SECONDA PARTE DEL RACCONTO SUL MARACANAZO. CONSIGLIO LA LETTURA DELLA PRIMA PARTE PER CAPIRE QUESTA. LA LUNGHEZZA È NECESSARIA PER LA FORMULA NARRATIVA ADOTTATA. BUONA LETTURA! By Federicoz

Scritto con la mia fidanzata Alice

Arrivato a casa, la mamma mi chiede il risultato della partita. “4-0 mamma, è stata una partita incredibile” ero veramente entusiasta di aver assistito ad una partita vittorioso da parte della mia Nazionale. Papà era già a tavola, ma la zia e la mamma non avevano ancora servito nulla: mi aspettavano, ma non erano preoccupati. Sapevano che ero in buona compagnia e che non mi sarebbe successo nulla. Mi avvicino alla zia e le stampo un bacione sulla guancia, poi vado da papà e lo abbraccio, ma lui non mi chiede nulla della partita: anzi, appena comincio a parlare dei marcatori a tavola, partendo da Ademir, il suo viso si tramuta in una smorfia di disgusto, e con rabbia negli occhi, furenti come due cavalli imbizzarriti, ma con tono pacato, come suo solito, mi dice “Edson, sai chi ha insegnato a quello lì a giocare? Tuo padre! Al Vasco, 10 anni fa, non sapeva nemmeno tenersi in piedi! E adesso chi è quello che non riesce nemmeno a sorreggersi? Io...” l’ultima parola porta con sé un silenzio funebre, che nessuno ha il coraggio di spezzare. Innervosito, mio padre non cena questa sera ed esce di casa, con il pallone fra le mani: da quanto tempo non lo vedevo così? “Molti anni, Edson...” dice mia mamma. I pensieri sono sfuggiti, esuli, dalle mie labbra, senza che io me ne accorgessi. La zia nel frattempo porta una ricca cena: oggi bistecca! Dopo averla gustata come si deve, finita una giornata lunghissima e piena di emozioni, esco di casa per passeggiare sulla spiaggia. Quanto mi mancava Ipanema...adesso, a sera inoltrata, i turisti sono tutti ritornati nei loro alberghi, solo noi autoctoni restiamo a goderci il soave canto del nostro mare, accompagnato dalla melodia della brezza. I bambini escono per giocare a pallone, simulando partite spettacolari alla luce della luna, ma io no, oggi no. Voglio restare qua, disteso sulla fine sabbia, ad ammirare il nulla. Ripenso a Sergio, all’estate scorsa, a quella precedente, alle nostre partite, ai scherzi, alle battute, alle batoste...un fiume in piena attraversa la mia mente, cancella tutto il superfluo, il calcio diventa unico padrone. Quando, ad un certo punto, dopo non so quanto tempo, sento un pallone rotolare sulla sabbia, veloce. Un’ombra nera gli sfreccia dietro, felina. Non sento i passi, ma percepisco i movimenti del corpo. Ad un certo punto svanisce lontana, perdendosi come un gabbiano nell’infinito oceano. Non sapendo quanto tempo fosse passato, se minuti o ore, mi alzo, con la schiena completamente coperta di sabbia, e mi avvicendo per tornare a casa. A poca distanza, noto che sullo stipite si trova papà, che sta parlando con la mamma: sarà appena tornato?

Entrato papà, dopo qualche secondo, entro anch’io. Vengo accolto da un suo abbraccio, il suo modo di scusarsi per avermi quasi urlato addosso prima. La mamma mi stampa un bacione sulla guancia, mandandomi subito a letto: è già mezzanotte! Sono rimasto fuori ben 4 ore...non ci posso credere. Beh, è ora di sdraiarsi e lasciarsi sopraffare dal sonno.

