Scritto con la mia fidanzata Alice

QUESTO TESTO RAPPRESENTA LA PRIMA PARTE DI UN RACCONTO PIÙ CORPOSO, CHE PUBBLICHERÒ SUDDIVISO IN DUE PARTI PER RENDERE LA LETTURA PIÙ SCORREVOLE. LA LUNGHEZZA È DOVUTA ALLA TIPOLOGIA DEL TESTO E DEGLI ARGOMENTI TRATTATI: IL PROTAGONISTA È REALE (A VOI IL PIACERE DI SCOPRIRE CHI È), LA STORIA VEROSIMILE. I FATTI NARRATI POTREBBERO NON ESSERE MAI ACCADUTI. INOLTRE, QUESTO RACCONTO È IL PRIMO DI UNA SERIE DEDICATA INTERAMENTE AL CALCIO BRASILIANO. BUONA LETTURA!

Uh, che fatica essere arrivati qua sopra! Ci sono voluti mesi e mesi di preparazione per trovare una via per poter assistere alla partita della vita, la più importante per il mio Brasile. Da appena cinque anni è finita la seconda guerra mondiale, che fortunatamente ha risparmiato la mia gente. Ci ha protetti il Cristo Redentor, sul Corcovado. Costruito poco prima della guerra, dicono i miei genitori, che hanno potuto assistere alla realizzazione dell’immensa opera. Ma, in fondo, io in Dio ci credo ben poco. Non so perché, ma c’è qualcosa nella sua natura che non riesce a convincermi. Se veramente fosse così buono e misericordioso, perché non potrei guardare la partita nello stadio, comodamente seduto su una di quelle belle poltroncine? Ma mamma e papà mi dicono di crederci, che non devo ascoltare le mie idee, perché sono ancora un bambino. E si sa, i bambini cattivi finiscono all’Inferno.

La mia avventura parte a Tres Coracoes, una cittadina nell’entroterra, poco distante da Rio de Janeiro. Sono nato nel 1940, il 23 ottobre. Non era una bella giornata, anzi, pioveva a dirotto, mentre nascevo nella casa dei miei nonni. Mi chiamo Edson e ho 9 anni, fra poco 10, da cinque anni vivo a Bauru. E amo il calcio. Ogni volta che ne ho la possibilità gioco per strada, con quello che trovo, a volte un frutto di mango, a volte un calzino riempito di stracci, se sono fortunato un pallone bucato. Palleggio di tutto, letteralmente. Poi adoro dribblare la folla che mi viene incontro, far passare il “pallone” fra le gambe dei miei “avversari”. Papà è fierissimo di me, vorrebbe che io facessi un provino per la squadra della nostra città, ma non abbiamo i soldi nemmeno per mangiare, figuriamoci per potermi comprare un paio di scarpini. Ma, visto che ho già 9 anni, posso mettere da parte qualche soldo, lavorando come lustra-scarpe. Fino ad ora ho messo da parte 50 cruzeiri, mentre gli scarpini che voglio comprarmi costano 550. Magari papà mi potrà aiutare!

Vivo in una piccola “casa”, se così si può chiamare, costruita di ciò ogni giorno troviamo per strada: mattoni impilati per le pareti, una lamina di metallo per il tetto e una tenda di plastica per la porta. Io dormo nella camera dei miei, con papà, il mio eroe. Anche lui ha giocato a calcio, nella squadra della nostra città attuale, ma non è mai riuscito ad arrivare nella Selecao. “Se non fosse stato per questo maledetto ginocchio, Edson...” soleva ripetere quando ascoltava dalla sua radiolina le partite. Sin da quando ero nato aveva dei problemi al ginocchio destro, perché andando ad allenamento era scivolato finendo in una buca. Ma io, ogni singola volta, perché mio papà si meritava la Coppa, gli promettevo che ce l’avrei fatta, che avrei giocato per il nostro Paese e avrei vinto un Mondiale. Non ci sono soldi per gli scarpini, ma sognare non costa nulla, vero?

