I NOMI DEI PERSONAGGI DI QUESTA STORIA SONO FITTIZI, QUALSIASI OMONIMIA, ESCLUSE QUELLE DEI CALCIATORI, OVVIAMENTE VOLUTE, SONO DA CONSIDERARSI PURAMENTE CASUALI. ALCUNI EVENTI CITATI NON SI SONO MAI VERIFICATI. 

Scritto con la mia fidanzata Alice

Mi chiamo Mohamed Samlah e ho 14 anni. Vivo in Italia da 6 anni. A Milano da 4. La mia famiglia proviene dalla Libia, dove sono cresciuto per i primi 8 anni della mia vita.
Sono nato a Bengasi, il 24 di un caldo settembre del 2004. Al governo c’era il generale Gheddafi, che i miei genitori detestavano. Mia mamma era un’infermiera bulgara, mentre mio papà era un avvocato, uno dei migliori della Libia. Vivevamo in una lussuosa villa ottocentesca nel centro della nostra città. Quando un giorno mio padre tornò a casa sconvolto. Pronunciò solo tre parole “Milenka è morta”. Milenka era il nome di mia mamma. Mi piaceva molto il suo nome, era molto poetico. Ma da quel giorno, ogni volta che mio padre la nominava, era come ricevere un pugnalata nel cuore. Era morta perché era bulgara. E i libici, da quando era scoppiato lo scandalo HIV, odiavano ogni persona di nazionalità bulgara. Solo perché era nata in quello Stato. Non importava che non avesse nessuna colpa.
Dovetti crescere con mio padre e la mia sorellona Sara, che aveva 3 anni in più di me, in una casa che era troppo grande per sole tre persone. Infatti ogni sera mi addormentavo tremando di paura, stringendo ciò che di più caro avevo: il mio pallone da calcio.
Era il Teamgeist dei Mondiali 2006 e mio papà me l’aveva comprato appena era uscito: lo adoravo, e tuttora è il mio gioiello più prezioso. Il mio vanto. Non sapete quanti calci gli ho tirato, con quanti amici, che adesso non ci sono più, ci ho giocato, quante volte è finito sotto uno di quei macchinoni da guerra degli americani.
Proprio quella guerra che mio padre volle evitare a tutti i costi.
Al tempo frequentavo la Benghazi European School e facevo parte, da due anni, dell’accademia dell’Al-Ahly Sports Club, uno dei principali club della Libia. Ero il migliore della squadra, capocannoniere del campionato con l’under 10. Giocavo con quelli più grandi, perché ero troppo forte, mi dicevano gli allenatori. Mio papà era il mio primo tifoso, mi veniva a vedere ad ogni allenamento e ad ogni partita. Una volta aveva persino abbandonato il tribunale in anticipo per vedermi segnare 5 goal contro l’Al-Nasr, la nostra storica rivale. Ero stato visionato dai talent scout di Real Madrid, Galatasaray e Inter. Ma io tifavo Milan e volevo il Milan. Adoravo Robinho: dribbling, velocità, tiro.

Era il febbraio del 2011 e il mio Milan stava dominando la Serie A, che era il mio campionato preferito: ogni sabato o domenica mi sedevo sul divano e nessuno poteva smuovermi. Mio padre tornò a casa alle 5, due ore in anticipo rispetto al solito. Gli chiesi cosa non andasse e lui rispose solo “Dobbiamo andare”. Mi prese il braccio con forza. Sì, era forte mio padre. Un metro e novanta per novanta chili di muscoli, ex calciatore e bandiera del Lens, in Francia. Dobbiamo andare... ma cosa diavolo voleva dire? Prese la sua Mercedes, fece sedere me e mia sorella sui sedili posteriori, impostò il navigatore sull’aeroporto e piantò il piede sull’acceleratore, non allacciandosi nemmeno la cintura. Eppure si allacciava sempre la cintura, sgridandoci quando noi non lo facevamo. Avrei voluto fare la voce della ragione, mettere i puntini sulle i, come si suol dire, quando una macchina esplose a circa cento metri da noi, in un parcheggio a lato della strada. Paura. Tanta paura. Mi rannicchiai sui sedili posteriori, cercando di nascondere la testa dagli eventuali spari che sarebbero potuti arrivare. Mia sorella fece lo stesso. Mio padre proseguì imperturbabile per l’aeroporto. Arrivammo alle 15.20. Un aereo stava per decollare, quando mio padre frenò tutto e volle essere imbarcato. Pagò 1000 denari libici sul posto. Mostrò i nostri passaporti e le nostre carte d’identità, dichiarò ciò che aveva portato con sé: tre valigie piene di vestiti e scarpe per noi e un portafoglio con 25000 dinari libici. Non stavamo andando in vacanza. Ma all’inferno.