Buongiorno Ipanema! Che sole che splende oggi, dorato come i gioielli della zia! Oggi mi sono proprio svegliato bene, nessun incubo mi ha colto nel sonno. Sergio, che tu abbia finalmente trovato la pace? Scendo subito dal letto e vado in bagno, per sciacquarmi il viso. Alzo leggermente il viso, e nello specchio vedo il riflesso dell’ombra di ieri sera. Mi giro di scatto, ma come un lampo oscuro, non c’è più. Cosa sei? Impaurito, raggiungo la sala da pranzo, dove la zia ha preparato una colazione veramente ottima: pane e marmellata, con thè fresco da bere. Zia, almeno che ci sei tu che mi vizi, e che mi fai ingrassare! Ma papà non c’è. Papà manca, come ieri sera a cena. Chiedo alla zia, la quale elude abilmente la mia domanda. “Edson, è uscito. Ma non sono cose da ragazzini. Veramente, non preoccuparti: papà sta bene”. Zia, mi dispiace, ma non posso crederti.

Presi gli scarpini, che avevano protetto il mio sonno notturno, mi avvio verso l’uscita, ma, cercando con le mani il mio pallone nel ripostiglio, non trovo nulla. Che papà l’abbia preso? Non credo, lui odia il calcio. Sarà servito a qualcuno, e la zia glielo avrà prestato. La zia presta sempre tutto a tutti, ha un cuore d’oro. Perciò mi incammino per arrivare al campetto, dove mi stanno aspettando tutti i miei compagni di avventure, pronti per una nuova partita a pallone, sperando che almeno loro ce l’abbiano: guardando il campanile mi accorgo che sono già le dieci: devo correre!

Il primo che mi vede è Romarinho, che avvicinandosi per abbracciarmi, mi stringe e mi tira una pacca sulla spalla: urlo dal dolore! Che male che fa, Roma! Sorpreso dalla mia esclamazione, si discosta lentamente per guardarmi negli occhi, e con la solita aria da bonaccione, mi dice ridendo “Ei pappamolla!” Non me la prendo, so che sta scherzando, ma reagisco lo stesso “Questa pappamolla dopo ti fa goal. Scommettiamo 10 cruzeiri Roma!”. “Accetto Edson, prepara i soldi!”. Una risata sguaiata, da parte di entrambi, e la sfida è partita. Il patto è reciproco, oltre che rinsaldato dalla presenza degli altri. Non sono sicuro di vincere, ma ci credo. Papà mi ha sempre detto che credendoci arriverò dove vorrò. E io voglio battere il mio amico. Iniziamo a modellare le squadre: per la prima volta dopo anni, senza estenuanti ricerche, i capitani sono già sicuri. Io e Romarinho, parte lui, concludo io: una discreta squadra, per fortuna sono riuscito a prendere Rogerio, con cui riesco sempre a dare il massimo. La partita inizia ed io ho subito la palla: dribblo il primo avversario con una finta di corpo, eludendo il successivo con un rapido uno-due con Rogerio, arrivo davanti alla porta, quando mi si para davanti Romarinho, il grande Romarinho, che davanti a me sembra un puma che si avventa su uno sfortunato tapiro. Ma io sono un tapiro molto agile. Controllo la palla di interno piede, velocemente mi sposto sul mio piede debole e, colpendo dolcemente la palla, scavalco Roma. Voltandomi verso la mia squadra, esultando come se avessi vinto la Coppa del Mondo, noto le loro facce sconvolte: ho appena segnato, perché non sono felici? Girandomi di scatto, mentre la palla è ancora in volo, vedo Romarinho rialzarsi come un felino, compiere un balzo incredibile e letteralmente volare per prendere il pallone...la mano destra si allunga in uno sforzo sovrumano, il suo corpo si raggiunge la massima altezza e il pallone, leggermente sfiorato dalle dita, sbatte dolcemente sulla traversa, lasciandomi esterrefatto. Ma come ha fatto? Non...non è possibile...io...lui...Romarinho, stai bene!? Cadendo per terra ha sbattuto violentemente il capo sull’asfalto, e il suo corpo pesante non ha attutito la caduta. Chiamo subito aiuto, per portarlo a casa sua, che per fortuna è a pochi minuti di camminata da qui. In sei lo solleviamo, e sbracciando per farci spazio fra la folla di turisti e di autoctoni accorsi per vedere la partita, lo accompagnamo velocemente da sua madre, la gentile Lea. Arrivati, ci guarda pietrificata: dopotutto, ha già perso un figlio, e la sola vista di Romarinho le ha raggelato il sangue nelle vene. Noi lo portiamo dentro, appoggiandolo dolcemente ed augurandogli il meglio, anche se sapevamo perfettamente che non poteva sentirci. Gli altri se ne vanno, io resto, pochi secondi, a pregare sul suo corpo: Dio, se sei così benevolo, giusto ed onnipotente come dicono i miei genitori, salva il mio amico. Non deve morire per colpa mia, non deve...concludendo la preghiera con un amen ed incamminandomi per uscire, infilo una mano nella tasca: le mia dita afferrano un pezzo di carta. No, non è un pezzo di carta. Tirandolo fuori delicatamente rimango sbalordito: 50 cruzeiri! Ma chi diavolo me li ha messi in tasca? Non ci posso credere, oggi è proprio il mio giorno...no, non è il mio giorno fortunato. Romarinho, il mio fratellone, sta male, ma Lea non ha sicuramente i soldi per chiamare un dottore: sono molto poveri, e la loro casa è come la mia a Bauru: costruita di ciò che si può trovare per strada o, al massimo, nelle discariche. Mi volto, guardo la madre di Roma negli occhi e le consegno tutti i 50 cruzeiri, ne più ne meno. “Romarinho ha vinto la scommessa, tenga tutto. E che si rimetta in sesto. Passo domani a vedere come sta, arrivederci.” Uscendo di casa, i miei occhi si riempiono di lacrime sincere, dolenti, che rigano il mio volto, posandosi delicatamente sulla mia maglietta. Corro a casa, sperando che nessuno mi veda: Edson non piange, almeno, non davanti agli altri. Il codice d’onore vale sempre, qualunque cosa accada. Ma non mi importa. Ciò che adesso è importante è la salute di Roma.

