Oggi non è un giorno qualunque. Non lo è né per i tifosi francesi, che ricorderanno questo giorno con Zidane che se ne andava sotto la doccia senza nemmeno guardare l’accecante Coppa e per la traversa di Trezeguet che ha spento definitivamente le loro speranze né per i tedeschi, convinti di portarsela a casa perché giocavano nel loro territorio, ma sono bastati due minuti, 119 e 121, per far rimanere impressa l’immagine di quella ragazza con le mani al volto, simbolo di delusione, simbolo di una sconfitta che non si fermava al materialismo, ma andava oltre, toccando i sentimenti. E non è un giorno qualunque tantomeno per noi, perché il 9 luglio del 2006, Berlino si tinse di azzurro e per quel giorno, per quella notte, per quella singola notte, non esisteva cosa che poteva fermarci. Ci sentivamo imponenti, ci sentivamo un corpo e un’anima sola. Ci sentivamo invincibili, perché avevamo annegato nella gioia e nell’estasi tutte le brutte cose, tutte le preoccupazioni, tutti i mali che ci portavamo alle spalle da troppo tempo. Quella notte è stata la concretezza della felicità.

Un percorso, quello effettuato esattamente 14 anni fa, che ha avuto dell’incredulità. Nessuno si sarebbe mai aspettato un traguardo del genere e di certo questo è stato uno dei fattori che ha reso la nostra vittoria incredibilmente magica. L’Italia veniva colpita dallo scandalo “Calciopoli” e in poco tempo eravamo diventati la barzelletta del calcio mondiale. Un evento tremendo di cui già si iniziava vociferando un paio di anni prima, ma che divenivano sinonimo di verità e concretezza all’avvicinarsi del Mondiale. In tutto il mondo non si faceva altro che parlare di noi, con calciatori di squadre estere che rimanevano sbigottiti alle parole dei quotidiani e con i Presidenti delle squadre di Serie A preoccupati di non portare a termine acquisti di mercato a causa del ripensamento – più che lecito – dei giocatori. Nei giornali e nelle interviste effettuate a persone comuni, c’è chi preferiva non presentarsi nemmeno alla competizione internazionale, perché una vergogna di quel calibro avrebbe potuto rimarginarsi soltanto con il tempo. Insomma, quello che ci portavamo dietro era solo un bagaglio pieno di responsabilità. La nostra redenzione poteva essere la presenza e non l’assenza, perché avevamo l’obbligo di ripulire il nostro paese da una macchia troppo grande e forse, quel giorno, per la prima volta nel XXI secolo, ci siamo sentiti veramente “Fratelli d’Italia”.

Eppure, in quel singolo mese che sembrava durasse per sempre, l’Italia riuscì in un’impresa che non era nemmeno messa in preventivo o comunque nemmeno pensata. I giocatori c’erano, la voglia di rivalsa pure, l’idea di viverla giorno dopo giorno anche, ma la ferita nell’animo rimaneva; non era una di quelle ferite che si curava così. Prima ho scritto che serviva il tempo, ma forse nemmeno quello sarebbe bastato. Era una di quelle ferite che si doveva curare con il vaccino e, a quanto pare, l’unica dose disponibile era su quella coppa: il sogno proibito di tutti e la certezza della Germania. Ma tutto quello che si creò in quei giorni fu inspiegabile: tutti noi, calciatori inclusi, erano riusciti a mettere alle spalle – seppur troppo superficiale e riduttivo scriverlo in tale modo – un evento, un tragico evento, che aveva messo in ginocchio il nostro morale, il nostro orgoglio. Una patina magica, invisibile e impercettibile, andò a contornare la nostra aura e quella dei nostri uomini scesi sul campo di battaglia. Una miscela di emozioni che si vivevano in contemporanea, tra noi a casa e loro che calpestavano il manto tedesco. Una sinergia incredibile, che pian piano cresceva sempre di più e, senza rendercene conto, eravamo tutti davanti lo schermo della televisione a sperare che Francesco Totti buttasse quel pallone alle spalle di Schwarzer, l’unico pass per andare ai quarti di finale. E così, con un nuovo look di capelli, con la convocazione al Mondiale giocata ai limiti dell’incertezza e, infine, con il dito in bocca, il capitano della Roma ci mandò contro l’Ucraina, che, per noi, e per nostri rappresentanti, fu una vera passeggiata.