Ci imbarcammo in silenzio, mentre tutti i passeggeri ci guardavano. Non era un aereo grande, solo 60 posti. Avevo viaggiato anche su velivoli da 400 passeggeri, per esempio quando ero andato a New York per un torneo di calcio. Ma quel volo non me lo dimenticherò mai. Mio padre si sedette, sudava freddo e si vedeva che era ansioso di prendere il volo. Gli chiesi il perché, lui mi guardò, ma non volle rispondere. Disse soltanto “Un giorno mi ringrazierai”. Bene papà, ti voglio bene, ma sono passato dall’Inferno alla fossa di Lucifero.

Atterrammo a Milano, la città dei miei sogni.
L’avevo vista già una decina di volte, perché papà mi ci portava spesso a vedere le partite del Milan, ma anche perché era spesso impegnato, per lavoro, a intrattenere rapporti diplomatici con l’Italia. Avevamo un appartamento diplomatico nell’edificio del Consolato Libico, in via Flavio Baracchini, molto vicina al centro, ma non allo stadio. Ma non era un problema, perché i trasporti c’erano, e mio papà era spesso libero dal lavoro. Il 15 giugno ero seduto in una poltrona nel salotto a leggere un libro, Pelè: The Autobiography, in lingua originale. Conoscevo l’inglese come l’arabo, perché mio padre aveva insistito affinché lo imparassi a scuola. E ad essere sincero, mi piace molto l’inglese.
Mio padre aprì violentemente la porta e cominciò a farfugliare qualcosa... Sarah... sentì indistintamente solo il nome di mia sorella. “Cosa è successo?” chiesi a mio padre, che stava per svenire, quando si sedette sulla poltrona dirimpetto a me, mi strinse la mano, mi guardò negli occhi, una lacrima gliel’ha rigò. “Tua sorella è stata trovata morta, spogliata della vita e delle sua vesti.” Sentì la testa girare. Caddi senza coscienza sullo schienale della poltrona. Mi svegliai 12 ore dopo in un letto di ospedale. Ero svenuto per lo shock. E il peggio doveva ancora venire.

Passai da solo la mia triste estate. Ero solo, senza amici. Avevo solo 6 anni. Mi rifugiavo nei libri e nei documentari, nei video su Youtube, nei reportage che vedevo in televisione. L’unica gioia era stata la vittoria della Serie A del mio Milan. La città si era colorata di rosso e di nero, ed io mi ero unito alla processione vittoriosa con il mio pallone e la mia maglietta di Robinho. Non giocavo a calcio da tre mesi e le mie gambe non vedevano l’ora di ricominciare. Ma la mia estate andava avanti, senza un senso, senza mia sorella. Mio padre lavorava in ufficio, poi come commesso nel negozio qui vicino e nel tempo libero stava con me, per insegnarmi l’italiano, poiché il settembre successivo sarei dovuto rientrare a scuola. In una scuola italiana. Non avevo paura, perché sono un ragazzo intelligente e ne avevo la piena consapevolezza, inoltre avevo già imparato a parlare con discreta fluidità la lingua del mio nuovo Paese. Papà era riuscito anche a regalarmi un provino con le giovanili della mia squadra del cuore, che si sarebbe svolto il 24 settembre, il giorno del mio compleanno. Ma lui ogni sera si chiudeva nella sua camera e io, appoggiando il mio orecchio sulla porta, sentivo il suo triste lamento. Mia sorella non era scomparsa dalla sua vita. Neanche dalla mia. Anch’io ogni sera la piangevo, stringendo fra le mie mani il mio pallone, a cui confidavo le mie dolci parole, che speravo arrivassero, in qualche modo, alla mia sorellona.