 

Edson, non mi farai gol...non me lo farai! Si sta dirigendo verso di me, veloce come una pantera, eppure nei piedi ha la forza di un anaconda...so già che virerai a destra per tirare con il tuo piede forte...cercando di prevedere la sua mossa mi muovo verso destra, ma lui cambia direzione repentinamente, portandosi la palla sul suo piede debole...ma non l’ha mai fatto...io sono a terra, e lui, con un dolce tocco sotto, sta già esultando per il goal...no, non posso perdere la scommessa...non ho 10 cruzeiri da dargli, perderei l’onore della mia famiglia, e la mamma si arrabbierebbe molto se lo sapesse...no, Edson, non segnerai! Mi rialzo velocemente, e saltando con tutta la forza nelle mie gambe, allungando il braccio destro e le dita della mano, sfioro leggermente il pallone, che sbatte sulla traversa. Ce l’ho fatto, Edson...ce l’ho fatta! Nemmeno il tempo di esultare, che l’infinito tempo trascorso in aria, da prova di tutto il suo peso, sbattendomi violentemente per terra. Sono ancora cosciente, nonostante l’impatto...vedo sangue per terra, mentre la mia testa sembra vicina ad esplodere, tanto è il dolore...vedo tutti avvicinarsi, sembrano migliaia...due Edson, tre, quattro…

