Lo visione che ognuno di noi ha sulla vita di ogni singolo calciatore professionista è quella dell’uomo perfetto: ricco, bello, famoso, un vero privilegiato che sconosce il significato del sacrificio quotidiano, abituato com’è a vivere, nel lusso sfrenato, “solo” perché tira due calci ad un pallone. E’ quindi chiaro come il sole che Il luogo comune del malcostume sociale non è mai riuscito ad andare oltre a quella visione classica del calciatore, pensando a lui soltanto come al super atleta, ricco sfondato, che non potrà mai soffrire nella sua vita come farebbero dei semplici comuni mortali; però non sempre la fama e il successo rappresentano sintomi di felicità poiché anche il calcio, alle volte, può nascondere dei lati oscuri a cui nessuno ha mai dato davvero la giusta interpretazione. Ma per comprendere a pieno il rovescio della medaglia di questo sport è necessario prima liberarsi, completamente, da questi inutili stereotipi costruiti dalla massa poiché altrimenti, non avrebbe senso continuare con la lettura di questo articolo. Come detto esiste un male invisibile che può trasformarsi nel più temibile dei nemici, un grande ostacolo della vita, un vero e proprio argomento tabù di cui nessuno ha il coraggio di parlare apertamente ma che continua a mietere “vittime”, come il peggiore degli angeli della morte, una grave malattia che divora, letteralmente, dal di dentro svuotando completamente fuori la persona che la patisce e stiamo parlando della depressione. Bisogna anche avere l’onestà intellettuale per comprendere ad un certo punto che quella del calciatore professionista è una vita piuttosto atipica, fatta di enormi sacrifici, in cui non ci si possono permettere distrazioni o attimi di debolezza poiché il “calcio” è un mondo crudele e rappresenta l’orbita attorno al quale ruotano i sogni, le speranze, l’umore e l'autostima dal quale ogni singolo atleta cerca di emergere per diventare qualcuno. Ci si dimentica spesso che, proprio come noi, sono semplici essere umani con ansie, sentimenti, paure e debolezze, ragion per cui non è difficile trovare, dietro ad ogni carriera storie di famiglie povere che hanno investito tutti i risparmi di una vita, sui piedi dei propri figli, affinché possano realizzare il loro più grande sogno. Eppure in mezzo alle belle storie dei grandi campioni ce ne sono anche tante di reale sofferenza, infatti non è per nulla insolito nel mondo dello sport cadere nella depressione per una svariata serie di motivi. Per esempio al calcio ci si avvicina, quasi sempre, in tenera età, quindi si fa riferimento, perlopiù, ad adolescenti abituati a vivere in casa, ad uscire per stare con gli amici della porta accanto, andare a studiare a scuola, giocare con i videogames, insomma una realtà che coinvolge la maggior parte dei teen-ager del globo terrestre e che fa coincidere, di solito, l’inizio della loro carriera calcistica nella piccola squadra del paesino di residenza dove si è cresciuti coccolati da un ambiente familiare. Quindi ritrovarsi improvvisamente, dall’oggi al domani, catapultati a chilometri di distanza dai propri affetti e dover trascorrere le giornate esclusivamente ad eseguire gli “ordini” impartiti da qualcun altro, che non sia tuo padre o tua madre, per di più in un ambiente tosto in cui la concorrenza risulta spietata, può incidere notevolmente nella mentalità dei giovani calciatori soprattutto in quelli con un carattere più fragile rispetto ad altri. Fatale, in questo periodo, potrebbe risultare soprattutto un infortunio, quando a sedici anni la tac evidenzia la rottura del legamento crociato che ti terrà lontano dal campo da gioco per quasi un anno, tra una lunga riabilitazione e soprattutto il coraggio di rimettersi in piedi per tornare a rincorrere nuovamente quel pallone sul rettangolo verde. Ma l’oscuritá della depressione può arrivare anche quando si è già dei calciatori affermati poiché c’è chi è sensibile e non riesce a reggere la pressione delle aspettative e soprattutto i continui attacchi della carta stampata; pensate voi se doveste svegliarvi la mattina seguente ad una partita, sapendo che la propria squadra ha perso per un vostro clamoroso errore ed essere sommerso da critiche, con il conseguente processo mediatico che durerà fino alla prossima giornata, come vi sentireste? Se ancora oggi a 55 anni, un grande campione dal carattere forte come Roberto Baggio ha dichiarato che pensa e ripensa, svegliandosi in piena notte, continuamente a come avrebbe potuto tirare meglio quel maledetto rigore fallito, durante la finale dei Mondiali a Usa 94 contro il Brasile, non potrà mai essere semplice per nessun giocatore riprendersi dai continui attacchi ricevuti soprattutto nell’era dei social network. Per non parlare degli eventi esterni che possono influire negativamente sulla carriera di un calciatore come la perdita di una persona cara o il turbamento che può essere provocato da una pandemia mondiale come quella con cui stiamo imparando a convivere da due anni a questa parte.