11 settembre 2011, inizia la mia carriera scolastica in Italia.
Sono in prima elementare. Mio papà mi accompagna in pullman, mi tiene stretto per mano, non si fida del mondo che lo circonda. Ormai ha solo me. Sono il suo ultimo tesoro. Questo ho letto nel diario che tiene, che aggiorna ogni sera, che scrive quando mi siedo sulla sue gambe la sera, per stare con lui e fargli capire che no, non è finita. Il mondo cambierà. Ma io stesso, adesso, non ci credo più.
L’11 settembre era l’anniversario della caduta delle Torri Gemelle, un attentato ordito da delle persone che osavano definirsi difensori dell’Islam. Io stesso, a 6, quasi 7, sapevo che quelle erano le persone che Allah avrebbe spedito all’Inferno. Ma ugualmente i miei compagni di classe e perfino alcuni dei miei professori mi guardavano con un occhio di sospetto, come se fossi un attentatore o un futuro pericolo pubblico. Ma io ero, e sono tutt’oggi, un ragazzo come tutti gli altri. Solo che la mia pelle ha un altro colore. E la mia religione è diversa.

È arrivato finalmente il 24 settembre, il mio compleanno. In classe ho portato le caramelle, ma la metà dei ragazzi non le hanno prese. Mi hanno detto un semplice “No”, come se fossero avvelenate. Ma io non ho fatto assolutamente nulla, né a loro né a nessun altro italiano. Io sono un bambino. Per fortuna ho trovato un amico: si chiamo Pietro Gemulio, compie gli anni il 9 settembre. Proprio l’inizio dell’Egira, il viaggio del nostro Profeta Maometto, mentre io sono la fine di esso, il 24 settembre. Lui è cristiano cattolico, va in Chiesa ogni domenica e prega spesso. Ma sin dall’inizio, con me, ha messo da parte secoli di conflitti razziali e crociate varie, per creare una forte amicizia. Talmente forte da superare qualsiasi barriera linguistica o teologica.
Il pomeriggio dello stesso giorno sono andato al provino e c’erano almeno 50 ragazzini come me, tutti in tuta sportiva e scarpini. C’ero anch’io, con la maglia di Robinho. Mio papà si è avvicinato ad uno degli allenatori e gli ha chiesto per ora avremmo finito. Alla risposta, esultò, perché sarebbe potuto restare per tutto le 3 ore e mezza dell’allenamento. Ve ne sarebbero stati altri 5, e poi avrebbero selezionato i migliori, per portarli nelle giovanili e cominciare il percorso fino alla Primavera. Abbiamo cominciato con una corsa, poi palleggi, passaggi, torello e tiri in porta. Infine ci sarebbero state le tre partitelle. Non ero più alto degli altri, né più robusto, ma ero nettamente il migliore.
Segnai 15 gol nella prima e 17 la seconda, e non ero per nulla stanco. Il livello dei miei coetanei italiani era bassissimo, molti avevano già il fiatone alla fine della prima partitella. Tra questi vi era uno dei miei amici di scuola, Filippo. E da quel giorno mi odiò, chiamandomi ogni volta “cioccolatino”. Se all’inizio pensavo fosse un complimento, magari ero talmente dolce da essere proprio un “cioccolatino”, adesso so che non è così. Lui è razzista. Solo perché sono più forte di lui a calcio. E non vi sto ad elencare il resto degli insulti che mi rivolse per tutte le elementari. Lo stesso fecero i suoi genitori, che mi chiamavano “Sporco arabo”. Ma le persone mi difendevano, almeno, la maggior parte lo facevano. Ero forte, non solo a calcio.