 

Oggi è il 23 giugno del 1950. Stiamo aspettando alla fermata di Bauru l’autobus che ci porterà a Rio de Janeiro, dove passeremo tutta l’estate. Ci ospita la sorella di mio papà, mia zia, che ha una casa sulla spiaggia. Probabilmente i miei vogliono che io nuoti un po’ nel mare, che faccia amicizia con i ragazzini della mia età e che stia il più possibile lontano da Bauru, dimenticando per almeno due mesi la triste monotonia che condiziona le nostre vite. Anche se per me non è triste, quando riesco a trovare qualcosa di simile ad un pallone. Ah, eccolo! È proprio identico a quello che ci ha portati l’estate scorsa: altissimo, di colore verde, ogni parte della sua carrozzeria dove si posa il mio sguardo è arrugginita. Entriamo e mio papà paga i 20 cruzeiri per tutta la famiglia, bagagli compresi. Non che siano chissà cosa, una valigia per quattro persone. Oggi è pienissimo, ci sono solo 5 posti liberi, e quattro li occuperemo noi. Sicuramente tutte queste persone stanno andando a Rio, ma per un motivo ben diverso da quello di papà: tutti vanno a vedere il Mondiale, che inizia domani alle tre del pomeriggio, nel nuovissimo Maracanà. Mio papà no, non vuole: vedere suoi amici e anche ex-compagni di squadra esultare dopo un goal, o addirittura festeggiare la vittoria del titolo sarebbe un dolore insopportabile per il suo orgoglio. Lui ama il calcio, ma la sorte gliel’ha fatto odiare. Eppure in me ha visto qualcosa, perché quando mi guarda sorride, vede in me se stesso da piccolo, ma ben più forte. Dice che ho il tocco di Leonidas, quella velocità, quel dribbling, quel tiro, quel talento...mi dice che sono un vero “diamante”, che spera un giorno possa mostrarsi a tutto il mondo. Mi ha promesso che avrebbe lavorato quest’estate, nonostante sia una vacanza, per permettermi di entrare nell’accademia del Bauru, dove lui è una leggenda. Ah uno scossone, ah un altro! Questa strada è un disastro, non mi lascia nemmeno pensare, dio santo! Ero appoggiato al bordo del finestrino, a cui manca il vetro, e il sobbalzo mi ha fatto sbattere la testa contro di esso. Mia mamma mi ha detto di stare più attento, ma anche lei sa cosa sto passando in queste settimane: la mia passione aumenta, ma non posso permettermi di praticarla. Mi riappoggio, con più attenzione, cominciando ad immaginare il mio futuro da calciatore, a sognare ad occhi chiusi...”Capolinea Rio de Janeiro Ipanema” grida il conducente, e io mi risveglio a fatica dal torpore del sonno. Non ci credo, siamo arrivati! Scendo dall’autobus barcollando, con gli occhi ancora socchiusi, come se fossi ubriaco, solo che il mio vino è il sonno, dopotutto sono solo le 8 del mattino, ma qui a nessuno sembra importare. Non ho mai visto la spiaggia di Ipanema così affollata, fiumi di persone che si riversano come affluenti nell’enorme Oceano Pacifico. Mio papà scuote la testa, sussurrando a mia mamma “Questi turisti distruggeranno il nostro Brasile...”. Più che arrabbiato, è rassegnato. Sa perfettamente che la federazione brasiliana non ha vinto il bando per aiutare la popolazione con gli introiti, o perché il nostro Paese fosse la patria del calcio, ma solamente per arricchirsi. Ma io di queste cose economiche, non capisco molto. E non mi interessa. Per me l’importante è giocare a calcio.

Dopo aver camminato per 10 minuti fino alla nostra casetta, vedo la zia sullo stipite. Le corro incontro e la abbraccio, lei mi accarezza i capelli e mi bacia sulla nuca, dicendo “Finalmente qua, Edson mio...”. Mi vuole tanto bene, e ha spesso insistito affinché mio papà mi lasciasse con lei, cosicchè potessi frequentare l’accademia del Santos, di cui conosceva il presidente. Mi avrebbe pagato tutto. Ma mio papà non voleva avere debiti con nessuno, nemmeno con sua sorella. Ancora una volta il suo orgoglio mi aveva limitato. Ma era pur sempre il mio eroe.