“Roma, Roma...non ci posso credere, sei tornato dal regno dei morti...Roma...” una voce che riconosco, indistintamente...è proprio la sua voce, Edson, sei tu...sento lacrime, calde, cadermi sul viso, ma non capisco perché, sento le grido di gioia di mia madre, il suo pianto felice...cosa succede? Apro gli occhi, di scatto, e la luce mi acceca. Aprendoli solo leggermente, vedo il viso scuro di Edson che mi guarda, con un sorriso che ricorderò per il resto della mia vita. Uno volta abituati, riesco ad aprire completamente i miei occhi, vedendo mia madre. Mi corre incontro, mi abbraccia, mi sussurra parole incomprensibili all’orecchio...capisco solo “Almeno tu...grazie Sergio, dall’alto l’hai salvato”...la sua voce è rotta dal pianto, e singhiozzando mi dice “Roma, adesso non farlo mai più...” Io non riesco a capire, ancora, ma noto che non siamo a casa, no. Le lenzuola del letto sono candide, bianche come le piume di una colomba, ed affianco a me vedo molte donne vestite di bianco, con una croce rossa sul petto. Che sia in Paradiso? “No, Romarinho, sei in ospedale: la tua mamma Lea ha pagato le cure fino ad oggi, 15 luglio.” No...ma, non era il 25 giugno? Edson, cosa sta succedendo? Il Brasile, sta vincendo? Mamma, stai bene? Cosa...cosa...cosa diavolo sta succedendo! La mia testa sta scoppiando, di nuovo, come prima...come tre settimane fa...”Stai calmo, Roma: adesso sei qui, con noi, ed è questo l’importante. Stai calmo se non vuoi ritornare in coma, ti spiegherò tutto quando starai meglio.” Edson, grazie di cuore...ma la mamma, come ha fatto a pagare le cure? Non abbiamo i soldi per mangiare? Cosa...Roma, respira, stai calmo. Tutto va bene, adesso. Dormi. No. Oggi è il 15...domani gioca il Brasile. No, il Brasile no. Ha rovinato il nostro Paese. Ma è la finale...no. Sì. No. Sì. No...dio, aiutami.

 

Non ci posso credere, si è svegliato...Roma, sei con noi. Proprio in tempo, che sia stato dio a volerlo? Un giorno prima della grande partita, la finale della Coppa del Mondo, la vittoria del nostro Brasile. Potrai anche tu esultare con noi, se lo vorrai...ma sì che lo vorrai, è pur sempre la Selecao! Ci andremo insieme, allo stadio, entreremo prima come il 24, ci siederemo, eviteremo le guardie ed esulteremo alla fine, scendendo in campo per toccare, anche solo sfiorare i nostri campioni...poi magari regaleranno la loro maglia, e potremo sollevare anche noi la coppa, domani. Ci uniremo alle sfilate nel centro della città, vedremo tutti esultare, tutta la città, tutta la nazione. Nessuno sarà lasciato da parte, dal più povero dei senzatetto al più ricco degli imprenditori, tutti, per un giorno, vivranno il Paradiso. Il leone verdeoro ruggirà più forte che mai, e con lui tutta la nazione. Saremo i più forti del mondo, più forti di Italia, Stati Uniti, Russia, Inghilterra...di sicuro non ci fermerà l’Uruguay. Torno a casa, dalla zia, sperando abbia preparato la colazione: sono solo le sette del mattino, perché ho passato tutta la notte, l’ennesima, in ospedale, sperando che si risvegliasse...ed è successo. Dio, sei tu? Arrivato a casa, mi accoglie la mia famiglia al completo: papà è illuminato in volto, come se sapesse già la notizia, mentre la mamma e la zia sembrano preoccupate. Papà, mamma, zia, Romarinho si è svegliato oggi, un’ora fa! “Non ci posso credere” dicono quasi in eco la mamma e la zia, piangendo, mentre papà fa silenzio, ma sorride. Vuole bene a Romarinho, ma non esterna quasi mai i suoi sentimenti. Poi aggiungo “Domani c’è la finale” e papà “Andremo a vederla insieme, se vuoi” con un sorriso che non avevo mai visto prima. Papà, cosa ti è successo? Di sicuro non rifiuterò, anzi, speriamo solo Roma riesca a venire con noi.