La domenica seguente Pietro invitò me e mio padre allo stadio con la sua famiglia. Ovviamente accettammo, perché era da tempo che non avevamo degli amici che tenessero così tanto a noi. Scoprì proprio quel giorno che Filippo era appassionatissimo di calcio. E tifava Inter. Mentre io Milan. E lui giocava nelle giovanili dell’Inter. Mentre io probabilmente sarei stato preso al Milan. Lui ala sinistra che rientrava sul destro, io ala destra che rientrava sul sinistro. Io libico. Lui italiano. Ma di questa differenza non poteva fregarcene di meno. L’importante era giocare a calcio, che fosse da compagni o da avversari. Ma nessuno in Italia lo capisce.

Il derby fu spettacolare e finì con un pareggio. Io e Pietro eravamo felicissimi dopo aver visto una partita così spettacolare ed eravamo anche soddisfatti, perché non ci saremmo dovuti scontrare su chi avesse meritato la vittoria o la sconfitta. Stavamo tornando a casa, quando un gruppo di tifosi nerazzurri, chiaramente ubriachi, inveì contro me e mio padre, insultandoci pesantemente, ma ignorando completamente la famiglia italiana. Mio padre rispose con calma, cercando di calmarli. Ma uno di loro reagì sferrandogli un pugno. Un pugno al nostro essere arabi.

Passarono gli anni, mio padre si riprese dalla rottura del setto nasale che gli aveva provocato quel pugno. Non parlò mai più dell’accaduto. Io intanto finii le elementari. La mia pagella di fine anno fu ottima, dissero i professori, per “un ragazzo straniero”. Mentre per un ragazzo italiano cos’era quella pagella, un fallimento? Quest’etichetta mi fu accollata a 10 anni e rimane ancor oggi. Poi sono passato alle medie e anche i miei nuovi professori mi definiscono “lo straniero bravo”. Anche i miei compagni di classe mi chiamano così. Ma Pietro è rimasto, lui è l’unico che non si è mai permesso. I suoi sono diventati amici di mio padre, e lui gli ha raccontato la nostra storia di fuga e morte. Nessuno aprì bocca e gli sguardi si fecero di commiserazione, di tristezza. Il mio amico mi stette ancora più vicino, mi coinvolgeva in tutto ciò che faceva. No, lui non era falso.

Un giorno della prima media mi venne incontro un tipo, un certo Gennaro, che era famoso in tutto l’istituto per essere il “bullo”. I suoi genitori venivano da Lampedusa, un’isoletta vicina alla Tunisia e alla Libia. Mi fulminò con lo sguardo e mi disse nell’orecchio “Tua sorella è una p*****a n***a”. Io lo guardai negli occhi, ero furente, una fiamma era divampata nel mio cuore. Gli sferrai un pugno. Dritto nel naso. Suo fratello Vito, che era in terza, intervenne subito, dicendomi “Quelli come te non ci devono stare in Italia, capito? Potevi morire in un barcone, così non occupavi spazio insieme alla tua famiglia di teste arabe. Hai capito?”. Io non ci vidi più dalla rabbia. Gli diedi un calcio. Uno di quelli forti, insomma, di collo pieno, di quelli che quasi fanno esplodere un pallone da calcio. Si ruppe la tibia. Anche lui giocava a calcio, nel Milan. Non potè mai più giocare.
Il giorno successivo il preside chiamò i rispettivi genitori e noi due. Suo padre ci guardò con un occhiata di puro odio. Il mio abbassò il capo. L’odio non era l’insegnamento del Corano. Entrammo nello studio. Ci fece cenno di sederci e ci chiese come andarono le cose. Io dissi la verità e Gennaro non controbattè, ma dalle labbra di suo padre uscì un “è vero”, riferito all’insulto a mia sorella. Mio padre si alzò, mi prese per mano e uscimmo senza proferire parola. Appena fuori mi disse “Da domani cambiamo scuola”.

