aveva, infatti, la benché minima possibilità di pagare qualcuno che potesse coadiuvarlo. Anzi, con grande onestà, aveva dovuto pure “licenziare” Sempronio, un 30enne collaboratore, che grazie a quel mestiere riusciva a mantenere lui, la giovane consorte e il piccolo Tizio, nato solo qualche giorno precedente l’arrivo dell’orrendo microbo. Prima dell’epidemia, l’attività procedeva piuttosto bene. Oddio, non è che ci si arricchisse, ma garantiva un’esistenza dignitosa e piuttosto serena a due famiglie. Come detto, quella località era un porto di mare. Gente che va e gente che viene, così i viandanti si fermavano per una breve sosta e al fine di rifocillarsi, scaldarsi o rinfrescarsi spendendo quindi qualche denaro. Il babbo di Caio si alzò dalla poltrona e si diresse verso il fanciullo. Con estrema onestà gli disse: “Sai ragazzo, Ti devo parlare…”. Il bambino, perché di questo in effetti si tratta, era molto perspicace. Conosceva la situazione intorno a sé e sapeva pure dei problemi economici in cui versava ultimamente la sua famiglia. “I capi, quelli che devono prendere le decisioni, dicono che dobbiamo chiudere”. Caio rispose: “Lo so, papà! La signora P mi ha detto tutto.”. E continuava: “Non ti preoccupare, però, perché smetterò di andare a scuola e troverò un lavoro che venga considerato ‘essenziale’. Non come il tuo, babbo!” Esterrefatto dalle parole del figliuolo, il signor S rimase in balia degli eventi. Caio proseguì: “La signora P mi ha raccontato che gli ospedali sono pieni di persone ammalate come la mamma e che l’unico modo per riuscire a curarle tutte è quello di incontrarsi sempre di meno. Io di amici non ne ho. Qui a ‘Non c’è’, nessuno ha la mia età. Non ti preoccupare per me. Me la caverò. Pensiamo soltanto a trovare un lavoro che ci permetta di comprare il pane da mangiare, babbo, perché i capi hanno promesso tanti soldi, ma non ci basteranno”. Sempre più estraniato dalla saggezza del bambino, il signor S scoppiò a piangere e lo abbracciò. Per lui, la situazione più dura era convincere il ragazzo di un futuro nebuloso, ma questi lo aveva compreso da solo alla perfezione.
Volete sapere come finisce la storia? Pur essendo soltanto un fanciullo, Caio aveva visto il domani come in una palla di vetro. Il denaro promesso giunse, anche se non a tutti, ma non fu la panacea dei mali. Il signor S dovette chiudere immediatamente l’osteria perché non riusciva a mantenerla mentre era ferma e necessitava assolutamente di ulteriori somme per la crescita del figlio e la sua istruzione. La comprarono delle persone che venivano da lontano e a prezzi stracciati, ma questa soluzione si rivelò insufficiente. Il babbo, infatti, non trovò lavoro.

Qual è la morale di questo racconto? La terminologia “attività essenziale” è qualcosa di assolutamente disumano che la scienza e le istituzioni sono state costrette a ideare per salvaguardare il sistema sanitario posto al collasso dalla pandemia. La nuda e cruda realtà nega l’esistenza di una simile categorizzazione perché qualsiasi professione è fondamentale per qualcuno. Siamo, però, al paradosso dei grandi numeri: per salvare i tanti, occorre sacrificarne altri. Questo è palese ed evidente, ma era comprensibile già dallo scorso mese di marzo. Il mondo è un sistema complesso e se qualche settore si blocca, il rischio è di fermare tutto. Molti esperti virologi o dottori in simili discipline paiono non comprendere, o fingere di non capire, tale terribile problema che, invece, la Politica deve sorbire. Non si può fare di tutta l’erba un fascio e il professor Richeldi, per esempio, spiegava a “Porta a Porta” come le ultime misure siano tese ad assecondare tutte le esigenze. “In medio stat virtus” sostenevano i romani e, se non si opera nella direzione indicata dallo pneumologo del Gemelli, si cadrà in un dramma psico-economico-sociale degno del covid-19.

