Io:Amore hai letto, l’ultimo articolo GIAMPKENSTEIN DI ORONZO CANA?”.

La mia compagna: “Sì mi è piaciuto molto, ma levami una curiosità: come diavolo ti è venuto in mente, il termine GIAMPKENSTEIN?”.

 

ESTATE DEL 1985

Avevo otto anni, come tutti i bambini, il cuore colmo d’amore per i miei due, premurosi, genitori. “Chi, a quell’età, non è stato un bambino innamorato della mamma e del papà?”.
Dopo la scuola, a metà di Giugno, il papà e la mamma mi portavano, con i miei due fratelli, in villeggiatura in una località di mare, Zapponeta, in provincia di Foggia. Avevo finalmente la possibilità di vivere, felice, al mare per oltre tre mesi. Per la cronaca, il babbo aveva preso in gestione, con mio zio, un bagno chiamato Torre di Rivoli. Papà, povero uomo, economicamente, non ci guadagnava nulla; lui lo faceva solo per un senso, misto, tra l’affetto e il dovere: portare, tutta, la famiglia in villeggiatura!
Il mare e il sole donavano salute per l’inverno, cosi la pensavano gli adulti negli anni ’80. Il surriscaldamento, fortunatamente, non era ancora quello globale, al contrario un termine utilizzato dal sottoscritto per descrivere, durante il viaggio, quella fastidiosa sensazione, di sudore, provocata dal contatto dell’epidermide con i sedili, in pelle, dell’automobile di papà: un’Alfa Romeo Giulietta, di colore bianco. Negli anni ottanta l’aria condizionata non era un optional, nel senso che essa non esisteva proprio; per il sottoscritto non è mai stato un problema, anzi ricordo che la vecchia ed eroica manovella della portiera, in plastica, ha sempre svolto, dignitosamente, il suo compito e, con un piccolo sforzo di volontà, il finestrino andava su e giù: “Ops, il vento tra i capelli, prelùdio verso la libertà dell’estate! Grazie, manovella della portiera, ti sarò per sempre debitore!”

Avete notato durante l’estate che i bambini contemporanei, come quelli del passato, amano viaggiare senza aria condizionata e con il finestrino aperto dell’automobile?”.

Dopo tante chiacchere, finalmente il mare!

Da lì a poco, le nostre piccole zucche, vuote, si sarebbero riempire di gradevoli ricordi: “Quanti? Solo con i miei ricordi, non voglio esagerare, avrei potuto riempire una valigia, forse due o anche tre di quelle caz(zo) di valigie. Facciamo quattro, per sicurezza”. Con il senno di poi, ripensandoci a freddo, non m’importava proprio nulla di quelle, stupide, valigie: “Non erano, neppure le mie!”.

Un bambino di otto anni, in estate, non ha bisogno di mettere nulla in una valigia: quest’ultima dovrebbe essere sempre vuota, al massimo ci andrebbe solo il costumino e un pallone.

 

LA GARA DI ATLETICA

L’importante nella vita non è solo vincere, ma aver dato il massimo. Vincere senza combattere non è vincere”. È una frase, piena di significato, pronunciata dal vescovo, Ethelbert Talbot, durante le Olimpiadi del 1908. Qualche anno più tardi, quella citazione dotta sarebbe stata semplificata con la frase banale: “l’importante non è vincere ma partecipare!” (Barone di Coubertein, Pierre de Frédy).

Mamma, baronessa di Manfredonia, a ogni esperienza negativa, me lo ricordava sempre: “Oronzo il tuo parto è stato, tanto, complicato! Non volevi, proprio, uscire dalla mia pancia!” - insoddisfatta, aggiungeva: “Quando il parto è difficoltoso, significa che avrai una vita, altrettanto, difficile”. Non potevo fare altro che ringraziare la baronessa: “Grazie mamma, ti voglio tanto bene! Ti sono grato per avermi traumatizzato, per sempre, l’esistenza!”.

Le mamme, per qualche strano motivo, hanno sempre ragione!” e, infatti, quell’estate calda del 1985 fu solo l’inizio, per il sottoscritto, di una lunga serie di sconfitte... e nello specifico, quell’anno passò agli onori della cronaca, sportiva, perché mi fu scippata, ingiustamente, dalle mani una coppa, nonostante avessi vinto la gara d’atletica (100 metri) organizzata sulla spiaggia.

Mio Zio:Oronzo, dobbiamo assegnare la coppa ai villeggianti (il secondo la pretende senza merito), purtroppo non ce ne sono abbastanza!”.

Al posto della coppa mi fu consegnata, come tutti i partecipanti, un’insulsa patacca attaccata a un nastro tricolore. Lo sanno tutti, tranne il barone Pierre de Frédy, che le medaglie si buttano nel cesso, al contrario le coppe restano per sempre esposte, in bella vista, in bacheca.

Quel giorno ho trattenuto, a stento, le lacrime soltanto per non deludere i miei, amati, genitori; quella caz(zo) di coppa, l’avevo sognata per tutta l’estate…

 

IL RELATIVISMO

Secondo il dizionario della lingua italiana, il sostantivo femminile sconfitta può avere significati diversi. Il più appropriato descrive la sconfitta come un esito sfavorevole, per uno dei due contendenti, di una battaglia o di una guerra. In ambito sportivo, invece, il termine sconfitta si traduce in un insuccesso in una competizione di vario tipo.

