Ho visto un PM allo stadio e non era in tribuna autorità.
È pomeriggio, il vento soffia leggero, ma è una brezza fredda, che ci costringe ad imbacuccarci, perché allo stadio si gela (a Palermo siamo particolarmente freddolosi).
Lo stadio è il Renzo Barbera, la città è Palermo, la partita è quella di serie B tra i rosanero di Eugenio Corini e la Reggina di Filippo Inzaghi.
Il PM non è un magistrato qualunque, è Nino Di Matteo.
Sono in tribuna, quella laterale, attigua alla curva sud; accanto a me, i miei due bambini, eccitati per la partita di cartello, appassionati per Brunori, intirizziti per il freddo umido di un rigido (si fa per dire) inverno siciliano.
E incuriositi.
A dire la verità, ad essere particolarmente incuriosito da qualcosa, meglio, da qualcuno, è il più grande dei due, Lorenzo. Undici anni, prima media, conoscenze delle cose di questo mondo sopra la media, mediamente sveglio, per nulla mediocre, mediano della scuola, dito medio utilizzato troppo spesso per i miei gusti.
Ad attirare la sua attenzione un signore, seduto non lontano dai nostri seggiolini, qualche fila più in là, mischiato tra gli altri, anche se guardato a vista da sei guardie del corpo, che cercano di celare, dietro un contegno assolutamente anonimo, armi e auricolari, eppure evidenti.
Lorenzo mi chiede lumi, io gli spiego che quel signore è il PM Nino Di Matteo, un vero eroe palermitano. “Cos’è un PM?”, mi chiede. "È un pubblico ministero”. Lui mi guarda, incerto, non è sicuro di aver capito, meglio, vuol capire fino in fondo. Lui è fatto così. Sospiro di uggia, quella è l’ennesima domanda della giornata; eppure gliel’ho sempre predicato io d’essere curioso, quindi che pretendo? Rispondo: “Il Pubblico Ministero è un magistrato, un giudice, che persegue i criminali e fa rispettare la legge”. Lorenzo si accende in ogni sua sinapsi: “Tipo Falcone?” Io annuisco, tra le mie labbra screpolate affiora il compiacimento. "In che senso, eroe?”, chiede ancora, mentre la partita inizia. “Nel senso che è un uomo disposto a rischiare la sua vita e a vivere scortato, pur di liberarci dalla mafia … proprio come Giovanni Falcone”. Lorenzo strabuzza gli occhi, non capisce fino in fondo; Aldo, il più piccolo, sembra, al contrario, disinteressarsi della discussione, a cui evidentemente preferisce l’andazzo della partita. Lorenzo, invece, non molla la presa: “E uno così viene allo stadio?”. “Mica è un marziano!”, gli rispondo quasi infastidito.
In realtà, a vederlo lì, mescolato tra la gente comune, un po’ marziano, Di Matteo, mi sembra. Presumo che gli sarebbe stata sufficiente la più classica delle telefonate per sistemarsi in tribuna vip, biglietto omaggiato, naturalmente, visus perfetto e comodità salottiere. Lo presumo e, nel farlo, me ne vergogno un po’: tipica mentalità stereotipata.
La partita prosegue, Lorenzo sembra distratto, di scuro non è il solito accanito a cui non sfugge neppure la minima vibrazione muscolare dei suoi beniamini. La cosa mi stranisce, ma comincia a piacermi.