Caio, figlio dell’oste di “Non c’è”, vale come Giacomo, bambino del medico di Milano, ma l’uno è considerato “essenziale”. L’altro, invece, no. Capite bene che se la bilancia non è ben equilibrata, il paradosso è palese. Come ho già scritto in più di un’occasione, le risorse dedicate agli ammortizzatori sociali sono tutt’altro che infinite e, soprattutto, sono un lenitivo. Non tolgono il male. L’unico modo per levare il dolore è lavorare. Se mi viene dato un soldo, ma non lo posso investire nella mia attività, non riesco nemmeno a spenderlo, altrimenti il giorno dopo sarò di nuovo al verde. Mi pare un concetto piuttosto elementare. Le categorie professionali poste in questa situazione sono molteplici. Penso anche allo sport di base e alla cultura. Riavvolgo il nastro di alcuni mesi e ricordo qualcuno che sosteneva: “Se un imprenditore fallisce per 60 giorni senza lavoro, significa che il suo destino era comunque segnato”. Tale concetto, affermato da chi si ergeva a paladino del lockdown per salvare il mondo, è assolutamente contraddittorio. I motivi sono banali: o la volontà è quella di tutelare tutti oppure soluzioni unilaterali non possono considerarsi pozioni magiche e risolutive.
Ciò ammesso, il problema è che i famigerati 2 mesi si stanno prolungando a dismisura e la situazione diviene sempre più gravosa. Ora non è in crisi soltanto chi pativa già una condizione complicata, ma anche chi stava piuttosto bene come il signor S. Non odo più l’inno nazionale cantato sui balconi o le note dei celebri capolavori della musica tricolore. Le bandiere non sventolano più e i cartelloni con scritto: “Andrà tutto bene” sono stati gettati nella carta oppure rintanati in qualche cassetto. Sono rimasti soltanto dei rimasugli strappati dal tempo, dalla calura estive e dai vari capricci atmosferici. Oggi si assiste alle proteste di chi onestamente richiede di lavorare per poter campare e mantenere le famiglie. Tra questi professionisti, purtroppo, a volte si inserisce qualche malintenzionato che distrugge e devasta, ma urge essere in grado di discernere tra i tanti che reclamano per necessità e chi, invece, ne approfitta con altri scopi. Le crude immagini delle terapie intensive stipate sono ormai affiancate da quelle di chi soffre la fame. Nonostante tutto, qualcuno sostiene ancora di vedere soltanto “morti di covid”. Beato lui. Non prendetemi per pazzo. Intendo dire che analizza soltanto il 50 percento del problema sicché sicuramente può preventivare un futuro più roseo.

Ciò detto, le misure attuali paiono inevitabili e abbastanza equilibrate, ma servono idee concrete per il futuro. Non basta elargire denaro. Sono necessari progetti e programmi. Un lockdown simile a quello della scorsa primavera, invece, demolirebbe l’umanità. Questo mi sembra piuttosto palese. Non si parla soltanto di problematiche economiche, ma pure psicologiche e sociali.

Voglio raccontarvi un’altra storia. Stavolta, però, non la invento di sana pianta. E’ reale.
Un anno fa, di questi tempi, ci preparavamo al Natale. Molte persone non stavano certamente bene e non tutto era luccicante, ma rimpiango quel periodo come se fosse il Paradiso. Le luminarie delle città cominciavano a colorarsi. Era concessa possibilità di entrare in un negozio e acquistare il regalo per qualcuno. Da questo punto di vista non mi conoscete, ma non sono mai stato troppo avvezzo al consumismo. In pratica: i doni non li ho quasi mai fatti. Volete sapere perché? Li ritenevo privi di significato profondo. Pensavo fossero semplice apparenza senza costrutto. Credo ancora sia così. Molte persone, infatti, non compiono tali gesti con il cuore, ma quasi come se fosse un dovere legato alla tradizione. Allora, che senso ha? Oggi, però, la realtà è totalmente diversa e un piccolo presente acquistato nel negozietto di borgata o nel cuore della città ha un significato immenso per quel commerciante che si sta tirando il collo al fine di mantenere l’attività.
Chi può non ceda alle note multinazionali che ti portano il pacchetto tra le mura domestiche. Per carità, nulla in contrario. La loro presenza è fondamentale per garantire posti di lavoro, ma in questo momento sono altri ad avere realmente bisogno. La piccola e media impresa deve essere salvata. Chi è in grado lo faccia: vada nell’esercizio locale e acquisti i beni. Non si tratta di volontariato o di elemosina, ma di un concreto gesto di solidarietà.