Fu così. Cominciai a frequentare un istituto privato. Pietro mi seguì anche in questa scelta. I nuovi compagni di classe sembravano simpatici, e lo erano. Nessuno mi escludeva da un gioco o da una discussione. I professori mantenevano sempre un elevata professionalità. Ero il migliore della squadra di calcio della mia scuola e portai alla vittoria del campionato studentesco la mia seconda media. Diventai una sorta di idolo dei mie compagni, mi chiamavano tutti “Momo Salah”, perché assomigliavo moltissimo al giocatore della Roma, nelle giocate e anche nell’aspetto fisico. Pietro era il secondo giocatore migliore. Era il mio personale assistman. Ma lui non era così riconosciuto, in pochi si complimentavano con lui. Ma nessuno capiva che io segnavo solo grazie a lui. La pagella della prima era stata buona, non eccelsa come mio solito, quindi dovetti studiare molto in estate, ma trovai anche del tempo per allenarmi da solo, visto che gli allenamenti erano sospesi per le vacanze. In seconda risultai il secondo migliore della classe. Dietro a Pietro. Ci completavamo proprio bene, vero?

L’inizio della terza fu fantastico. Passai ai giovanissimi del Milan e riuscii a mantenere il mio posto da titolare. Il mister mi adorava, mentre i miei compagni no. I miei compagni mi odiavano. Almeno, il ragazzo a cui avevo soffiato il posto da titolare, Davide, mi isolava dagli altri. Diceva che puzzavo, che ero sporco, che dovevo cambiare sport perché ero scarso, che mio padre era un terrorista. Che ero un maiale. Ma io non lo ascoltavo, andavo avanti ad allenarmi. Non lo dissi mai a nessuno, nemmeno a mio padre.
Ero cambiato molto fisicamente: ero diventato più alto, molto più robusto. Avevo una muscolatura molto sviluppata per la mia età, riuscivo a correre più del normale. Infatti alla prima partita stagionale, contro l’Atalanta, segnai 10 goal. Il mister mi disse che un giocatore come me nasceva una volta ogni 20 anni. I miei compagni non esultavano ai miei goal, ma abbassavano il capo sconsolati. “Come può essere così forte?” disse Luigi, il terzino destro. Semplicemente ero forte. Nulla di più.
Arrivò il giorno della partita contro l’Inter, seconda a un punto da noi. Pietro era il vice capocannoniere del campionato e il miglior assistman. Io ero il capocannoniere e il vice miglior assistman.
Eravamo i capitani delle rispettive squadre. Ci salutammo abbracciandoci ad inizio match.
Ci eravamo visti nemmeno 1 ora prima per la solita partitella di Fifa alla Play. Io Milan, lui Inter. 2-2. L’arbitro ci chiese di fare testa o croce. Lui croce, io testa. Vinse lui, mi cedette l’onore della prima scelta.
Ovviamente palla, dissi. E palla fu. La partita cominciò a ritmi altissimi, ma appena vidi un buco nella difesa avversaria, mi inserì con velocità, ricevetti il pallone e con un siluro all’incrocio trafissi il portiere. 1-0 per noi.
Un quarto d’ora dopo Luigi battette un calcio d’angolo. Il portiere andò di pugni, riuscì a spazzare via la palla. Al limite destro dell’area di rigore la presi, rientrai sul mancino e con un tiro rasoterra spedì la palla sul palo interno. Goal. 2-0. Alla fine del primo tempo Pietro si congratulò con me, ma non era finita, mi disse.
E non lo era. Iniziò il secondo tempo. Enrico, il regista, mi passò la palla, scartai il difensore che avevo davanti e mi ritrovai a tu per tu con il portiere avversario. Con un morbido pallonetto lo superai. Il pallone si dirigeva inesorabile oltre la linea di porta, quando Pietro, con una corsa disperata, riuscì a riprenderlo a pochi centimetri dal goal. Io non ci credevo. Il mio amico cominciò a correre, diretto verso la porta avversaria. Dribblò un difensore, poi l’altro, poi anche Luigi. Si avvicinò al portiere e scaricò tutta la sua rabbia in una pallonata che quasi ruppe la rete. 2-1. Io ero esterrefatto. Non l’avevo mai visto così carico. Sembrava un treno in corsa.
All’ultimo minuto prese palla a centrocampo, mi dribblò con una freddezza ineguagliabile e tirò, da 30 metri. Nulla da fare. Un goal che io potevo solo sognare. E da quel giorno lo sognai ogni notte. Finita la partita, nessuno esultò. Eravamo sfiniti, io stesso lo ero. Pietro si buttò a terra, esausto. Gli andai incontro. Non rispose. Lo strattonai. Non rispose. Lo guardai negli occhi. Erano chiusi. Per sempre. Sorrideva. Senza vita.

