Se la redazione giornalistica dell'Avanti fosse ancora in attività, non avrebbe remore nel definire ciò che sta accadendo come un vero e proprio golpe calcistico, attutao con il più repentino dei "blitzkrieg". E poco importa se siamo in un contesto esule dal mondo politico, perché ormai il calcio è imbottito anche di questo; ma soprattutto è economia, business, finanza, mercato globale, in parole povere, denaro. Ho passato buona parte della nottata a studiarmi alacremente ogni definizione di golpe o colpo di stato, raggiungendo picchi paranoici visti soltanto in Mel Gibson nel discutibile film del 1997 "Ipotesi di complotto". I comunicati dei secessionisti aderenti al nuovo patto arrivano come una pioggia battente e hanno il sapore distopico dei libri di George Orwell: a leggere il cinismo e la freddezza di alcuni testi, seppur addolciti da qualche bella parola perbenista come "sostenibilità e "solidarietà", mi ritornano in mente proprio gli annunci del Minipax del libro 1984. Sembra tutto così surreale, ho bisogno di rispolverare le figurine Panini del torneo 97-98, necessito di confortarmi nell'ormai sbiadita immagine di Hubner, Volpi, Poggi e della Cremonese. Eppure sono incuriosito, attratto, leggermente suggestionato e sensibilmente curioso di scoprire da cosa deriva cotanta visionaria e avanguardistica idea divenuta ormai capitalistica realtà, che presto sarà servita ai più abbienti come prodotto pre-confezionato, "ready to consume".

Dove affondano le radici? Agnelli e Perez covano l'idea da almeno un decennio, mentendo spesso sull'imminente "release" del prodotto. Ma possibile che sia esclusivamente farina del loro sacco? Capisco l'emulazione del modello cestistico NBA, ma ho la netta impressione che l'origine di tutto si trovi in un arco temporale discretamente remoto, quando l'imprenditoria stava decollando e pretendeva di saltare in anticipo qualche tappa obbligata. 1988, anno della finale di Coppa Campioni tra Milan e Steaua Bucarest: a decidere sono gli olandesi Gullit e Van Basten che consegnano al presidentissimo Berlusconi il massimo alloro continentale. Tuttavia il buon Silvio non è soddisfatto, avrebbe preferito, da uomo altamente patinato e competitivo, di vincere in una cornice molto più prestigiosa, contro un avversario di pari livello. Dello stesso avviso era Ramon Mendoza, all'epoca presidente del Real Madrid, il quale non riusciva a digerire il fatto che durante la manifestazione più importante d'Europa, le probabilità di vedere un Milan - Real fossero basse quanto il PIL del Bangladesh. Inoltre, i due luminari non erano d'accordo sull'eliminazione totale e diretta sin dal primo turno, col rischio di poter terminare la stagione europea già a settembre. Nel 1999 abbiamo la più massiccia opera di revisione e allargamento della competizione, che pertanto comincia ad assumere i connotati della Champions che oggi noi tutti conosciamo. In parallelo, per spingere l'UEFA ad accettare le richieste dei grandi club, era clandestinamente portato avanti un progetto parallelo, denominato EFL (European Football League), che prevedeva un format a 32 squadre, di cui 16 entranti di diritto per pregressi meriti sportivi internazionali. Dietro le quinte, la regia era affidata al colosso J.P. Morgan, ossia l'attuale "produttore esecutivo" della Superlega targata Perez-Agnelli. Il progetto minatorio e le forti pressioni portarono l'UEFA a concedere un numero maggiore di posti in Champions ai campionati più importanti, permettendo in seguito anche la costituzione di collettivi d'elite simil G-14, creandosi in casa quell'anticamera sovversiva che oggi sta rivoltando l'intero sistema calcistico europeo.

