Maldini è l'ultimo, illustre e glorioso esempio di una lunga serie di bandiere ammainate. Simbolo più eclatante della decadente nobiltà rossonera.
Tutto nasce dall'esigenza di protezione degli attuali plenipotenziari del club, avvezzi alle logiche finanziarie ma digiuni di calcio ad alti livelli: il Totem attira le attenzioni della piazza, addolcisce i giudizi, evita (o quantomeno proroga a data da destinarsi) le contestazioni quando le cose vanno male. E le cose, si sa, vanno molto male da molto tempo.

La teoria del Totem, tuttavia, non è farina del sacco di Gazidis. E' stata coniata un po' di anni fa, alle origini del distastro tecnico-economico rossonero, quando ai piani alti c'era ancora la premiata ditta Berlusconi-Galliani. Si decise di puntare forte su Seedorf, primo Totem richiamato dai verdi campi brasiliani per sostituire Allegri: Clarence fece un girone di ritorno tutto sommato positivo, ma Berlusconi non gli perdonò la proverbiale arroganza e l'indipendenza di pensiero. A casa subito e carriera in rapida discesa. Fu poi il turno di Brocchi e Inzaghi, entrambi dirottati a San Siro dalle panchine giovanili: esperimento fallimentare. I due si dimostrarono inadeguati al ruolo, sia per responsabilità proprie (entrambi, oggi, allenano in categorie inferiori, suppur con successo) che per evidenti problematiche generali di un ambiente ormai esausto. Restano nelle orecchie i fischi di San Siro per l'adorato Superpippo, amato prima ed amato dopo quell'esperienza traumatica.
Per restare in panchina, emblematico l'ultimo caso: Gattuso aveva portato il club al miglior risultato della sua storia recente, mancando la Champions per un solo punto, maturato negli ultimi secondi del campionato. Un salvataggio di D'Ambrosio sulla traversa interna ha cambiato la storia, forse. In ogni modo Mister Ringhio, osannato dalla piazza, viene praticamente messo alla porta. Da chi? Da Paolo Maldini, noncurante del grandioso lavoro fatto dal tecnico calabrese con un materiale tecnico di livello non certo eccelso.

Arriviamo quindi alle scrivanie di Viale Aldo Rossi: il figliol prodigo Leonardo, che abbandona la barca dopo un solo anno, rinunciando anche ad un misero tweet di commiato. Il coriaceo Zvone Boban, forte delle esperienze in FIFA ma novello nella gestione di un club: esautorato e licenziato dopo appena sette mesi.
Infine Maldini, il Totem di tutti i Totem, ultimo baluardo per il quale è solo questione di tempo e di burocrazia: i pubblici giudizi su Rangnick e l'arrivo all'allenatore-manager tedesco, ne hanno già definito il destino.
Non resta che prendere atto della situazione e farsi coraggio: i Totem non vincono i campionati e, spesso, non fanno neanche bella figura. Inutile cercare protezione alla loro ombra, perchè presto o tardi il sole gira. D'altronde, parafrasando Arrigo Sacchi, nessuno ha mai stabilito che un grande cavallo sarà un grande fantino: proprio come nessuno può dire con certezza che un campione in campo sarà un campione anche in giacca e cravatta.
Chi sta in cabina di comando, a questo punto, si assuma le proprie responsabilità a trecentosessanta gradi: è il Milan di Elliott (e quindi di Gazidis), che sia il Milan di Elliott (e quindi di Gazidis), senza soluzioni mezze e mezze, senza arzigogolati organigrammi costruiti appositamente per schermarsi agli occhi della piazza. 
Se deve essere Rangnick, che sia Rangnick: tra un anno saremo qui a discutere degli artifici di un successo o di una sconfitta, finalmente privi di quel senso di colpa atavico che comporta l'abbattimento dell'ennesimo Totem rossonero.