L’autunno è iniziato ormai da un mese. La nebbia comincia a popolare le valli milanesi e brianzole. Sul prato verde di San Siro, tempio del calcio il cui futuro oggi vive un periodo di dubbio, la bruma comincia ad aleggiare e ad addensarsi. Mai come oggi questa coltre si è fatta così piena. Una tenebra fumosa, alimentata non solo dal gelo autunnale, ma a che dai timori e dalle angosce che hanno animato questo inizio di stagione, sponda Milan. Scendendo dagli spalti della Curva Sud, quasi non si riesce nemmeno a vedere la parte opposta dello stadio. Persino la porta situata a Nord del campo è, a momenti, invisibile. Eppure, a ben guardare, strane sagome nere paiono giungere attraverso quel nuvolone biancastro. Personaggi appartenenti a epoche passate della storia rossonera. Tra pochi giorni, cadrà la ricorrenza di Ognissanti, Halloween per gli americani, Samhain per gli antichi Celti. Momento in cui la sottile linea, che separa il mondo dei vivi da quelli dei trapassati, si spezzerà per un’intera notte. Il momento in cui coloro che non sono più tra noi, torneranno a camminare su questa terra, per riattizzare il loro ricordo e portare ispirazione ai loro discendenti. Guardando dunque attraverso quella coltre, ecco che i cinque convenuti, i quali attendono il momento di varcare quella linea invisibile nella notte di giovedì, cominciano a farsi più chiari. Essi sono tornati per sedersi in tribuna in quella notte oscura, la quale vedrà scendere in campo il Milan contro la fiera Spal, nell’epoca più tenebrosa. Ognuno portante un dono. Ognuno portante ciò che rese il suo spirito immortale, mai dimenticato. 

Renzo Burini ha lasciato questo mondo da poco. È bastato però passare dall’altra parte, per tornare a essere quel giovane tonico e sorridente di un tempo. Sebbene se ne sia andato all’età di 92 anni, il suo volto è tornato liscio, scultoreo, inondato di una gioventù eterna. Indosso porta quella storica maglia, indossata nella stagione 1950/1951, anno in cui portò il Milan allo Scudetto, con le sue dodici reti in campionato. Uno scudetto sospirato quello del ’51, atteso per ben 44 anni. Un’impresa compiuta quando più nessuno pareva credere nella squadra rossonera. Quello fu il suo unico titolo, ma fu anche punto di partenza di un’epoca d’oro per il Milan. Quella che fece da miccia all’esplosiva era del Gre-No-Li, divenuto leggenda. 

Dietro di lui, quasi a braccetto, Renzo si è portato lo Sciur Crippa. Il baffetto tipicamente incolto, così come il caschetto alla Beatles, ne contraddistinguono i connotati. Nato come Aldo Maldera, dovette convivere con il suo nomignolo per tutta la sua carriera milanista. Un’epoca difficile quella di Aldo, segnata da una quasi totale assenza di titoli e trofei, nonché macchiata dall’onta della prima retrocessione in Serie B. E che retrocessione: obbligata a causa dello scandalo del calcio-scommesse. Una vergogna che Maldera visse totalmente sulla sua pelle, sebbene non avesse dirette responsabilità, ma che portò con fierezza scendendo anch’egli in serie cadetta, vestendo la fascia da capitano. Fu anche grazie a lui, alla sua fede, che il Milan cercò con fatica di ricominciare. Proprio ciò di cui l’attuale società avrebbe più bisogno, oggi. 

Mentre la nebbia ancora fatica a diradarsi, un ragazzone dalla mascella importante e dall’accento marcatamente teutonico, chiede ai primi due di aspettarlo. Il peso che porta con sé è infatti molto gravoso, sebbene si tratti di una semplice rete da allenamento, quelle dove i preparatori infilano i palloni. Ma questa rete, a ben vedere, contiene tanti, troppi palloni. Tanti quanti i gol segnati da questo marcantonio svedese, il quale ha indossato la maglia del Milan nei primi anni ’50. Persino il suo nome, traslitterato in inglese, rimarca la sua capacità da cannoniere, la quale lo rese, e lo rende tutt’oggi, il miglior marcatore rossonero. Con i suoi 221 gol, Gunnar Nordhal è tornato affinché la sua cattiveria sotto porta possa infuocare nuovamente le polveri del pistolero Piatek e ispirare il funambolo Leao

Non ricordandosi bene la lingua però, Gunnar ha convinto un suo compaesano, altra grande leggenda milanista, a venire con lui. A differenza sua, lo spilungone che gli viene appresso è silenzioso, posato, elegante nel parlare così come nel muoversi. Lui il Milan l’ha conosciuto bene, da capo a fondo, sia calcandone i campi come giocatore, sia guidandone le compagini come allenatore. Il Barone Nils Liedholm compie i suoi primi passi sul verde prato di San Siro e si sofferma a respirarne l’atmosfera. Nei suoi occhi lucidi, sebbene freddi e apparentemente inespressivi, si leggono emozioni mai morte, né in lui, né nei tifosi di lunga data. Non ha fatto come Gunnar. Le sue mani sono vuote, libere da pesi. Ma direttamente dalla sua sede eterna, egli ha riportato un qualcosa che ne contraddistinse carriera e vittorie. La calma serafica.

E infine, sebbene i suoi compagni in questo inatteso ritorno lo abbiano dovuto cercare in lungo e in largo, non poteva mancare proprio lui, il fondatore. Dotato ancora dei suoi impeccabili baffetti spioventi, gli occhi lunghi e stretti, Herbert Kiplin si appropinqua a calcare il prato del Meazza. Fu lui, in quel lontano 1899 a fondare il Milan Football and Cricket Club. Fu lui a vincere il primo scudetto della storia rossonera, appena due anni più tardi. Fu lui a iniziare quella che, col tempo, è diventata una passione inestinguibile, fonte di sogni e giubilo, che oggi conosciamo come Milan. Una società, una squadra, una compagine nata dalle fiamme sempiterne dell’inferno. Le medesime fiamme che ancora animano il suo spirito, con le quali egli tiene acceso il tizzone dell’orgoglio milanista. 

Usciti dalle tenebre del tempo e dei ricordi, essi attendono oltre quella spessa coltre nebbiosa. Attendono con ansia il momento in cui potranno sedersi, anche se solo per novanta minuti, di nuovo sulla panchina rossonera. Il momento in cui potranno dare manforte a coloro che, esattamente come essi stessi fecero a tempo debito, vestono oggi i colori delle fiamme e del terrore. Terrore che però, parafrasando lo stesso Kiplin, il quale sembra ripetere la sua frase più celebre come un mantra, non attacca più gli animi degli avversari, ma quelli dello stesso Milan. Sebbene essi sappiano bene cosa stia accadendo, dato che i defunti conoscono tutto, passato, presente e futuro, ancora sono increduli nel vedere in quale stato si sia ridotta la loro squadra. Per questo però sono tornati. Essi sono giunti dal lontano averno, dai beati campi elisi in cui vivono la loro eternità, affinché i loro doni possano riattizzare la sempiterna fiamma rossonera. Affinché la loro fede, la loro ispirazione, il loro agonismo, la loro calma e il loro orgoglio possano influenzare questi giocatori spenti, rassegnati, impauriti. Affinché il loro immortale spirito, possa far tornare a brillare la storia del Milan, allontanando per sempre la paura.  

Dedicato a tutti quelli che ci hanno lasciato e, dando qualche calcio a un pallone, hanno creato sogni e allietato le vite di coloro che amano questo gioco.