"Partitina a Subbuteo?" - iniziai così l'interminabile serie di messaggi WhatsApp per ritrovare gli amici di un tempo, tutti rigorosamente invecchiati come il sottoscritto, per "stare insieme una sera con una pizza, birra ghiacciata, amaro del Capo con il peperoncino e, mentre sistemiamo in campo le squadre, ruttino liberatorio come fanno i neonati".
Tutti accettarono.
Riprendere in mano la vecchia asse di compensato e adagiarla sulle "caprette" riportava indietro di almeno non una, ma due vite.
Le caprette, per inciso, visto che non vorrei essere denunciato all'Enpa, non sono altro che due sostegni di legno che servono per metterci sopra "tavole senza gambe" per organizzare cene con una miriade di persone. In campagna, addirittura, ci mettevamo sopra gli "stoini" delle finestre affinché avessimo un infinito spazio per apparecchiare con tanto tanto bere e poco companatico.
Gli stoini, per inciso, sono le ante delle finestre, una volta rigorosamente di legno, adesso in alluminio "perché durano di più" - come recita una classica affermazione del rivenditore che vuole chiudere definitivamente l'affare.
Mi sembra di sentire mia sorella che quando scrivevo e rileggevo a voce alta, da ragazzo, mi diceva urlando dall'altra stanza: "Tu vai fuori tema, gnamo, rientra in te come farebbe un'esorcista...". Gnamo a Firenze - per inciso -  significa "datti una mossa".
Va bene, ritorno da dove ero partito.
La scusa della cena per rivedersi e soprattutto organizzare il girone all'italiana per il nostro torneo di Subbuteo.

Perché Subbuteo? Ve lo siete mai chiesto da dove deriva questo nome curioso per il calcio da tavolo? Sicuramente anche l’etimologia del termine ha una storia particolare.
Tutto parte da Peter Adolph, appassionato di football e studioso di ornitologia; per il padre del moderno Subbuteo infatti le miniature di Keelings a tutto somigliavano fuorché a piccoli giocatori. Dunque decise che il suo calcio da tavolo avrebbe avuto i protagonisti riprodotti in rilievo. A colpire la palla non saranno più bottoncini, piombini o figurine. L’idea è, a suo modo, rivoluzionaria: sta nascendo il moderno Subbuteo. Adolph pensa a tutto, ovviamente anche al nome: "Hobby", una razza di falcone che lui ama particolarmente e che vuole diventi il logo del suo gioco. All’ufficio brevetti accettano il falco come simbolo del calcio da tavolo, ma quel nome, proprio no; hobby in Inghilterra vuol dire genericamente passatempo e non può essere associato a un gioco solo. Adolph non si perde d’animo e decide di adottare il nome latino dello stesso uccello: falco Subbuteo. Depositato il brevetto e creata la società Subbuteo Sport Games, dopo pochi anni, Adolph rileva anche la società Newfooty di Keelings: ormai il calcio da tavolo ha un solo padrone e un solo nome. Quello latino di un uccello il cui becco ricorda la posizione del dito quando colpisce il calciatore in miniatura.

La confezione prevedeva la riproduzione in scala 1:100 di un campo di calcio con porte, reti, palloni e, immancabilmente, protagonisti di un vero incontro, ossia le miniature dei giocatori; più una serie di accessori da poter acquistare a parte: transenne girocampo, piloni di illuminazione, tribune, tabellone per i risultati, una moltitudine di particolari per rendere sempre più realistica la riproduzione dello stadio in casa.
Con Claudio, maniaco del gioco, usavamo nientepopodimeno che anche gli striscioni fatti da noi sui fogli protocollo a righe. Intorno alla sua cameretta, sopra le mensole, avevamo messo gli spalti con le tribune, gli spettatori e tutti gli stendardi delle squadre che partecipavano al torneo. Una sorta di terzo anello di San Siro quando a malapena in quegli anni c'era il secondo. 