Le colpe dell'UEFA e gli attriti coi grandi club. Il risveglio di Ceferin, numero uno dell'UEFA, non è stato dolce; tradito dal fido Agnelli, che proprio in questi giorni lo rassicurava mendacemente, l'erede politico di Platini rilascia un comunicato forte, deciso, coeso e solidale con quello dell'ECA e delle federazioni nazionali: il progetto viene definito come uno "sputo al calcio", un mesto tentativo di furto, una proiezione oligarchica di un regime dei più abbienti, contro il quale faranno di tutto pur di stroncarlo sul nascere. Si parla di esclusione dei club fondatari dai rispettivi campionati, di ban per i calciatori tesserati che sarebbero non più convocabili dalle nazionali; l'avvocato Ceferin, da buon panslavico, seppur scottato e colpito alle spalle, si riarma e forte dell'appoggio di chi è stato snobbato dall'elité, serra le file e ridesta l'artiglieria pesante, dicendosi pronto a far guerra. Ma in questa storia, che può far fraintendere i ruoli del buono e del cattivo, è giusto che vi sia un chiarimento e un'equa spartizione delle colpe: il massimo organo di controllo europeo ha sempre avuto una politica ostativa rispetto alla spartizione dei guadagni derivanti dalle manifestaizoni europee: con modi molto più diplomatici, la nuova "massoneria" del calcio ha sempre lamentato un certo parassitismo istituzionale, nonché un esasperante "reprimenda" burocratico attuato dal massimo organo europeo nei confronti di chi si assume i cosidetti "rischi di impresa" per rimanere al top: infine, è giusto sottolineare l'applicazione lasciva e poco rigorosa del Fair Play Finanziario; doveva essere il dispositivo garante della salute economica del sistema, ma a conti fatti è rimasto uno strumento mai peinamente utilizzato, con l'UEFA complice di aver troppo spesso chiuso un occhio, spingendo indirettamente gli stessi top club a superare certe soglie.

Non ci sono buoni o cattivi ma soltanto una vittima: i tifosi. Non beviamoci la stupida retorica dei "club avidi, ricchi, cattivi e indebitati" contro "i paladini della meritocrazia, della solidarietà e dei valori di inclusione". Entrambe le parti hanno motivazioni e colpe che si muovono attorno ad un unico fattore comune: i soldi. Qualsiasi guerra, anche quella più idealizzata e indottrinata, avrà sempre il suo fondamento nel vil danaro; e in questa situazione, conti alla mano e con la J.P. Morgan che garantirebbe qualcosa come 3,5 miliardi di euro ai club fondatori e la solida prospettiva di risanamento dei disastrati bilanci post-pandemia, non c'è nessuno al mondo che può bersi qualsivoglia filippica perbenista e pseudo-etica. Agnelli e Perez facevano già i propri conti, chiusi nel loro circolo privato, mentre preparavano da buoni "dorotei" l'esclusiva kermesse: dall'altra parte invece l'UEFA e la FIFA, istituzionalmente legittimate a macinare business in Qatar a discapito di chi fattura, col mondiale emiro che non può certo definirsi un evento no profit. I club fondatari spendono, si assumono rischi, producono ricchezza, hanno pertanto "esigenze sacrosante" e non accettano di indebitarsi secondo determinate condizioni, né tantomeno di non riuscire più a sostenere determinati costi per rimanere al top. L'UEFA invece organizza i tornei con un pressapochismo e un egoismo deumanizzante, salvando l'immagine con qualche campagna di integrazione ed eguaglianza. Nessuno dei due blocchi contrapposti può aver ragione, entrambi hanno motivazioni che uccidono l'essenza di questo sport e tradiscono, come Bruto con Cesare, la vera vittima di questa ordita macellazione calcistica: i tifosi. Il vulnus arrecato a chi fa di questo sport la propria passione non è quantificabile in numeri o valute, ma qualificabile in sensazioni e sentimenti di incertezza, delusione, amarezza, vuoto.