Il calcio di rigore fischiato ai rosanero ci regala un sussulto. L’arbitro fischia, Brunori calcia, la palla va in rete, il Renzo Barbera esplode in un boato assordante. Urlano anche i miei figli, si abbracciano, mi abbracciano. Tutto di nuovo secondo il solito copione da stadio. Lorenzo sembra essere nuovamente ed esclusivamente sintonizzato sulla partita: applaude, impreca, fa le corna all’arbitro, io lo redarguisco,passano due minuti e lui le fa di nuovo, sventola la sciarpa, salta perché chi non lo fa "Catanese è" …
Finisce il primo tempo, 1 a 0 per il Palermo. Tutti felici, tutti intirizziti (ve l’ho detto, siamo freddolosi), qualcuno affamato di patatine, qualcun altro beve caffè Borghetti, c’è chi sta al cellulare, chi saluta da lontano urlando a squarciagola il nome del conoscente intravisto (siamo freddolosi e calorosi), qualcheduno deve fare pipì. Io devo fare pipì, vado al bagno, i miei due figli mi seguono. Deve farla pure il PM, va al bagno, la discreta squadriglia di bodyguards lo segue. Lui sta in fila, aspetta il suo turno. “Ma come? - osserva l’arguto Lorenzo (anche lui preso dal richiamo della vescica) - non lo fanno passare per primo?”. Io lo guardo un po’ torvo. Mi rammarico del fatto che anche le nuovissime generazioni siano affette dagli stessi miei stereotipi e schemi mentali e allora penso che quell’uomo, temuto (dai delinquenti) e conosciuto in tutto il mondo, sia la migliore risposta per Lorenzo. “Guardalo!”, gli dico. “Guarda qual è la vera differenza tra la grandezza e la infimità. Guarda cos’è il valore di un esempio. Guarda cos’è la coerenza. Guarda cos’è l’onestà intellettuale. Guarda …” “… Ehi papà, ho capito”...
È vero, mi sono lasciato trasportare, ma voglio che Lollo davvero capisca. Voglio fortissimamente che quell’incontro, improbabile e casuale, durante una partita di serie B, sia per mio figlio la più grande testimonianza di rettitudine e, appunto, onestà intellettuale ch’egli possa ricevere. Il più acerrimo nemico dei prepotenti non può essere credibile se utilizza la sua posizione per ricavarne privilegi d’ogni sorta. Un uomo che predica giustizia non può razzolar male, dev’essere esempio di giustezza. Un uomo che, per il suo stesso ruolo, pretende d’essere al di sopra d’ogni parte, e solo dalla parte dello Stato, deve essere libero. E liberi si è per davvero solo quando nessun bisogno, fosse anche il più banale e vanesio, t’incatena alla miseria umana.
Sì, il PM Nino Di Matteo, senza saperlo e senza volerlo, sta impartendo a un ragazzino di undici anni la migliore lezione di vita possibile e immaginabile. Un ragazzino che, tra trapper vaneggianti e tiktoker idioti, comincia, forse, a pensare che i modelli siano quelli; che una borsa Prada valga di più d’un bagaglio personale; che il brevissimo traguardo di un video virale dia di più d’una lunga strada di sacrifici; che essere social sia più importante di essere utile alla società; che il valore del branco sia più alto dei valori di un uomo.
Un uomo che, nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, sta in fila per andare in bagno, lui che l’indomani avrebbe avuto la fila dietro la sua porta.
Intanto, inizia il secondo tempo. Il PM si sistema sul suo seggiolino, a pochi metri da noi, facendosi largo tra ginocchia messe a sghimbescio per farlo passare, sotto lo sguardo attento, ancorché di sottecchi, dei suoi agenti di scorta. E sotto lo sguardo attentissimo di Lorenzo. Mio figlio quasi si disinteressa della partita, che nel frattempo vede la Reggina pareggiare. Lo becco distante dal match, intento a smanettare su Google, alla ricerca di quante più informazioni possibili sul procuratore antimafia, che sta lì, a pochi metri da lui.
Io sorrido, soddisfatto. Anche se il Palermo sta pareggiando una partita che deve vincere, se vuole continuare a scalare la classifica e tornare in seria A.
Il cielo sta imbrunendo, i riflettori adesso sono l’unica opzione possibile. Il Palermo attacca, il PM freme, con noi, come noi. Lui i riflettori non li vuole, non li cerca, lui ha il crisma della statura, sono i riflettori a cercarlo. E in effetti, agli occhi di Lollo, quel signore dal capello brizzolato, corpulento e trepidante per un 2-1 che non arriva, piuttosto che per un 1-2 più volte rischiato, adesso, torreggia su tutti: si chiama ammirazione.
Io me ne accorgo, perché tra un’imprecazione all’indirizzo dell’arbitro (confesso) e un “Vai a lavorare” all’indirizzo del nostro numero 10, Di Mariano, mi ritrovo ad osservare più volte mio figlio; e lo vedo. Lo vedo volgere sovente i suoi occhi, curiosi e timidi, verso il PM. Lo vedo sperdersi a tratti in pensieri tutti suoi. Lo vedo immaginare, chissà, di essere un giorno anche lui come Di Matteo. Lo vedo desideroso di andare da lui e parlargli. Lo vedo frenato dal timore reverenziale, che forse in un bambino è semplicemente timidezza o forse è paura di un gigante. Perché lo vedo: adesso quel PM, in fila per fare pipì, è ai suoi occhi il gigante che ha sfidato Riina, Bagarella, Provenzano, Denaro e altri terribili mostri.