Risento ancora le voci di sua madre, una donna straordinariamente somigliante alla Regina Elisabetta, che, per l'appunto, verso le cinque del pomeriggio con quella vocina tipo "Signorina" della meravigliosa gag della compianta Anna Marchesini, diceva: "Un teino lo gradite ragazzi?". Un teino, per inciso, a Firenze "gli è i'tè". Molte parole, nella mia città, le facciamo terminare con "ino" per addolcirle, per farle sembrare più confidenziali. "Il tèèèèèèèè?" - rispondevo sdegnato - "io no, grazie signora, molto gentile lo stesso". Il tè, dovete sapere, lo prendo soltanto in due occasioni; quando sto male oppure se non ho il latte e allora, fino a quando i biscotti non hanno inzuppato tutto il liquido, vado avanti perché anche solo l'idea di berne una goccia mi fa star male.
Ero così carino ed educato da bimbo, sembravo un angioletto. Mentre gli anni passavano e la mamma di Claudio, all'ora di merenda, partiva con la solita solfa della "brodaglia inglese", causa anche una mia imminente sconfitta con il mitico Nottingham Forest, mi scappò detto, tra i denti, un'affermazione all'amico di sempre, che fece giurisdizione: "È una vita che si gioca almeno due volte alla settimana a Subbuteo da quando portavamo il fiocco verde alle elementari, ed è mai possibile che la tu' mamma u'nabbia capito una sega. Odio il tè! Ma un panino con la finocchiona è possibile?". Il fiocco verde, per inciso, lo mettevano gli alunni della quarta elementare e la finocchiona, per inciso medesimo, è un salume infinitamente buono che si usa nelle trattorie. 

Sono fuori tema un'altra volta.
Le regole sono poche e conosciute. Il giocatore si colpisce con il dito indice o medio, se si liscia la palla e si colpisce un avversario è punizione, ogni giocatore può fare consecutivamente solo tre tocchi compreso il tiro in porta. Ma sul numero delle miniature da spostare a palla ferma, sul tempo di gioco, sulla possibilità di fare mosse di difesa attiva durante le azioni avversarie e sul cosiddetto "gioco al volo", ogni subbuteista, davanti alla sua tavola, ha applicato regole differenti.
La durata dell’incontro consiste in due periodi di gioco di 15 minuti ciascuno, con un intervallo non superiore ai 3 minuti. Nel caso di perdita di tempo o di interruzione per ritardo, l’arbitro lo farà recuperare. Questo è quello che afferma il "bugiardino"; le nostre partite, in realtà, cominciavano alle due di pomeriggio e, senza recupero, terminavano alle 16. Due ore due di imprecazioni e sfide sull'orlo di una crisi di nervi.
Nella scatola base si trovavano i blu e i bianchi che facilmente diventavano l’Italia e la Germania. Ma ogni squadra con l’opportuna fantasia poteva essere riciclata. Una maglia rossa poteva diventare a seconda dell’occasione la nazionale russa, il Nottingham Forest o il Piacenza. Stupore e curiosità arrivarono con le prime squadre di colore. Il Brasile, ma anche lo Zaire, con la maglia verde e il bordino giallo o gli uruguaiani del Penarol con le maglie azzurrine carta da zucchero e i pantaloncini neri. Così i produttori degli omini del Subbuteo, che molti immaginavano come piccoli artigiani che nella loro bottega curavano i dettagli miniatura per miniatura, rendevano biondi i calciatori della Svezia, mettevano qualche rosso di capelli nella selezione inglese, rendevano anonimi e un po’ più tristi i giocatori slavi. O almeno così sembrava di capire in quei piccoli dettagli diversi che uscivano dalle scatole dei sogni.

Alla metà degli anni '70 molti chiedevano al giocattolaio sotto casa la formazione dell’Ajax, in un misto di ammirazione per il "calcio totale" olandese e per quella casacca curiosa, con la striscia rossa centrale. C’erano poi i tradizionalisti che per nulla al mondo avrebbero abbandonato la propria squadra: gli juventini compravano la formazione a righe, l’unica con il doppio segnetto (diffìcile riprodurre una stella in un formato così piccolo) che voleva dire venti scudetti, e ogni anno c’era chi speranzoso sbavava la maglia della sua squadra del cuore dipingendo un improbabile scudetto. Poi cerano i mini numeri adesivi da inserire dietro le maglie. Così che la punizione la tirava sempre il 10, il rigore il 9, anche se poi, nella confusione della partita e per la mobilità tipica del Subbuteo, magari ti trovavi fermi nell’area avversaria stopper e libero e, come unico difensore disperato, il numero 11, con l’aria spaesata di chi ha appena compiuto un improbabile recupero.

Non ho mai giocato con la squadra della Fiorentina che, per inciso, mi fu regalata da mia nonna Niccolina al compleanno dei dieci anni. Visto che avevo il timore di perdere, e che a quei tempi la squadra viola era sempre in fondo nella parte destra della classifica di serie A, avrei mal sopportato una ulteriore debacle anche il lunedì pomeriggio a Subbuteo dopo che magari la domenica Antognoni e compagni avevano "razzolato a cicerbite". Questa affermazione, per inciso, significa andare a cercare delle erbe selvatiche in campi angusti; come succedeva, appunto, alla Fiorentina a quei tempi.
Io, come avrete capito, ero il proprietario assoluto e indiscusso della squadra nota per la leggenda di Robin Hood e il Nottingham Castle Museum and Art Gallery, situato su una collina e ricostruito molte volte dall'era medievale.
Il Nottingham Forest!
Adesso la "Gloriosa" si trova attualmente all'ottavo posto della Championship,
la nostra serie B, e ha esaurito, purtroppo, i fasti di un tempo. Confesso che la domenica vado sempre a vedere il risultato sperando, un giorno, di rivederla in Premier League.