Per il primo giorno, come ogni estate, la zia si era fatta portare da un suo amico italiano la “pizza”, una specie di focaccia piatta con sopra pomodoro e formaggio. A dir la verità, non mi ha mai entusiasmato, ma ogni volta che mia zia mi chiede un parere, dico che è buonissima, perché non voglio ferirla. Dopotutto, anch’io le voglio un mondo di bene, è come una seconda mamma. Dopo aver finito la mia porzione, enorme, esco in città per vedere se qualcosa era cambiato. Ed era cambiato TUTTO rispetto ad appena 9 mesi prima. Gli edifici vecchi sono stati completamente rinnovati, ne sono stati costruiti di nuovi, quasi tutti alberghi per turisti, e qua vicino c’è un campetto da calcio, secondo il vigile a cui ho chiesto informazioni. Devo andare lì. Torno a casa per prendere le mie scarpe, quando la zia mi ferma con una scatola in mano, e mi dice “Questi sono per te”. Apro la scatola e vedo gli scarpini che desideravo...non ci posso credere, l’ha fatto lo stesso, nonostante mio papà non volesse...scoppio a piangere e la abbraccio in una stretta fortissima, mi fondo con lei e sento il suo cuore battere forte, una sua lacrima cade sui miei capelli neri, mentre continua a ripetermi nell’orecchio sinistro “Edson, un giorno sarai qualcuno, salverai tuo papà e tua mamma...e penserai anche alla zia, forse...” Sì zia, ti penserò, promesso.

Mi avvio per andare al campetto, dove avrei sicuramente trovato qualcuno dei miei amici della scorsa estate: Rogerio, Paulo, Sergio, Marcinho, il grande Romarinho...i ricordi affiorano nella mia mente, come fiori all’arrivo della mite primavera, rendendo il mio animo tranquillo, come se i nove mesi che mi hanno separato da questo posto magnifico non fossero mai passati. Neanche il tempo di soffermarmi sui miei vivi ricordi, che il mio viso sbatte contro la rete metallica del campetto di cemento, “invaso” da tutti i ragazzini del vicinato: cercando di scorgere qualcuno dei miei amici, noto Romarinho in porta. Come ai vecchi tempi...ad un tratto, prevalso il mio istinto, urlo il suo nome a squarciagola, superando lo schiamazzo della calca calcistica, e lui si gira di scatto. Fregandosene completamente dell’azione in corso, che avrebbe potuto portare al goal subito, corre verso di me e, dopo un’occhiata di reciproco riconoscimento, mi abbraccia con forza, sollevandomi da terra. Come ai vecchi tempi...io sono ancora piccolo, mentre lui è sempre il “grande”, il fratellone che ci vuole tanto bene, ma che ci prende anche in giro...battendo con i pugni sulla sua schiena, per scendere da quella giostra che tanto mi era mancata (e da cui non sarei affatto voluto scendere!), mi lascia appoggiare i piedi per terra, dolcemente, quasi mi stesse cullando. Cominciamo subito a parlare, a raccontarci le esperienze vissute in questi mesi, e lui, appena nomino l’inizio dei Mondiali 1950, si rabbuia in viso. “Non parlarmi di quella mer*a, Edson. Hanno costretto me e la mia famiglia a trasferirci per far spazio al nuovo albergo della Selecao, distruggendo la mia casa. E sai cosa ci hanno dato? Una puzzolente capanna di latta nella favelas più schifosa della città! Questi sono i Mondiali della gente? Beh, a me non sembra Edson...io gioco a calcio per aiutare un giorno la mia famiglia e tutto il Brasile dei poveri, visto che questo Stato ha i soldi per costruire enormi alberghi ma non per garantire a me una piccola casa.” Rimango totalmente allibito dalle sue parole, il sangue mi si raggela nelle vene...è questo il calcio? Dio, tu che sei onnipresente e onnipotente, è questo lo sport che amo?

Dopo pochi secondi di silenzio, lui riprende a parlare con il solito tono scherzoso, fino a quando, dopo aver notato che all’appello dei miei amici, che avevano fermato la partita per salutarmi, mancava Sergio, gli chiedo dove sia finito. Tutti mi guardano. I loro occhi non si staccano da me. Mi sento osservato come un fenomeno paranormale, una sorta di portatore di sventure, una reminiscenza dell’infanzia più pura, svanita nell’arco di pochi mesi funesti. “è morto” sono le due parole che emettono le sue labbra. Due fendenti acuminati, diretti al mio fragile cuore. Perchè proprio tu, Sergio? Cosa hai fatto di così male? Eri il più buono, il mio migliore amico...volevo imparare i tuoi dribbling, eri dannatamente bravo a giocare a calcio, una saetta, eppure non ci mettevi mai in ridicolo, per te tutto era un gioco, perché il calcio è un gioco, dopotutto...non è politica, ne finanza, ma è un gioco per bambini, dove tutti si divertono e imparano a stare insieme. Il calcio è educazione attraverso il lavoro di squadra e il rispetto, verso chiunque. Che sia il tuo avversario, o il tuo compagno di squadra, che sia un ragazzo di un’altra favelas, devi avere rispetto. Mio papà me lo ripete da quando ho cominciato a portare i suoi scarpini nel letto, come scaccia-incubi.