Arresto cardiaco fulminante.
Questa fu la diagnosi dei medici. Non ci sarebbe stato nulla da fare, anche se avessimo chiamato i soccorsi. È morto sorridente, felice, non ha detto nulla. Ha lasciato questo mondo con la stessa velocità con cui mi ha dribblato. Non mi ha salutato. Ma il suo ultimo pensiero era per me, credo. 2-2. Un pareggio che mi ricorderò per sempre. Pietro, ricordati che ti ho pensato fino all’ultimo momento, che ti penso tuttora. Tu sei un fenomeno. E adesso sei anche un angelo, che stai con Dio. Perchè sì, che sia Allah, Buddha, Dio o qualsiasi altro, Dio è uno solo. Poi noi gli diamo nomi, abbiamo profeti, testi diversi. Ma siamo tutti esseri umani.

Oggi, 7 aprile, è il primo anniversario della morte di Pietro. Mi sembra che sia morto solo ieri.
Lui adesso è in Paradiso, mentre io sto vivendo l’Inferno, da quando se ne è andato in cielo. Nella mia classe di liceo nessuno mi parla, nessuno mi considera. Sono la scimmia del gruppo. I ragazzi imitano i versi del maiale per attirare la mia attenzione. I professori non fanno nulla per difendermi, spesso ridono di ciò. Non ho nemmeno un amico, perché sono libico. Mi chiamano terrorista, dittatore, kebabbaro. Non sono più Mohamed. Sono nessuno. Mio papà è stato ucciso in una rissa scoppiata mentre tornava a casa. O meglio, lui è stato il sacco da boxe di 15 ragazzini italiani. Quindici mostri italiani. Lo hanno ucciso perché libico.
Perchè rubava il lavoro. Perchè, perché, perché... il razzismo non ha motivazioni. Né cause. Il razzismo è il male dell’umanità. Sono stato adottato dai genitori di Pietro. Mi danno tutto l’affetto che mi manca, ma non basta. Ogni persona che mi vede per strada prova compassione. Null’altro.
Sono il povero libico senza famiglia.

Circa una settimana fa Moise Kean è stato vittima di razzismo. Se ne è parlato a lungo, tutti l’hanno difeso.
Ecco, italiani, difendete anche noi. Noi che non siamo né famosi né ricchi ne potenti ne influenti. Noi che siamo semplici “stranieri”. Perchè pensateci bene, siamo tutti essere umani? Sì. E allora perché ci etichettate per il colore della pelle o per la religione che professiamo. Noi arabi, senegalesi, giapponesi, facciamo lo stesso con voi? No.
Ma io non cambierò il mondo, non posso. Dovete farlo voi italiani, dovete far capire alle vostre menti che siamo persone anche noi, con i nostri pregi e nostri difetti. Che anche a noi piace il calcio, che possiamo giocarlo in che squadra ci pare. Io potrei giocare per la Nazionale italiana, anche se sono un “cioccolatino”. E non siate invidiosi, se sono più forte di voi. Il razzismo è l’Inferno. Quello che sto vivendo e che vivono tutti i ragazzini stranieri che giocano a calcio. Veniamo messi da parte, insultati, chiamati scimmie e quant’altro. E nessuno ci difende. Volevate un capro espiatorio per il fallimento del calcio italiano? Fortunati che ci avete trovato. Ma io vi dimostrerò che siamo tutti uomini.

Mi chiamo Mohamed Samlah e ho 14 anni. E sono uguale a te, ragazzo, uomo, che leggi questo. Aiutaci. Siamo intorno a te, ti chiediamo aiuto, ma non ci senti, non ci noti. Siamo esseri umani. Ma veniamo considerati scimmie e fantasmi. Io no. Io non so niente di ciò. Io sono Mohamed Samlah.

#NOTORACISM