Olympiastadion di Monaco di Baviera, 30 maggio 1979. Si gioca la finale della Coppa dei Campioni. Il Nottingham Forest di Brian Clough, cenerentola della competizione, affronta il Malmö. Gli spalti sono gremiti di bandiere inglesi. L’attesa è grande. Per tutto il primo tempo i Reds provano a fare la partita, a spingere. Uno sbadato sinistro di Robertson colpisce il palo, strozzando l’esultanza in gola a una città. Il Malmö regge, rendendo vana ogni offensiva inglese. Clough, con viso pensieroso e capelli arruffati, borbotta a bordo campo. 
Inizia il secondo tempo. Un lampo. Robertson punta la difesa svedese lanciandosi sulla fascia sinistra, arriva sul fondo e butta nel mezzo un cross morbido. I centrali svedesi sono scavalcati, sulla palla si avventa Trevor Francis, maglia numero 7. È un gol che scatena un urlo assordante. La piccola città delle Midland Orientali è sul tetto d’Europa. Brian Clough ha fatto il miracolo. Prima il fiato sospeso ai sedicesimi contro il Liverpool, campione uscente. Poi i trionfi contro AEK e Grasshopper. Infine, l’impresa di Colonia. Dopo la partita con il Malmö , i Garibaldi, si narra che la maglia color rosso sia in onore del condottiero italiano, strappano il trofeo dalle mani di Kenny Dalglish, scrivendo una pagina di calcio sublime.

L'anno successivo la schiera delle pretendenti alla vittoria della 25^ Coppa dei Campioni è agguerrita. Nottingham Forest, Liverpool, Real Madrid, Milan, Ajax e Amburgo possono tutte nutrire ambizioni di successo finale. A prevalere però sarà ancora il Nottingham, due vittorie con sole due partecipazioni.
Al primo turno la Coppa perde subito due possibili protagoniste, il Liverpool e il Milan, mentre la squadra di Brian Clough procede senza intoppi superando la flebile resistenza degli svedesi dell’Östers e dei rumeni dell’Arges Pitesti. Nei quarti di finale il Nottingham incontra la Dinamo Berlino, la squadra della polizia segreta della Germania Est, e ne viene clamorosamente sconfitto al City Ground per 1-0. A Berlino viene fuori l’orgoglio dei campioni, che segnano tre reti con doppietta di Francis e rigore di Robertson.
La semifinale contro l’Ajax si risolve all’andata in Inghilterra, 2-0 con reti di Francis e di Robertson su rigore; il ritorno ad Amsterdam è deciso da una rete del danese Lerby, inutile per l’approdo alla finale prevista al Bernabeu. Il Real, che sognava di giocare la finale sul campo di casa, si arrese all’Amburgo di Keegan, capace di rimontare lo 0-2 del Bernabeu con un altisonante 5-1 in Germania.
A Madrid per l’atto finale entrambe le squadre si presentano prive dei rispettivi bomber: Francis si è rotto il tendine d’Achille, mentre il potente tedesco Hrubesch è in precarie condizione fisiche e deve restare in panchina per tutto il primo tempo. Il Nottingham deve anche rinunciare al centrocampista Bowles, sparito a fine campionato dopo aver firmato per il Queen’s Park Rangers. Per gli uomini di Clough è la partita che può salvare una stagione deludente, sia in campionato che nelle coppe inglesi, con 79 partite già disputate.
Rimpiazzato Bowles con Bowyer, il tecnico inglese inserisce il giovane centrocampista Mills, 18 anni, al posto di Francis, impostando così una gara di attesa. Se Clough tatticamente non sbaglia nulla, Zebec, il suo dirimpettaio, non ne azzecca una. Schiera Keegan come punta pura al posto di Hrubesch per tutto il primo tempo, snaturando il fuoriclasse inglese, che finisce imbrigliato dalla difesa del Nottingham. Il catenaccio improntato da Clough ha successo, chiudendo tutti gli spazi ai tedeschi, che subiscono il gol decisivo dall’ala sinistra scozzese John Robertson al termine di un’azione corale partita dai piedi di Lloyd, passata per Mills con assist finale, da terra, di Birtles.
L’uomo simbolo era John Robertson
Era detto "l’ala con la pancia" per via di una forma fisica non proprio longilinea, ma sapeva veramente giocare a calcio. Era un’ala sinistra non rapidissima, però dotata di un ottimo controllo di palla e di grande tecnica individuale. Fenomenale sui calci piazzati, abile e fantasioso nel dribbling, Robertson fu decisivo in questa edizione della Coppa Campioni sia nei quarti, quando trasformò il rigore della qualificazione a Berlino, sia in semifinale, dove fu nuovamente freddissimo dagli undici metri contro l’Ajax, sia in finale. Era una delle pedine chiave della squadra di Brian Clough con la quale vinse un titolo nazionale, 2 Coppe di Lega e 2 Coppe dei Campioni.