La sera stessa, dopo essermi allenato al campetto, con la solita sessione di corsa, dribbling e tiri, oltre alla partitella con tutti i miei amici, ritorno all’ospedale, sempre correndo. Oggi mi sento proprio carico, come non mi sentivo da troppo tempo. Sarà che domani c’è la partita più importante della mia vita, ma oggi voglio proprio godermi il tempo con il mio amico. Arrivato all’ospedale, salgo fino al quarto piano. E vedo Roma in piedi, a palleggiare un pallone. Non ha dimenticato nulla, proprio nulla. Palleggio come se si fosse allenato per mesi, anche se è la prima volta che tocca un pallone dopo settimane. Vedendomi, stoppa il pallone con la suola e mi chiama a gran voce. “Edsonnnnnnnnnn, viene qua!”. Appena mi avvicino il giusto, mi prende di forza e mi solleva, come ha sempre fatto, stritolandomi in un abbraccio fortissimo. Perchè deve finire questo momento? Voglio rimanere così per sempre, con il mio fratellone. Ma dopo pochi minuti mi fa scendere, perché gli gira la testa: non si è ancora ripreso completamente, ma siamo sulla buona strada, questo è sicuro. Si siede sul letto per pochi secondi, poi si rialza ancora più vigoroso e forte di prima. “Dai pappamolla, fammi vedere quello che sai fare!” è sempre spavaldo, è sempre Romarinho. Io però, sono Edson, e posso batterlo quando voglio. Però non oggi, oggi ci passiamo solamente il pallone, facendo attenzione a non rompere nulla in questo ospedale, ma con grande velocità, non fermandoci mai. Di prima, di prima, manteniamo il ritmo, costante, sembriamo un unico corpo. Intanto parliamo di calcio, gli racconto di come sia andato il mondiale, di come il Brasile abbia sbaragliato la concorrenza, arrivando in finale grazie ai goal di Ademir. Lui ne è entusiasta, e mi promette che domani andremo insieme a vederla. Io dico che andrà anche mio padre, con noi. “Certo Edson, chi non vorrebbe andare a vedere una partita con il grande Dondinho!”. Eh già, papà è famoso anche qui. Eppure, al mondiale non ha preso parte, per quel maledetto ginocchio. Ad un certo punto mi chiede “Ma, scusami Edson, se lo sai, mia mamma come ha fatto a pagare le mie cure?”. Io, non sorpreso, dico “Roma, le ho pagate io. Dopo che ti avevamo trasportato a casa, frugando nella mia tasca, avevo trovato 50 cruzeiri, e visto che avevi vinto la scomessa, ho deciso di darli a tua mamma. Visto che a qualcosa sono serviti?” “Edson...non dovevi...”. Quando, sfiniti, ci sediamo su letto, noto che sono già le nove di sera. Il tempo vola! Soprattutto quando sei con un amico speciale, con cui ti divertiresti anche a guardare una parete bianca...Roma, grazie che sei ancora vivo, con me. Grazie di non avermi abbandonato. Senza di te, non avrei mai giocato a calcio…

È arrivato, finalmente, il 16 luglio. Oggi canteremo vittoria, tutti insieme. Sono le 9 di mattina, ed io con papà stiamo andando a prendere Romarinho all’ospedale. Per le strade di Rio vediamo fiumi di persone, brasiliani, uruguagi, inglese, italiani...un oceano di nazioni diverse, che si riversano nei vari bar della zona, alla ricerca di una televisione e del posto migliore per guardarla, mentre, passando per la favela, vediamo decine di anziani e giovani attaccati alle radioline, che stanno cercando di sintonizzarsi con la principale emittente per poter ascoltare la radiocronaca della partita più importante delle loro vite. Arrivati, troviamo Romarinho che ci aspetta fremendo: non l’ho mai visto così su di giri per una partita del Brasile, che qualcosa sia finalmente cambiato in lui, che abbia trovato la positività nel calcio dei grandi?