Quel 3-0 ai quarti, non era un risultato banale, perché avremmo anche passeggiato contro la squadra di Shevchenko, ma fatto in quel modo, con quella scioltezza, come la tranquillità di chi cavalca l’onda su una tavola da surf, beh, noi eravamo dei bravi surfisti. Non stavamo cavalcando un’onda scontata, quella che si affronta di prassi, tipo per allenamento, ma stavamo cavalcando un’onda anomala, grande più di noi che nascondeva sotto la sua spuma tutte le intemperie di Calciopoli. Per questo dico che quel 3-0 era un risultato importante, perché stavamo camminando con elasticità su un qualcosa che mesi prima ci stava facendo annegare.

Ed eccoci lì, in 65000 al Westfalenstadion di Dortmund. Non sapevamo nemmeno cosa credere, ma stavamo lì. Vuoi o non vuoi eravamo davanti ai favoriti della competizione. Tenacia, caparbietà, freddi nel metterci, almeno in quel mese, alle spalle le maledizioni tirateci contro. Non contava più nulla e, arrivati lì, non potevamo pensare o affermare frasi come “l’importante è partecipare”, ma dovevamo assolutamente cambiarla e scriverci “vincere”, perché era l’unica cosa che avrebbe potuto appagare il tutto. L’esultanza che fece Fabio Grosso, il “non ci credo” ad occhi chiusi, era la copertina rappresentativa di tutti noi in quell’istante. Perché se c’è una cosa, una singola cosa che può farci rimanere esterrefatti, è la sorpresa in un momento inatteso e quello di Fabio fu esattamente questo. L’avrà fatto ad occhi chiusi quel gol, quell’incredibile gol, ma fatto sta che nemmeno il tempo di riaprirli che Del Piero, leader indiscusso della sua Juventus, squadra condannata alla serie cadetta per Calciopoli, prese quel pallone e con tutta la precisione di un vero professionista la schiaffò sotto l’incrocio dei pali. Appena riaprimmo gli occhi ci ritrovammo tutti a Berlino.

Quella finale non voglio commentarla, perché basta prendersi quei due minuti in pace dal mondo, lontano da tutti, solo per se stessi e ripensare alla gioia di quell’attimo. Un secondo solo per mandare, sempre e il solito Fabio Grosso a battere quello che ci avrebbe garantito l’immunità e l’esenzione da qualsiasi avvenimento successivo. Buttò dentro quella palla e il cuore di ogni italiano era esploso di gioia. Quel rigore aveva un valore imprescindibile per noi italiani. Era quel calcio a tutti i nostri pensieri, a tutto quello che annebbiava quotidianamente la nostra mente. In quell'esatto istante nessuno pensava più a nulla, ma solo che il buon Fabio la buttasse dentro, e fu proprio così. Un momento incommensurabile che non può essere né raccontato né tantomeno rivisto. Perché si, ci si potrà far rivenire la pelle d’oca a fare un rewatch del nostro percorso, si potrà piangere dopo l’esultanza di tutti noi, ma preferisco ricordarla così: chiudendo gli occhi e abbandonandomi a quei minuti.

Avevo otto anni, ma ricordo tutto: gente in strada, persone che strillavano a squarciagola, persone che nemmeno si conoscevano, eppure, si ritrovavano tra i rioni e i quartieri d’Italia a cantare il nostro inno, a cantare quel “Popopopopopo” che ci ha accompagnato durante tutta la competizione; gente nei balconi con le trombette e le lacrime agli occhi, gente che urlava tra le macchine cabriolet “siamo campioni del mondo” e lo urlavano non in ogni parte d’Italia, ma in ogni parte del mondo!!
Non solo Berlino, ma tutto il cielo che questo meraviglioso pianeta possiede si colorò di azzurro, eliminando solo per un attimo, tutto il male che ci portavamo dietro, i nostri pensieri, le nostre preoccupazioni, le nostre inquietudini sul futuro, tutto evaporato per quei pochissimi minuti
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Era il 2006, il 9 luglio del 2006.
Darei qualsiasi cosa per far provare a tutte le persone del mondo, di qualsiasi nazionalità che stanno e che stiamo passando nel combattere un nemico invisibile, quei pochi minuti in cui tutto era svanito e dove tutto possedeva connotati di ineffabilità.
Siamo un popolo che vive di ricordi, e questo, è uno di quelli più belli che si possa raccontare.