Circa due anni fa, forse poco meno, il mio caro amico Franco venne da me e mi disse: “Voglio comprare la Faber Srl” (i nomi sono ovviamente di fantasia per proteggere la privacy). Detto in due parole, la Faber era un’azienda medio-piccola con una storia centenaria nel settore meccanico. Negli anni ’80 e ’90 si era fatta un nome importante, almeno per quel che riguardava il Nord Italia. Il suo marchio era facilmente riconoscibile per i fruitori del settore, al punto da essere vero e proprio sinonimo di qualità. Con la scomparsa dello storico fondatore e l’avvento di un mercato frenetico come quello attuale, le cose andarono con lo scemare nel corso di due decenni. Da vera e propria locomotiva trainante del suo settore, si tramutò nel fanalino di coda, per non dire peggio. Perdite costanti, parco macchine dell’ante-guerra, dipendenti totalmente disaffezionati, totale assenza di progettualità. Al tempo dei miei primi passi all’interno dello studio dove lavoro tutt’ora, vi feci persino visita tempo addietro insieme al mio titolare, nonché mentore. Rifiutato da diversi altri consulenti, l’amministratore dell’azienda ci aveva chiamato per trovare un modo di tornare in auge, partendo dal risanamento dei conti. A differenza dei nostri “colleghi”, come minimo noi accettammo d’incontrare tale persona, ma il nostro responso fu comunque devastante. Per dirla senza mezzi termini, il titolare avrebbe fatto prima a chiudere l’azienda, mettendo in affitto i vari capannoni. Ci avrebbe guadagnato molto di più, che a tenere in funzione le macchine. Ciò nonostante, quel simpatico, ma affranto ometto andò avanti per la sua strada. E così fece per altri anni, rimettendoci sempre i suoi soldi, vedendo i dipendenti andarsene, uno dopo l’altro, così come banche e clienti. Per questo, il giorno che Franco mi disse di voler compare quel cadavere deambulante formato azienda, feci un zompo sulla sedia, chiedendogli “Ma perché Franco? Perché?”. “E ma sai, oramai sono un imprenditore navigato, il mio lavoro lo so fare. Ma il marchio della Faber è il marchio della Faber. In due anni, ne sono certo, con la mia esperienza la riporto in alto e prendo il volo”. 