Tutti e tre partiamo alla volta del grande Maracanà, ma arrivati, ben tre ore prima del fischio d’inizio, troviamo una brutta sorpresa: controlli della polizia ad ogni varco del grande stadio, e file chilometriche alla biglietteria. Purtroppo, sono file di quasi soli ricchi brasiliani e turisti. Noi, popolo triste, inerme, senza un soldo, schiavo della nostra epoca, schiavo del capitalismo, non siamo il Brasile. Per chi comanda, ma saremo noi a comporre i cortei dopo questa partita, saremo noi ad esultare per anni dopo questa vittoria, saremo noi il vero emblema del Brasile. Comunque, non è un problema la fila: aspetteremo fino all’ultimo. Nel frattempo io, Roma e mio papà palleggiamo. Alle 14.50 la coda è quasi terminata e la polizia, totalmente entusiasta, perché avrebbe potuto assistere alla partita senza pagare un centesimo, entra nello stadio, lasciando fuori solo poche sentinelle, anch’esse distratte. Mio padre si mette a parlare con un poliziotto, chiedendo informazioni, mentre io e Roma, complice la sua poca attenzione, sgattaioliamo dentro uno degli ingressi, nascondendoci dietro ad una porta. Dopo pochi minuti arriva anche papà, che dice di muoversi perché tra poco sarebbe arrivata la polizia a controllare che non vi fossero intrusi. Alzandoci velocemente, ci dirigiamo verso la tribuna ovest, la più gremita, per confonderci con le persone e far perdere, in questo modo, le nostre tracce. Manca pochissimo all’inizio della partita, le squadre si sono appena disposte in modo da salutare le migliaia di persone che trovano posto sulle tribune del nuovo gigante di Rio.”Saranno più di 100000” dice mio papà, esterrefatto. Romarinho trova un posto per sedersi: quando sta in piedi per troppo comincia a girargli la testa. Io e papà, al suo fianco, stiamo in piedi, carichi come non mai. Andando qua abbiamo visto persone distribuire giornali con in prima pagina il titolo “Brasile vittorioso!”, oppure, i più pessimisti, “Ou vince ou racha” (per la traduzione chiedo nei commenti un aiuto, grazie mille in anticipo), mentre nello stadio vediamo magnifiche coreografie, e un cartellone, che grazie a dei palloncini, porta al cielo, al Creatore, la scritta “Viva o Brasil”. Che il Creatore rifiuterà, poi…

L’arbitro sistema le ultime cose, chiedendo l’ok per iniziare ai due portieri, e via, si parte! Il Brasile attacca con l’impeto di uno tsunami, mentre l’Uruguay tenta di difendersi in maniera ordinata: questo è il punto forte dei nostri avversari. L’ordine, la disciplina, quella che non ha il nostro Brasile, che dal canto suo è dotato di tecnica cristallina e di grande fantasia tattica. La partita sembra essersi messa sui binari giusti sin dai primi minuti, ma l’Uruguay persevera con la sua difesa ad oltranza. Sembra quasi giochi per il pareggio, non per la vittoria. Schiaffino guida con ordine la squadra, dettando i ritmi, mentre Ghiggia, pericolosissima ala, aiuta la squadra difendendo. I tifosi dagli spalti continuano a spronare il Brasile, che tuttavia non riesce a segnare, arrivando alla fine del primo tempo sul punteggio di 0 a 0. I tifosi non si scoraggiano e, terminato il primo tempo, continuano ad incitare a squarciagola i propri beniamini, che a testa bassa scendono negli spogliatoio, mentre gli uruguagi, freddi e concetrati, vengono insultati in tutti i modi possibili. Peccati che io non senta quasi nulla. La speranza è l’ultima a morire.

