Scritto con la mia fidanzata Alice

Il gioco del calcio è, alle volte, tremendamente meschino. Anni e anni passati ad allenarsi, a correre dietro un pallone, inseguendo i propri sogni, vanificati da un singolo istante, che ci ricorderemo per tutta la vita. Una scivolata sconsiderata di un giocatore avversario, uno scontro troppo violento, e tutto potrebbe essere finito: una tibia spezzata, un legamento crociato rotto, un sogno infranto. Ma il calcio è anche tanto altro: storie di povertà sconfitta, di felicità raggiunta, di aiuto per il prossimo. Per tutte quelle persone che seguono il calcio solo via radio, nei giorni fortunati via televisione, il gioco del calcio è salvezza, un momento di intimità con il proprio animo, sbattuto costantemente dal violento tornado della vita. In Brasile, migliaia di famiglie disperate ripongono le proprie speranze di ricchezza nei giovani figli: un vero e proprio plagio psicologico, che ne limita fortemente la libertà di scelta. Vi sono però genitori che lavorano anche 15 o 16 ore al giorno, per garantire ai loro figli un pallone, alla volte un paio di scarpini, nei casi più fortunati la retta di un’accademia calcistica di basso lignaggio, così da salvarli dalla criminalità che imperversa come un fiume in piena per le favelas. Questi ragazzi si allenano duramente, diventano amici e crescono insieme, attraversando le più importanti fasi della crescita lontano dalla famiglia, che spera riescano a realizzare il loro sogno: diventare calciatori professionisti. E, magari, vestire la maglia della loro nazionale. Tuttavia, le Moire del calcio non sempre tessono un destino felice, come ci deve ricordare l’incendio avvenuto nell’accademia del Flamengo, una delle più importanti del Paese, dove sono morti 10 baby-calciatori, arsi vivi insieme ai loro sogni. Una delle più grandi tragedie della storia del calcio, che ha profondamente toccato il centrocampista Paquetà, militante in Serie A e cresciuto proprio nel vivaio rossonero (del Flamengo, ndr). Il dio del calcio in questi ultimi anni sembra aver sfogato la sua rabbia sul Brasile, che pochi anni fa è stato anche duramente colpito dal catastrofico incidente del volo LaMia 2933, dove sono morte 71 persone, facenti soprattutto parte della squadra del Chapecoense, che stava per affrontare la finale delle Coppa Sudamericana. Un sogno spezzato bruscamente. Superata questa tragedia, grazie alla perseveranza dei giovani e al sostegno dell’intero mondo calcistico, oggi il Chape è ritornato, più forte che mai. Inoltre è nato un magico e nostalgico sodalizio fra la squadra brasiliana e il Torino FC, in onore della duplice tragedia che ha colpito i due club. Proprio come comanda il dio del calcio: nulla è perduto, tutto ciò che prima ti è tolto poi ti è ridato. Andrea Conti e Arek Milik ne sanno qualcosa: due talenti in rampa di lancio, l’uno affermatosi a Bergamo come terzino goleador, l’altro ad Amsterdam come uno degli attaccanti più promettenti della sua generazione, brutalmente fermati da un infortunio al legamento crociato. Ristabilitisi, la sfortuna si abbattè un’altra volta su di loro: ancora un infortunio, ancora al legamento crociato. In pratica, due anni passati tra infermeria e fisioterapia, sperando di svegliarsi da un incubo che li teneva incatenati ad una poltrona, mentre vedevano i loro compagni esultare per una vittoria o piangere sconsolati per una sconfitta. Ma da qualche mese a questa parte, il sole sembra essere tornato in casa Conti, che sta ritrovando la continuità persa in questi due anni, anche se si è ancora lontanissimi dalle sensazionali prestazioni offerte all’Atalanta. Mentre, dall’altra parte della penisola italiana, dove il sole splende sempre, alle volte ombreggiato dal Vesuvio, il bomber polacco Milik sta letteralmente trascinando il Napoli a suo di goal e prestazioni clamorose. Due vite separate, incrociate dalle abili tessitrici del destino.