L’avventura era iniziata un paio di anni prima. Dopo appena 44 giorni dall’ingaggio, Brian Clough, tifoso dell’odiato Derby County, veniva esonerato dal Leeds United e chiamato dal Nottingham Forest, a quel tempo in Seconda Divisione. A febbraio arrivano John Robertson e Martin O’Neill, la squadra viene rifondata e ringiovanita. Tra gli altri, negli anni successivi vengono ingaggiati anche Peter Shilton, portiere simbolo di quel tempo, Larry Loyd e Kenny Burns. Un paio di anni di assestamento e, nel 1977, arriva la promozione. Non basta. Il sogno è appena iniziato. Il neopromosso Nottingham parte bene in First Division. Solamente Everton, Manchester City e Liverpool tengono il passo. Alla fine della stagione la classifica parla chiaro: Nottingham Forest, 64; Liverpool, 57; Everton 55. Maggior numero di vittorie, minor numero di sconfitte e miglior difesa. I Reds sono campioni d’Inghilterra. All’inaspettato trionfo, che porta la squadra al qualificarsi per la Coppa dei Campioni dell’anno successivo, si aggiunge anche una Football League Cup vinta contro il Liverpool. 
Il gioco della squadra di Clough è dinamico e visionario, terribilmente attuale.

Negli anni successivi, però il sogno svanisce. Solamente qualche piazzamento a metà classifica, la retrocessione nel 1993 e l’abbandono di Brian Clough. Sotto la guida del suo successore, Frank Clark, il Forest risale subito e in due anni è di nuovo in Coppa Uefa. Poi una nuova retrocessione ed una nuova risalita. La tremenda altalena non si arresta: ancora una serie di promozioni e retrocessioni negli anni seguenti fino a che, nel 2005, il Forest retrocede dopo 54 anni nella Football League One, diventando il primo club ad aver vinto la Coppa dei Campioni protagonista di una retrocessione fino alla terza divisione del proprio Paese. Oggi sugli spalti del City Ground sale ancora forte l’urlo "Forest till I die, I’m Forest till I die". Il sogno è sempre quello: battere il Derby County. O, forse, qualcosa di più. Intanto la statua di Brian Clough, fuori dal City Ground, ha le braccia al cielo. Accenna un sorriso.
"È rigore netto, cavolo!".
Nell'ultima partita, contro la Pistoiese di Rognoni e Frustalupi, mi stavo giocando la nomea di "Top player Subbuteo" conquistato in 3^ B, alle superiori. 
Claudio, amico dalle elementari, ma acerrimo nemico "in campo" teneva sempre la squadra toscana arancione perché penso, che in cuore suo, volesse farla sembrare l'Olanda di Neeskens e Cruyff.
"Ok, rigore" - disse sconsolato. "Tiralo, però prima spegni quella sigaretta visto che c'è talmente fumo che sembra di essere in Bovisa". Quest'ultima, per inciso, è una zona alla periferia di Milano in cui aveva vissuto per una decina di anni.
Vado su dischetto, mi preparo a calciare, penso per un attimo a come esultare, tiro forte e centrale e...

"Voglio farti un regalo, qualcosa di dolce, qualcosa di raro...". La sveglia suonò con l'immancabile canzone di Tiziano Ferro. Non saprò mai come sarebbe andato a finire il sogno: avrei fatto gol? Avrei vinto la partita? 
Mi voltai verso mia moglie e la mia cagnolina Gioia per dare loro il bacio del buongiorno. "Stamani niente colazione, tesoro. Magari un teino visto che ieri sera ho mangiato troppo". "Non stai bene?" - rispose la mia dolce metà. "No, assolutamente. Solo un po' di aonco" - affermai sogghignando.
Aonco, che per inciso...