A questa storia mi ricapita di pensare spesso. Ultimamente, mi è capitato parecchie volte, tante quante sono state le fantomatiche voci su una possibile cessione del Milan, dal Fondo Elliott a monsieur Arnault del gruppo Louis Vuitton. Ora, per quanto mi riconosca come tifoso sfegatato milanista, per deformazione professionale mi trovo sempre costretto a valutare sempre bene le situazioni. Inutile dire che, se una simile cessione dovesse realmente accadere, sarei tra i primi a stappare la bottiglia.  Detto ciò, quanto è possibile che una simile cosa accada? Veramente Arnault sarebbe disposto ad acquisire il Milan, tra l’altro a una cifra monstre di un miliardo? Risposta: no, non è possibile, a meno che Arnault e il suo intero gruppo dirigente non siano impazziti. Questo in quanto, facendo un piccolo confronto con la mia storiella di poco fa, il Milan in questo momento naviga nelle stesse acque della Faber. Unica differenza, il Milan si trova almeno in una fase di rinnovamento del suo potenziale tecnico, essendo la squadra più giovane della serie A. Al di là di questo, il Milan rimane purtroppo un investimento ad alto, anzi altissimo rischio per qualsiasi tipo d’investitore, perfino per uno come Arnault che di soldi ne ha da gettare via. Guarda caso, è ancora fresca l’acquisizione di Tiffany fatta da Mr. Vuitton, la quale è costata fior fior di miliardi. Il potenziale finanziario di Arnault è infatti tale che, anche strapagandolo, l’acquisto del Milan sarebbe quasi una bazzecola per il suo gruppo. Un conto però è comprare una società con chiare prospettive, un altro è gettare via i soldi senza un reale perché. Il Milan, che ci piaccia o meno, non è ancora un buon investimento, per nessuno. Lo potrà essere in futuro, questo dipenderà dall’operato del Fondo Elliott, ma di sicuro non lo è hic et nunc, “qui ed ora”. Questo in quanto il Milan naviga in una situazione economica disastrosa, difficile da sistemare in poco tempo. Se Arnault la comprasse oggi, oltre a gettare via quel tanto paventato miliardo, ne getterebbe via molti altri successivamente, coprendone le inevitabili perdite di bilancio. Perché dunque comprare una società che vive una simile situazione economico-finanziaria? Alcuni dicono che lo farebbero per il blasone, dunque per il cosiddetto “Brand Milan”, come fece Berlusconi più di 30 anni fa. Un modo insomma per penetrare “nel cuore del popolo”, del medio portafoglio, dato che quello ricco lo conosce fin troppo bene. Potrebbe essere, certo, ma tenendo conto che le cose sono cambiate radicalmente, dai tempi di Berlusconi. Per entrare nei cuori dei tifosi, e nella storia del calcio, bisogna spendere, rinforzare la squadra, vincere trofei importanti. Mentre all’epoca di Berlusconi era sufficiente avere il portafoglio gonfio per farlo, oggi le cose funzionano in maniera completamente diversa. Con l’avvento del Fair Play Finanziario, è la società a dover essere in grado di autofinanziare i propri acquisti, ovvero avere un bilancio in ordine. E questo è il vero problema attuale del Milan, ovvero la sua insostenibile struttura di costi, che deve essere completamente rivista.  Certo, Arnault potrebbe utilizzare Louis Vuitton, Bulgari, Dior o altri marchi del suo gruppo come sponsor della società, al fine di aumentare i ricavi. Essendone però proprietario, lo potrebbe fare entro i 60-70 milioni, ovvero il 30% del totale dei ricavi attuali, altrimenti sforerebbe le regole UEFA. E anche a volerlo fare, significherebbe rendere ancora più corposo un investimento che, se le cifre venissero confermate, sarebbe già enorme

Il Milan farà dunque colazione da Tiffany nei prossimi mesi? Non ho la sfera di cristallo, ma purtroppo credo proprio di no. Che ci piaccia o meno, dobbiamo imparare a convivere con questo Fondo Elliott per qualche tempo. Posso sbagliarmi, questo è poco, ma sicuro. In un certo senso, lo spero addirittura. Forse, come oggi dicono certe importanti testate editoriali, già dopo natale il Milan parlerà francese. Forse abbandoneremo il prosecco e brinderemo a colpi di Champagne l’anno nuovo. Chi può dirlo con certezza? L’importante è che non dobbiamo mai dimenticare la differenza tra sogno e illusione. Anche perché, ben sapendo di andare controcorrente, il Fondo Elliott non è il peggio che ci poteva capitare, anzi. Essendo un fondo d’investimento, a Singer & Co. interessa comprare e rivendere società per guadagnarci. Per farlo, deve fare in modo che tali società vadano bene, o quantomeno siano economicamente sostenibili. E chi meglio di loro può dunque sistemare la situazione del Milan? Certo, forse questa ottica potrebbe ritardare il ritorno ai grandi risultati. Ma cosa è meglio? Aspettare ancora qualche tempo, al fine di tornare ad essere una società importante? Oppure danzare sull’orlo del baratro, così com’è successo sotto la gestione cinese? Ai posteri la (per niente) ardua risposta. 

P.s.: cos’è successo infine col mio cliente Franco? Alla fine ha fatto di testa sua. Ha comprato la Faber e ha portato avanti il suo progetto. Com’è andata? Dopo due anni l’ha fatta chiudere, rimettendoci parecchi denari e polverizzando un marchio che, a suo tempo, fece storia. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

“I sogni sono una breve pazzia, e la pazzia un lungo sogno” - (Arthur Schopenhauer)