In questi giorni, mi sono dilettato a riflettere sul significato della sconfitta e di conseguenza, mi sono chiesto: “Un insuccesso può essere determinato da fattori assoluti così come da quelli relativi?”.
Ritornando all’episodio della coppa, ingiustamente, sottratta: “Posso pensare che il mio insuccesso è stato determinato, principalmente, da fattori relativi (un bambino viziato)?”. La sconfitta è sempre, inizialmente, un concetto relativo meritevole di un sistematico approfondimento. Mi spiego meglio: “Sono stato io a essere sconfitto, nonostante ho battuto per ben tre volte di seguito tutti gli altri concorrenti o sono stato vinto, ingiustamente, da colui (il bambino viziato) che mi ha sottratto, dopo la gara, la coppa?” – e ancora: “Abbiamo il diritto di pensare che il perdente, di turno, possa essere stato deciso, preventivamente, dal fato stesso, senza una motivazione valida che non sia quella, esclusiva, del puro caso?”.

Per questo, signori, ritengo che il concetto di sconfitta, talvolta, è così relativo come lo è il significato stesso di vittoria.

La storia dello sport ha dimostrato, in più di un’occasione, che il vincente, per una serie di motivi, non è sempre il più forte: come non lo è stato, affatto, il sig. Lance Edward Armstrong, vincitore per sette volte, consecutive, del Tour de France. Dopo il ritiro dell’americano, infatti, tutte le vittorie ottenute dal ciclista sono state revocate da un’inchiesta condotta dall’United States Anti-Doping Agency che ha accertato il sistematico utilizzo di pratiche dopanti da parte del forte ciclista statunitense e della sua squadra.

Nel calcio la parola “perdente” è stata attribuita, addirittura, all’allenatore Jurgen Klopp fresco vincitore dell’ultima edizione della Champions League. Il tedesco, in passato, è stato etichettato, frettolosamente, con la bolla del perdente per aver perso sei finali in cinque anni. La vicenda ha assunto, persino, un connotato comico a seguito delle dichiarazioni, a caldo, rilasciate dallo Special One, José Mourinho, subito dopo la sconfitta dei reds per 3-0 nella semifinale d’andata di Champions League sul campo del Barcellona.

José Mourinho: Jurgen Klopp è a Liverpool da tre anni e mezzo e non ha ancora vinto niente. Nonostante questo, ha ancora la fiducia per portare avanti il suo progetto”.

Subito dopo la clamorosa rimonta dei reds, vittoriosi per 4-0 sul Barcellona, José Mourinho (Special One) ribalta, completamente, la sua opinione su Klopp: "Lui non piange, altri allenatori di altri campionati sì. Questa rimonta ha un nome: Jurgen. Non c'entra la tattica, non c'entra la filosofia. C'entra il cuore, l'anima, la fantastica empatia che ha creato nel suo gruppo di giocatori. Il Liverpool rischiava di concludere una fantastica stagione senza niente da festeggiare e ora è a un passo dal trionfo europeo".


Cari lettori, in conclusione, mi sento di poter affermare, in modo assoluto, che in questo mondo tutto può considerarsi relativo per un periodo, determinato, di tempo. La sconfitta, così come la vittoria, è soltanto uno stato, virtuale, della mente: aperto, chiuso, on, off, perdente o vincente.

Ho il piacere di finire l’articolo con una delle frasi più belle di un grandissimo allenatore: Io senza calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire (Zdenék Zeman)”.

Per quanto mi riguarda io non mi ritengo, affatto, un perdente: sono, semplicemente, un sopravvissuto...


“Ah dimenticavo, che sbadato, il continuo della storia...!”.

Io: “Amore hai letto, l’ultimo articolo GIAMPKENSTEIN DI ORONZO CANA?

La mia compagna: “Sì mi è piaciuto molto, ma toglimi una curiosità: come diavolo ti è venuto in mente il termine GIAMPKENSTEIN?”.

Io:GIAMPKENSTEIN nasce dall’unione di due nomi, quello di Giampalo, allenatore del Milan, e quello di FRANKENSTEIN, quest’ultimo celebre personaggio del romanzo di Mary Shelley”.

La mia compagna: “Sei un genio, Oronzo per questo motivo ti amo!”.

Io: “Hai visto, alla fine dell’articolo, il video di The happiest days of our lives dei Pink Floyd?”.

La mia compagna: “No, Oronzo quando ho letto GIAMPKENSTEIN ero a lavoro e purtroppo non ho avuto tempo per vederlo (in verità lei mente, spudoratamente)!”.

Faccio finta di niente, anche se un po’ di delusione mi aggredisce. Deluso, la lascio da sola a riflettere sul torto ricevuto e mi dirigo, demoralizzato, dal soggiorno verso la camera da letto.

Poi, il miracolo, finalmente illuminata, lei mi chiama. E’ intenta a smanettare il suo smartphone: “Oronzo dai su svelto vieni, di corsa, che ti faccio vedere… l’ultimo video di Tommaso Paradiso – Non Avere Paura!”

 

Il Relativismo della sconfitta

Oronzo Canà