 

Questa notte mi sono svegliato tre volte di soprassalto, tre volte sognando Sergio. Cosa gli è successo? Devo sapere, solo di questo sono sicuro. Scendo dal letto e vado in bagno a sciacquarmi la faccia: ho sudato come se stessi giocando una partita, con la vita, però. Una partita a metà strada fra vita e morte, in cui se perdi, sei fuori. Per sempre. Sergio la sua l’ha persa. Eppure non se lo meritava...era il migliore, in qualsiasi cosa facesse. Dopo aver fatto colazione, manco a dirlo abbondante, dopo il bacio alla zia, ritorno al campetto, quando sono le 9: come sempre tutti sono lì. Li saluto uno ad uno e cominciamo a giocare: tocca a me e a Rogerio fare le formazione. Che rottura, è il lato peggiore della partita! Perchè devo escludere qualcuno, e prendere qualcun altro? È pur sempre un gioco, o sbaglio? Inizia lui, scegliendo Romarinho, mentre io prendo David per la porta. Santi in attacco, Mindo in difesa, Joao esterno. Beh dai, questa volta mi è andata proprio bene. Speriamo di divertirci e di vincere! Il primo possesso è nostro, ricevo la palla e mi accentro, attirando su di me due giocatori avversari: eludo il loro pressing con uno-due con Joao, arrivo alla conclusione, la finto mandando fuori tempo il portiere e con un morbido scavetto la palla, placidamente, entra in porta. 1-0! Vamos meninos! La partita continua su ritmi altissimi, ma il mio Mindo difende come se giocasse per la Selecao, mentre Santi, grazie alla sua stazza imponente, riesce a proteggere il pallone a far salire la squadra. Ad un certo punto prendo palla, la passo a Santi che la lascia con un velo a Joao. Tiro in porta e...e...parata di Rogerio! Incredibile salvataggio del mio avversario che si è buttato alla disperata salvando in scivolata un goal certo...si sarà sbucciato dappertutto sul cemento. La partita termina così, 1 a 0 per noi. Ci complimentiamo con gli avversari, che ci promettono una rivincita. Bene, io attendo!

Tutti insieme andiamo alla fontana per bere un po’ d’acqua fresca e in un istante che sono solo con Romarinho, gli pongo una domanda. “Roma, cosa è successo a Sergio?” lui si volta verso di me, e scoppia in lacrime. Il suo fratellino, per noi, c’è ancora. Ogni sera lo aspettiamo ritornare a casa per la cena, frugale ma per questo buona. Ogni mattina lo aspettiamo al campetto, ma non arriva mai. Gli hanno sparato, perché una gang aveva rubato venti radioline. E il primo ragazzino che hanno trovato è stato lui. Niente da fare: pensavano fosse stato lui, perché ne teneva in mano una. Era quella di suo papà. Nemmeno il tempo di spiegare, che uno dei derubati aveva tirato fuori una pistola e, puntata alla tempia, aveva premuto il grilletto. Un brivido mi scosse, come se d’un tratto un fulmine a ciel sereno m’avesse colpito. Sei tu, saetta?

Torniamo nelle rispettive case per pranzare e ci diamo appuntamento alle una per incamminarci verso il Maracana. Alle tre si giocava la partita inaugurale, ed essere lì un’oretta prima ci garantiva dei posti gratis e la visione della cerimonia inaugurale, che da quanto mi diceva mio papà, era una delle parti più belle di tutto il Mondiale. Ci siamo fidati, e non ne siamo rimasti delusi: uno spettacolo inaudito, che doveva mostrare al mondo la rinascita del Brasile! Una rinascita inesistente, che aveva solamente riempito di tasse noi poveri, continuava a ripetere Romarinho, seduto accanto a me. “Ma pensa al calcio” gli ripetevo io, perché ancora non capivo.