Chi è il dio del calcio? Una domanda apparentemente senza risposta, ma che nasconde in sé molte implicazioni religioso-filosofiche. Innanzitutto, questa entità non ha creato il gioco del calcio, ma ne ha fatto parte dalla sua nascita fino ad oggi, condizionandone gli eventi cardine, regalando gioie e dispiaceri ai tifosi, determinando ciò che doveva e non doveva accadere. Il Maracanazo non sarebbe mai avvenuto, se il dio del calcio non avesse voluto far piombare l’intero Brasile in un profondo lutto. Astori e Morosini non sarebbero mai morti, se solo il dio calcio lo avesse voluto. Ma c’è un entità che gli è persino superiore: il destino. Quel destino inevitabile, che non solo definisce le vite degli uomini, ma le spezza a suo piacimento, come un sarto spezza gli esili fili di un’intricata stoffa. Eppure, c’è ancora qualcosa: il caso. Una via incidente al destino, che ne stravolge completamente i piani. Quindi siamo noi uomini a poter cambiare il nostro destino? No, è il caso che lo fa per noi. Ma chi è quindi il dio del calcio? Non è nessuno ed allo stesso tempo è tutto. Come noi uomini, in fondo. Lo stesso Pirandello, nel suo romanzo “Uno, nessuno, centomila”, indaga le radici della psiche umana, cercando di capire il perché di questa personalità multiforme che caratterizza l’essere umano, andando continuamente a sbattere contro un muro, chiamato pensiero. Anche l’inventore della psicanalisi, Sigmund Freud, anticipando lo scrittore italiano, tenta di analizzare, con metodo scientifico, i sentimenti e le emozioni, scoprendo vari aspetti della mente umana fino ad allora sconosciuti e ignorati. Anche se, come Pirandello, arrivato ad un certo punto, ha trovato sulla sua strada un ostacolo insormontabile: il pensiero umano. Che ancora oggi non si è potuto studiare, semplicemente perché è impossibile farlo. Ma allora il dio del calcio è un’entità sovrannaturale? No, il dio del calcio è l’insieme dei pensieri degli uomini e continuerà a sussistere fino a quando gli uomini penseranno che esista. “Cogitito me, ergo sum” tradotta in italiano come “pensatemi, quindi sono”, una frase di Cartesio che mi permetto di modificare in funzione del mio discorso, che riassume l’unica e indispensabile condizione di esistenza di cui necessità il dio del calcio, cioè la sua presenza nella nostra mente. Altrimenti svanirebbe per sempre, dissolvendosi come la nebbia al diradar della mattina. Un fatto che è sempre più vicino all’avverarsi, vista la continua crescita dell’ateismo calcistico, vera e propria corrente neo-illuminista nel mondo del calcio, che si sta abbattendo come una tempesta sull’albero della divinità calcistica. Un concetto radicato nelle nostre menti, che però non rappresenta nulla, nei fatti, e in ciò risiede la sua debolezza. Una divinità che regola il mondo del calcio esiste, ma è solamente l’intricato insieme dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. Quindi, una partita è determinata dal dio del calcio? Sì. E chi è il dio del calcio? Il nostro pensiero. Quindi il dio del calcio esiste? Sì. Ma non possiamo in alcun modo conoscerlo e studiarlo, perché è un’entità talmente astratta da superare le barriere della mente umana, sfidando ogni regola logica e scientifica, ma, allo stesso tempo, ne è una presenza fissa. Quindi possiamo solamente crederci e sperare che sopravviva, mantenendo così il calcio avvincente e misterioso, non rendendolo solamente lo strumento di guadagno di persone senza scrupoli, disposte a tutto pur di far emergere il loro dio. Il dio denaro. Ma noi tifosi dovremo resistere, ancorati alle nostre arcaiche credenze, per salvare il gioco che amiamo.

Perché il calcio è salvezza. Il calcio è vita. E sì, il calcio ha il suo dio.