Storicamente, dunque, si è sempre tentato di sottovalutare, la sofferenza dei calciatori, che molto spesso trovavano la loro valvola di sfogo negli eccessi dei loro vizi; episodi che sono stati, quasi sempre, catalogati, dal mondo dello sport, solo come una forma di mania di eccentricità e protagonismo tipica di chi vive nel lusso e non sa come poter sperperare i propri lauti guadagni. Per anni infatti tutti abbiamo riso delle “bravate” di Paul Gascoigne, di Mario Balotelli, di Adriano, solo per citarne alcuni, senza nemmeno fermarsi per un attimo a riflettere e cercare di comprendere chi o cosa li spingesse realmente a tenere quegli atteggiamenti fuori dal campo. Ci sono volute tante vere tragedie per scuotere il magico mondo del calcio dalla convinzione che i calciatori siano degli invincibili uomini d’acciaio che non possono vivere nel dolore. Tragedie come quella di Agostino di Bartolomei che, a nemmeno quarant’anni, si sparò un colpo secco al cuore, durante un giorno di maggio quando ormai il peso del suo dolore era diventato insormontabile. Oppure come la storia di Robert Enke, che esattamente dopo tre anni dalla dolorosa scomparsa della piccola figlioletta, un giorno salutò sua moglie dicendole che andava ad allenarsi per poi salire in macchina guidando per ore e ore fino a quando non decise di fermarsi in una ferrovia, gettandosi sui binari del treno per porre definitivamente fine alle sue sofferenze. Un infinita oscurità come quella che oggi sta colpendo un giocatore come Josip Ilicic. Un calciatore dal talento cristallino ma con un estrema fragilità interiore che da due anni a questa parte lo ha condizionato negativamente facendolo ripiombare nuovamente in quel limbo, dal quale era uscito, per combattere i demoni che aveva già avuto modo di sconfiggere quasi due anni fa. Protagonista indiscusso della splendida dell’Atalanta di Gasperini, Il COVID-19 lo ha colpito non solo fisicamente ma soprattutto emotivamente per via di quelle macabre scene delle bare di Bergamo che gli ricordavano i tristi momenti vissuti nel suo paese durante le guerre balcaniche oltre all'enorme paura di poterci finire anche lui in una di quelle bare trasportate dall’esercito per via del contagio subito. Dopo questa ricaduta però, notizie ufficiali non ne giungono né dal calciatore, né dalla società ma l’unico ad aver rotto il silenzio, dopo le ultime partite saltate dallo sloveno per problemi di “natura personale“, è stato il suo allenatore Gianpiero Gasperini; il quale coraggiosamente racconta ai microfoni di Dazn, di un uomo rientrato in quel tunnel dal quale sembrava ormai essere uscito definitivamente e che la testa di Josip è una vera e propria giungla. Tutti gli siamo vicini nella speranza di poterlo rivedere presto in campo per portare in alto il nome dell’Atalanta come ha enormemente contribuito a fare in questi anni, forza Josip non mollare!

Ma fortunatamente nel calcio non esistono soltanto storie tristi ma ci sono anche testimonianze di coloro che c’è l’hanno fatta a uscire da questo tunnel oscuro riuscendo a sconfiggere il terribile male che li affliggeva grazie alla forza e all’enorme coraggio avuti nell’annunciare pubblicamente il loro enorme stato di sofferenza. Gigi Buffon, Michael Carrick, Danny Rose sono solo alcuni dei nomi illustri di chi i propri demoni li ha guardati negli occhi riuscendoli a scacciare una volta e per tutte; le loro storie sono molto simili: la vergogna, la paura, la terapia e infine la vittoria. Destini incrociati dalla necessità di dover nascondere il proprio dolore a causa di una vita passata costantemente sotto i riflettori, in cui a chiunque viene data la facoltà di giudicare senza nemmeno chiedere il permesso. Per questo diventa ammirevole la scelta di raccontarsi, come hanno fatto loro, con coraggio pubblicamente, svelando una parte di sé che gli uomini di sport hanno sempre cercato di tenere nascosto per paura di essere gettati nel tritacarne mediatico dell’anonimato più assoluto.

Il tabù della depressione però non riguarda solo uno sport come il calcio, ma abbraccia l’intera società che ne risulta inevitabilmente travolta. Difatti nel mondo sono affette da depressione circa 615 milioni di persone per non parlare del numero elevatissimo di vittime che ogni anno è pari a circa a 850mila persone. Numeri semplicemente spaventosi che dovrebbero far riflettere con attenzione visto il grande nemico che ci si pone davanti; eppure nonostante tutto, ogni qual volta si sente nominare le parola “malattia mentale” si cerca sempre di parlarne il meno possibile come se in qualche maniera ci sia il rischio di esserne contagiati. Per questo occorre assolutamente un cambio di rotta su questo tema, perché cercare di evitarlo in ogni modo possibile non aiuta chi si sente solo e inerme nel disperato tentativo di sconfiggerla. E, nel caso specifico del calcio, bisogna eliminare quindi l’idea che si ha dei calciatori ovvero di esseri immuni da ogni male per via dei soldi che guadagnano perché il calcio è un mondo crudele e meschino, che vive di momenti, di attimi, un tempo troppo limitato in cui bisogna dimostrare di essere un vero campione per meritare i soldi investiti.
Oggi più che mai nel calcio ci sarà sempre meno spazio per il lato umano, poiché in uno sport così estremo in cui l’atleta viene spremuto fino al midollo fino quando sarà utile alla causa, i soldi e la fama non bastano a curare le sofferenze della vita...