Proseguo nella mia narrazione. Trecentosessantacinque giorni fa prendeva avvio la grande giostra delle cene di Natale. “Che p…” si pensava “devo sprecare una serata con i miei colleghi che vedo tutto il giorno, 7 dì su 7. Ma basta ...” . Oggi, invece, desidereremmo più che mai poter desinare convivialmente con qualcuno, magari facendo due risate e un brindisi. L’aneddoto è vicino a quello raccontato molto meglio da Arsenico17 con l’esempio degli assorbenti, ma credo che il concetto sia all’incirca simile. Pur di uscire dalle nostre gabbie, che ormai dorate non sono più, ci accontenteremmo di qualsiasi cosa, pure dei tanto pesanti acquisti natalizi in una città affollata. Quando un tempo si usciva la domenica, se eravamo fortunati rigorosamente dopo il triplice fischio della serie A alle 17, per comprare due palline di Natale allo scopo di aggiungerle all’albero, ci arrabbiavamo come di fronte al più terribile dei mali. Ormai quel povero abete era diventato ridicolo. A forza di modifiche effettuate dicembre dopo dicembre, pareva Arlecchino. Non si capiva più se ci si trovava di fronte a un simbolo natalizio o si fosse passati direttamente a Carnevale. Un miscuglio che tutto sembrava tranne essere chic. Manca il sorriso compiaciuto degli amici che, davanti alla consorte, si complimentavano per gli addobbi e appena lei girava l’angolo chiedevano di accendere immediatamente la tv per vedere la partita. A loro, di quell’insieme imprecisato di oggetti accatastati l’uno sull’altro, non fregava assolutamente nulla.

Sarebbe fantastico poter giocare il calcetto del giovedì sera che ci hanno illuso di riprendere per poi vietare bruscamente e all’improvviso. Siamo rimasti come il bambino che sta per leccare il suo cono gelato appena comperato alle bancarelle di un lunapark, ma piombato a terra perché non saldamente tenuto nella mano. Quanto era bello trovarsi al bar nel pre gara. Sembrava l’hotel dei grandi campioni. Il caffè, la bevanda energetica o il tè caldo per emulare i nostri eroi. A dire il vero, qualcuno osava bersi uno spritz per poi rantolare dopo 10 minuti di partita. Il viaggio verso il campo sportivo rappresentava l’apice del divertimento. In 5 in auto con il riscaldamento a pallettoni che pareva di stare in un forno e quando scendevi ti pigliava una botta di freddo da distruggere pure Hulk. Non oso immaginare l’odore che si poteva annusare in quel veicolo. Anzi, lo so perché dopo 2 ore vi risalivo e si riproponeva come un panino avariato. Ma chissenefrega. Bastava abbassare i finestrini. Disturbo minimo dopo una serata festosa. Ricordo le improbabili calzamaglie con i paracollo vietati e l’arbitro che se ne accorgeva a match già avviato. Ti guardava con un’aria superiore come a dire: “Chi pensavi di fregare?”. In effetti aveva ragione perché qualcuno, preso da un impeto di stanchezza mixato a volontà competitive, avrebbe potuto appigliarsi proprio a quell’oggetto per tentare di bloccare la fuga solitaria verso il suo portiere. Non sarebbe stato il massimo per una parte fondamentale del corpo. Mancano la pizza e la birra che dopo l’incontro erano quasi un must.

Insomma, il covid-19 ci ha rubato la socialità. Ci ha distrutto quelle sane e necessarie abitudini che l’uomo giustamente esige per poter campare in un minimo di serenità. E’ assolutamente logico che siano “sciocchezze” in confronto alla portata del male che ci avvolge, ma sottovalutarle troppo sarebbe un grande errore.

Usciremo migliori dalla pandemia? Non posso rispondere perché è un quesito molto personale. Per ciò che concerne gli aspetti oggettivi della situazione, cioè economia, psicologia e socialità, però, si viaggia verso una risposta assolutamente negativa.