Quanto è duro il viaggio, a volte. Quante volte capita, di fronte a una difficoltà, a un periodo storto, al momento in cui tutto sembra andare a rotoli, di guardarsi indietro, sospirare e domandarsi ma chi me l’ha fatto fare? Più si sale la parete scoscesa, più le temperature crollano sotto lo zero. Il vento comincia a tirare forte. Polveri di ghiaccio feriscono il volto, intirizziscono le mani sotto i guanti, le dita dei piedi negli scarponi. Manca il fiato. L’aria è rarefatta, l’ossigeno è poco.  Guardi giù. Vedi in lontananza il sentiero che hai percorso. Noti i punti semplici e dove hai dovuto dare il meglio per venirne fuori. Senti tutta la fatica di un lungo percorso e ti domandi perché, perché ho fatto tutto questo? Se non dovessi arrivare in cima, se dovessi mollare e rassegnarmi alla resa, a cosa sarebbe servito tutto questo?
Momenti come questo sono innumerevoli nel corso di un’esistenza. A scuola, al lavoro, in famiglia. A volte purtroppo persino in una corsia d’ospedale, dove il nemico è invisibile e ti insidia nella maniera più subdola. Tutto scritto in quella clausola del contratto, quella scritta in piccolo a piè di pagina, magari con qualche sbavatura a causa del toner semivuoto, che firmiamo in principio e di cui non ce ne ricordiamo. Mica che poi si possa fare qualche lamentela all’ufficio reclami, non sia mai. 

Nemmeno lo sport fa eccezione, da sempre perfetto spaccato della vita quotidiana di tutti noi. In esso giacciono all’unisono ambizione, passione, amicizia e rivalità, equità e ingiustizie, dolo e colpa, grandezza e infamia. Esso ci ricorda come sia facile volare, correre leggiadri sospinti dal vento caldo dell’adrenalina, quello che sospira da est quando le cose vanno bene, la sorte ti accompagna come amica fedele e i risultati arrivano. Così come, al contrario, i piedi si facciano pesanti, quasi siano di piombo, quando cominciano le difficoltà. E giungono le paure. E giungono le angosce. Momenti in cui la vetta, la meta tanto anelata, si allontana terribilmente sopra di noi pur rimanendo sempre nella stessa posizione, mentre lo strapiombo al di sotto si allarga in un abisso senza fine. 
Un abisso, proprio come l’inferno che questo povero, stanco e avvilito Diavolo vede sotto di sé. Un inferno in cui è stato relegato tanto a lungo, più di un lustro oramai, dall’aver fatto di tutto pur di risbucarne fuori come un verme a primavera, riaffacciarsi sui campi verdi e luminosi di un tempo.  Povero diavolo stanco e disilluso. Per una volta ci aveva creduto. Per una volta aveva risentito il calore, non quello arido e soffocante del suo inferno, ma quel dolce tepore a cui era abituato tanto tempo prima, quello del successo e della vittoria, accarezzargli la sua vecchia pelle rinsecchita.  Ci aveva creduto, e forse si era illuso prima del tempo. La vetta è lì, a pochi passi. Ancora uno sforzo.  Poi tutto è crollato. La parete a preso a franare. I ganci si sono sconnessi e gli appigli si sono nascosti. Tutto si è fatto più difficile. 
Quanto facile sarebbe mollare ora, nel momento in cui i suoi occhi ingialliti osservano lo strapiombo, pensando che sì, forse è proprio finita. Non c’è più scopo. Ci ho provato e ho fallito. Quanto fatto non ha più alcun senso, ora.  Eppur quella sensazione agrodolce, quella del sudore che cola sulla pelle, i muscoli che dolgono per la fatica, il pensiero di star facendo bene. La goduria di essere lì, di giocarsela, di non essere più la vittima sacrificale, quello che tutti deridono o compatiscono. Quello che è tornato di nuovo a fare paura.  Tutto questo non ne è forse valsa la pena? Era veramente meglio rimanersene nell’ombra, fida compagna delle ultime annate, evitare di esporsi, di provarci per una volta?  Provare tutto ciò non ne sarebbe comunque valsa la pena, anche se già da principio ci fosse stata la certezza del fallimento? 
Lasciar perdere ora, farsene infine una ragione, sarebbe molto più facile. Ci abbiamo provato, ma adesso basta. Accettiamolo, evitiamo di farci del male per nulla. Sarebbe troppo arrivare sino in fondo e mancare, proprio all’ultimo, l’appiglio decisivo. Sarebbe meglio… o forse no. Forse, in un modo o nell’altro, andrà male.  Forse, alla fine, questo povero diavolo se ne tornerà comunque a casa con le ossa rotte, tanta delusione nel cuore, ma il rimpianto, il pesante e tremendo fardello dell’avrei potuto, avrei voluto, avrei dovuto, quello può ancora scegliere se caricarselo sulle spalle o lasciarlo andare. Perché anticipare i tempi, d’altronde? Se si è destinati a cadere, che la caduta sia allora profonda e il tonfo riecheggi per tutte le aule dell’inferno. Che sia la caduta di un grande, di un titano sconfitto, ma orgoglioso e che mai si è dato per vinto. Uno che se l’è giocata sino alla fine, senza patemi, senza fobie, senza rimpianti inutili. Come nella vita, la quale non ti dà che una direzione sola percorribile, forse è il momento di stringere i denti e tirare dritto. Fare in modo che la stagione giunga al termine esattamente com’è iniziata. Con un diavolo speranzoso, a tratti persino incredulo, in altri superbo, ma con la consapevolezza di essere lì, di avere le forze per farcela e di non essere inferiore a nessuno, se non sulla carta. 

Ci sono ancora cinque appigli. Sono duri. Sono difficili. Il vento e il gelo li hanno resi più impervi di quanto già non fossero. Ma sono lì. Con fatica e dedizione possono essere afferrati. Questo diavolo forse ha ancora qualche energia da spendere ed è bene che lo faccia. Perché tale non rimanga nella fondina a marcire, diventando col tempo un tremendo ricordo. Quello dell’avremmo potuto anche farcela, ma non abbiamo avuto il coraggio. 
Sconfitti dall’avversario, va bene. Battuti dalla sfortuna, perché no. Ma mai, mai e in nessun caso, vinti dalla paura. In bocca al lupo, buon caro vecchio, stanco, ma pur sempre orgoglioso, Diavolo. 

Un abbraccio
Igor