Inizia la partita: Brasile-Messico. Siamo in tantissimi allo stadio, ma non è che mezzo-pieno. Non voglio nemmeno pensare alla finale e alla vittoria del Brasile. Ovvio che vincerà, è la squadra più forte del mondo! I ritmi non sono altissimi all’inizio, il Messico difende strenuamente la proprio porta, mentre il Brasile attende una crepa nella sua fragile difesa. Al 30esimo Ademir si incunea e segna l’1 a 0. Un boato esplode nello stadio, un grido di gioia e di rivalsa che coinvolge ogni persona presente allo stadio, ma anche tutti quelli che sono attaccati alle radioline: è il grido del Brasile, di un leone ferito che vuole dimostrare di essere ancora forte. Il grido di un popolo ammaliato dai suoi campioni, che servono alla politica per “tenerli a bada”. Si sentira fino a Bauru, penso. Ma in questo momento io sono un tutt’uno con il calcio, non mi importa che i politici controllino la nostra società. Sono ancora un bambino, capirò, come dice mio papà...il primo tempo prosegue in scioltezza, con il Brasile che amministra il proprio vantaggio contro una squadra di semi-professionisti, passandosi la palla di prima, con uno-due rapidi, quasi come se si trattasse di un allenamento. Così si conclude il primo tempo della partita inaugurale dei Mondiali. Girando leggermente la testa, noto che Romarinho, assorto nei suoi pensieri, sta ripetendo un nome, che si trascina stancamente fino alle mie orecchie “Sergio, Sergio, Sergio...” Mi avvicino a lui, e lentamente poso un braccio sul suo. “Sergio è felice, adesso. Ci sta guardando da lassù” e gli indico il cielo azzurro. “Spero, Edson...”.

Attenzione, il commentatore richiama tutti gli spettatori sugli spalti: inizia il secondo tempo! Parte il Messico che questa volta, e la sua strategia pare chiara sin dall’inizio: cercare di tenere palla più tempo possibile, impedendo così ogni velleità offensiva brasiliana. Questa tattica, sicuramente voluta dall’allenatore, porta i suoi frutti sperati fino al 65esimo, quando con un potente piatto di sinistro Jair batte il portiere messicano. 2-0 Brasil! Adesso l’urlo è più sommesso, il leone ha inferto la ferita fatale e si gode la vista della preda sanguinante. I giocatori messicani non ce la fanno più, sono esausti: i ritmi della verdeoro sono talmente alti da impedire qualsiasi ripartenza, o anche il solo pensiero di essa. 6 minuti più tardi, su cross dalla fascia destra, Baltazar svetta su tutti in area di rigore e indirizza il pallone all’incrocio dei pali: 3-0! Apoteosi dei giocatori brasiliani! Che roba oggi la verdeoro, penso, guardando Romarinho, che sembra si trovi in altro luogo. Lo chiamo, ma lui non risponde. Sergio, perché lo hai lasciato solo? Neanche il tempo di finire la preghiera per il mio amico, che il verdeoro segna il quarto goal, con un inserimento da rapace di Ademir che lascia impietrita la difesa messicana. Che giocatore, è il mio preferito...un giorno vorrei essere come lui, velocissimo ma freddo davanti al portiere, un giocatore che non ha paura di giocare con il fisico e di astuzia...gli ultimi minuti passano senza pericoli per la Selecao, che amministra con saggezza il vantaggio, non sprecando ulteriori energie. Il Messico non prova neanche a strappare la palla agli avversari, è una fortuna che siano ancora in campo: oggi il Brasile si è ufficialmente candidato a favorito per la vittoria finale. Al fischio finale, un secondo, assordante, boato scuote il Maracanà. Tremano le fondamenta, tremano le voci di milioni di miei concittadini, inorgogliti da una prestazione monumentale. Il Brasile è una bolgia paradisiaca, in questo momento. Nello stadio le 80000 persone presenti esultano sfrenatamente, e da fuori proviene un grido ancora più forte. Il leone ferito sta rinascendo...così penso. Romarinho, andiamo a casa. Sergio...no, non ci aspetta più.

PROSSIMA PARTE WORK IN PROGRESS                                                                              Federicoz