E poi lo vedo esultare per lo spettacolare 2-1 di Soleri. Ci alziamo, ci abbracciamo, pazzi di gioia, intoniamo cori, uniamo mani e cuori. Tutto lo stadio adesso è un tripudio rosanero, è un’arena in festa. Anche il PM fa festa, con compostezza, ma fa festa. Lorenzo avrebbe una gran voglia di abbracciarlo, glielo leggo negli occhi, traspare chiaramente dal modo in cui si volge dalla parte dov’è Di Matteo, speranzoso d’incrociarne lo sguardo e condividere con lui la stessa identica gioia, lo stesso identico sentimento (magia del pallone!). E forse è ciò che succede, non lo so. Forse per un istante gli occhi del procuratore più famoso d’Italia e quelli di un bambino palermitano si sono incrociati e hanno emanato il medesimo bagliore. Forse quel gol ha dato al mio Lorenzo la fulminea sensazione di essere amici, lui e Nino. Forse l’indomani, a scuola, ai suoi compagni l’avrebbe raccontata proprio così: “Ieri, io e il mio amico Nino Di Matteo…” e se ne sarebbe vantato per i giorni appresso.
Finisce la partita. Il Palermo vince. Esultando, lasciamo gli spalti. Lorenzo è titubante, ha il passo incerto, si guarda intorno, cerca il suo “amico”, vorrebbe stringergli la mano e dirgli “Bella partita, eh!”. Lo so, glielo leggo negli occhi, che fissa su di me, postulanti, quando il PM ci passa davanti. Io vorrei fermarlo, ma come faccio? Non esageriamo, penso, è Nino Di Matteo, non mi permetteranno mai di avvicinarlo e chiedergli … chiedergli cosa? Mi perdo nella mia incertezza, ci perdiamo Di Matteo, che intanto guadagna gli scalini dell’uscita. Temo che Lorenzo ne sia deluso, temo d’essere stato il solito timidone, tutto garbo e tentennamenti.
Andiamo via, la partita ci regala spunti di riflessione e assiomi da opinionisti consumati. Ma Lorenzo non è il solito, le sue dissertazioni tecnico-tattiche non sono approfondite e accalorate come al solito. Ma non è triste, non è deluso. Anzi, porta stampata, nel suo dolcissimo e tondo faccione, un’espressione sorridente; dietro i suoi occhiali, un po’ alla Harry Potter e un po’ alla Geolier, fa capolino un’aura di soddisfazione. Il suo Palermo ha vinto e lui lo ha festeggiato assieme al suo “amico” gigante.
È sera. Siamo a tavola. La mamma chiede com’è andata, davanti a quel che resta della pasta al forno cucinata per il pranzo (e saltata in padella per la cena) e alla cotoletta di pollo con patatine fritte (eh sì, siamo freddolosi, calorosi e mangioni). Il piccolo Aldo comincia a parlare alla sua maniera, cioè a mitraglietta, quasi quasi racconta la partita minuto per minuto.
Poi è la volta di Lorenzo, stranamente taciturno. Lui taciturno lo è di suo, ma il calcio è uno di quegli argomenti che gli stimolano la favella. Non quella sera, però. La mamma (già da me dettagliatamente informata) gli fa un cenno. Lui la guarda, fa spallucce e torna al suo piatto. Un boccone, poi un altro e, prima che il fratellino torni a mitragliarci con la sua vocina a proiettile, Lorenzo guarda me, guarda sua madre e dice: “Da grande voglio fare il magistrato”.
Palermo batte mafia 1-0. E palla al centro.
É notte, Lorenzo dorme. Forse sogna, forse no. Ma che importa? Dorme sonni tranquilli; e questo grazie anche al suo amico gigante, che sfida i mostri e la domenica va allo stadio.
Grazie Nino...
Scusa se ti chiamo così e ti do del tu, del resto ormai tu e mio figlio siete amici, no?
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