Mi volto verso Romarinho, che è completamente perso nei suoi pensieri e nella partita. Non l’ho mai visto più teso e al contempo stesso più felice, non sembra nemmeno lui. Papà mi pizzica la spalla e mi dice “Bella partita, ma quell’Ademir non sa proprio stoppare un pallone”, concludendo quella frase con un malizioso sorrisetto, indirizzato a me, che tanto adoro Ademir. Nemmeno il tempo di andare a prendere qualcosa da bere o da sgranocchiare (non mangio da stamattina!), che le squadre rientrano in campo. I giocatori brasiliani sembrano molto motivati, dice mio papà. L’allenatore avrà fatto uno dei suoi discorsi, è molto bravo a parlare, aggiunge. Lo aveva conosciuto di persona, qualche anno prima, e diceva fosse una persona molto esigente, ma forte di carattere. Non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Appena voltato lo sguardo, vedo Ademir sulla fascia, che crossa velocemente verso Friaca, che con un diagonale sul secondo palo segna il primo goal della partita. Goooooooooooooooooooool! Un boato di gioia, indescrivibile, esplode nella stadio, frantumando i miei timpani, mentre da fuori provengono grida ancora più forti, ancora più decise. Un anziano vicino a me, senza una gamba, si alza dal suo posto come se fosse nel fiore della sua forze, esultando come se avesse vinto 100000 cruzeiri. Dalle tribune esplodono petardi, e le persone agitano i loro fazzoletti. Mio padre e Romarinho esultano gridando a squarciagola, intonando il nostro inno nazionale, e tutto lo stadio si unisce in un unico, possente, grido. I giocatori in campo sembrano più tranquilli, alleggeriti dal peso di un goal che potrebbe significare la loro glorificazione, ma sono pur sempre coloro che devono sostenere le aspettative di vittoria di un’intera nazione. Gli uruguagi, tuttavia, non sembrano turbati da una simile dimostrazione di amore calcistico. La partita prosegue con il solito andamento, il Brasile attacca e l’Uruguay difende, ma venti minuti dopo accade l’impensabile: Ghiggia riesce a superare Bigode sulla fascia destra e passa la palla a Schiaffino, sul primo palo: con un incredibile torsione di destro riesce a metterla sul palo del portiere, esattamente sotto l’incrocio dei pali. Barbosa, non puoi farci niente… Un cupo silenzio cala su tutto lo stadio, le grida di festa si placano di colpo, e le gambe dei giocatori si fanno pesanti, affondano nelle sabbie mobili del Maracanà. Fuori, le grida di gioia si fermano, il Brasile sembra stia cadendo da quella zona sicura che si era costruita nella competizione. Mio Brasile, no oggi...Dio del calcio, Dio, ascolta le mie preghiere, è troppo importante...il Brasile riprende a giocare, ad attaccare, nonostante possa portarsi a casa il mondiale anche con questo pareggio. Ma i volti dei giocatori sono impauriti, sembrano delle belve costrette a battersi nell’arena. Romarinho e mio papà sono cupi in viso, il mio amico si è completamente lasciato andare. È in una fase di trance agonistica, credo. Passano i minuti, inesorabili, mentre noi brasiliani stiamo vivendo uno dei drammi più grandi: il mio cuore batte freneticamente, il sudore riempie la mia fronte, tutto attorno a me viene annullato. Vedo solo il campo da calcio e le squadre che giocano, il pallone che viaggia veloce fra le gambe dei brasiliani, mentre gli uruguagi difendono. Ma prende palla Ghiggia, che parte sulla fascia destra, è velocissimo, nessuno riesce a prenderlo, arriva al tiro sul primo palo, Barbosa si tuffa...goal. Goal di Ghiggia. Barbosa ha...ha sbagliato. Io...io...io non ci posso credere. Il mio cuore sembra arrestarsi, di colpo. Mi siedo per terra, tengo il capo fra le mani, strappo dei capelli. Il Brasile, tutto il Brasile, sta perdendo. Le persone al mio fianco piangono. Sono zitte. Il mondo si ferma, per un istante interminabile. Da fuori, nulla. Da dentro, nulla. Ovunque, nulla. Nessuno esulta, non ci sono uruguagi sugli spalti, ma solo in campo e in panchina. Solo loro esultano. La partita riprende, 10 minuti di sofferenza attendono tutto il Brasile: attacca, attacca, attacca! Brasile, ce la fai...5 minuti...4...3...2...1.

L’arbitro fischia la fine. Barbosa cade per terra, seguito da tutti i suoi compagni. Piangono disperati. Al mio fianco, papà piange. I tifosi, piangono. Il Cristo Redentor piange. Suo padre, si è preso gioco di noi. Un destino, inesorabile, scritto nelle stelle. Io, piango. Il mio Brasile ha perso, tutti noi abbiamo perso. Un’intera nazione, caduta come un soldato accoltellato al cuore, che, appena sfiorato, smette di battere lentamente, lasciando agonizzante l’uomo. Questo è adesso il Brasile. La speranza è morta.

Mi volto per abbracciare Romarinho, cercando un posto sicuro dove piangere, ma appena lo sfioro, lui non reagisce, è freddo. Letteralmente freddo. Gli occhi sono chiusi. Non respira, il suo cuore possente non batte più. Con il Brasile, è morto anche Romarinho.

Primo episodio de “La Trilogia brasiliana” di Federicoz