Il paragone sbagliato con l'NBA. Nelle ultime ore la fanbase più accanita della Superlega si esalta nell'immaginarsi il potenziale entertainment derivante dai big match: un po' come Curry contro Lebron, la Superlega promette lo stesso livello e le medesime dimensioni sportive, d'intrattenimento ed economiche che connotano la massima competizione cestistica americana. Ma uno scimmiottamento resta pur sempre uno scimmiottamento, perché il progetto NBA non va ridotto alle sole dimensioni materialiste: il modello americano, attualmente non applicabile per motivi culturali, affonda le proprie radici in un movimento di inclusione ed integrazione, che parte dai giovani e dalle scuole. Come sappiamo, NBA, NFL, MBL sono realtà che, attraverso un rapporto collaborativo col sistema scolastico ed universitario statunitense, favorisce lo sviluppo, la crescita e la formazione sportiva, umana e culturale dei ragazzi, garantendo un futuro anche a chi non ha i mezzi per scalare la piramide sociale. Non guardiamo subito ai draft, a Curry e Lebron, poniamo l'attenzione più in basso, al piano terra di questo grattacielo sportivo: sugli scalini che anticipano la Hall ci sono movimenti giovanili, borse di studio, sussidi, scuole, università, sogni, speranze, tutti concetti che nella Superlega e nel vecchio calcio tirannico dell'Uefa non riescono a trovare spazio.

Giusto cambiare ma non toccateci i valori di questo sport. Gary Neville, Jurgen Klopp, Ander Herrera, Mesut Ozil: giusto quattro nomi a caso, le cui reazioni si schierano a favore di chi non vuole questa rivoluzione. Non stuzzicano nemmeno i possibili guadagni o le promesse di diventare una superstar, la magia del calcio va preservata, perché dietro a un pallone ci sono sempre i sogni dei bambini che lo rincorrono, magari in un campo sporco e infangato, come vuole il più romantico dei cliché fiabeschi. Il merito, la favola calcistica, il Benevento che batte la Juve, il Catanzaro che sogna la serie A, il ragazzino che sistema i propri scarpini bucati e immagina lo spartano rumore di 60000 tifosi invocanti il suo nome sono tutte realtà da proteggere. I cambiamenti non sono il male da stigmatizzare, rappresentano spesso opportunità di crescita e miglioramento, a patto che le condizioni siano collaborative. L'amnistia è possibile solo se si decide di rimettere al centro del villaggio il pallone, il movimento, i giovani, i tifosi e tutto il macro-mondo dei valori, concetti che come ho già esasperatamente espresso non sono quantificabili né tantomeno acquistabili. La necessità di uno snellimento dei format e di un meccanismo che concili meritocrazia sportiva ed economica può essere la giusta strada da seguire per ricucire lo strappo, con la possibilità di considerare la Superlega come un evento fra club al pari dei Mondiali, a cadenza magari biennale o quadriennale, come il risultato della summa competitiva di tutto il movimento calcistico europeo, finalmente rivisto e fixato nei suoi punti più critici.

A favore di chi sputa sangue e sudore. Populismo e qualunquismo abbondano nelle righe di questo testo? Pazienza, perché la genuinità è un tratto che non si può contenere, soprattutto se l'argomento da trattare è intriso di passione. Il mio modesto pensiero non va a quei dodici club, né tantomeno alle minacce dell'Uefa. La guerra, le vagonate di triliardi da fondere, la kermesse e il salottino buono sono ai margini, fenomeni relativi, materialmente stracolmi ma concettualmente vuoti e persino offensivi in un momento storico dove il calcio, per quanto "raison d'etre" di molti, potrebbe anche essere parzialmente messo da parte. La stanza dei bottoni non conosce il sottostrato sociale che sorregge gli attici di questo sport: genitori che stentano a sbarcare il lunario, ma che fanno l'impossibile e l'improbabile per garantire ai propri figli il sostentamento del sogno calcistico, i tifosi che si indebitano (ingiustamente) per strappare un abbonamento allo stadio, le trasferte organizzate in collettivo per spartire i costi del viaggio, i magazzinieri, le difficoltà di chi gioca tra i dilettanti, tra stipendi ridicoli e mancati pagamenti: e potrei continuare all'infinito, fino ad organizzare una "fiera dell'ovvio e del luogo comune".
Ma personalmente non mi tange, perché in cuor mio tutto questo guazzabuglio di parole vale n volte di più delle capitalistiche motivazioni di chi abbraccia soltanto i propri interessi economici. Chissà cosa ne penserebbe l'Avvocato o i fratelli Eugenio ed Enrico Canfari... forse se Andrea si risiedesse anche solo per un istante sulla panchina pubblica dei "veri fondatori" capirebbe molte cose che in questi mesi gli sono lunaticamente sfuggite.

Salvatore Zarrillo