Nella finale di Champions League il Liverpool ha battuto 2-0 il Tottenham laureandosi campione d'Europa, consacrando Jurgen Klopp tra i migliori allenatori della storia calcistica contemporanea e condannando invece Mauricio Pochettino all'etichetta di perdente stellato. Il tecnico tedesco ex Borussia Dortmund è riuscito a spezzare la maledizione che lo vedeva protagonista in una striscia di tre sconfitte in altrettanti finali di coppe europee, riuscendo a scrivere una pagina tutta nuova della propria carriera, mettendo da parte per una volta il sorriso sarcastico che lo ha reso famoso, lasciandosi andare ad una gioia senza precedenti. Al contrario l'allenatore argentino non aveva mai disputato un match di tali proporzioni in termini d'importanza, in quanto questa edizione di Uefa Champions League ha testimoniato per la prima volta le notevoli potenzialità di quest'uomo dalle immense risorse.

Il racconto del match

È stata una partita senza esclusioni di colpi dal punto di vista fisico, con entrambe le formazioni che non si sono certamente risparmiate, come dimostrano le botte riportate a fine gara da ambo le parti: ma quando non c'è un domani ad aspettarti, quando l'inesorabile scorrere del tempo batte rapido il suo continuo ticchettio, molte volte è la paura a prendere il sopravvento, giocando un ruolo predominante sulla scena. Nella prima frazione nessuna delle due compagini è riuscita a scuotere le emozioni sugli spalti del Wanda Metropolitano, fatta eccezione per il rigore messo a segno da Salah, unico momento in cui il cielo si è dipinto interamente di rosso, senza lasciare spazio all'orgoglio avversario.

Il timore ha sicuramente agito da freno sulla fantasia e l’estro di quasi tutti gli uomini migliori scesi in campo nella notte di Madrid, i quali hanno deluso le aspettative degli spettatori, che avevano probabilmente previsto di assistere ad uno spettacolo completamente diverso: esclusione doverosa riguardo all’invasione di campo che sulla metà del primo tempo ha infiammato momentaneamente la serata, con il pubblico ad applaudire la percussione fino al centro del campo da parte di una ragazza che l’Uefa ha preferito non inquadrare per più di un secondo.

Nella seconda frazione poca è stata la differenza, con il Tottenham che iniziato a spingere un po' di più sull’acceleratore a causa dello svantaggio, ma tale canto del cigno si è infranto miseramente sulla barriera erta da Van Dijk e compagni, sorretti anche dalle sostanziose parate della saracinesca Alisson. Giochi che si sono definitivamente chiusi al minuto 87 con il diagonale vincente di Origi, tagliente come la lama di un samurai che trafigge il cuore degli Spurs, spegnendo inesorabilmente l'ultima fiammella di speranza rimasta ancora accesa per i londinesi.

Un messaggio importante

Tra le fila degli sconfitti c’è però un ragazzo con la maglia numero 7 sulle spalle, che nonostante ad un certo punto la propria squadra sia sotto 2-0, continua ad insistere senza mollare un centimetro: si tratta di Son, l’uomo del quarto di finale mozzafiato vinto contro il Manchester City, il vento della Sud Corea che riuscì a spazzare via l'obbligo della leva militare, lui che ha lottato tra mille difficoltà per inseguire il proprio sogno, per dare un senso alla propria carriera.

Probabilmente il Tottenham non meritava di vincere, ma la forza di volontà e l’impegno di chi ha voluto rimanere in piedi fino al fischio finale non passano mai inosservate di fronte a chi ha assaporato anche l'amaro sapore di una sconfitta: l'abbraccio iconico nel post partita tra Jurgen Klopp e Heung-Min Son racconta di come la vita riesca a volte ad unire entrambi i volti della medaglia, con il vittorioso che rincuora il perdente, in una fusione meravigliosa che andrebbe riportata come messaggio a tutti coloro che si gettano profondamente nel pieno di questo sport.

Qualcuno disse che vincere è importante, per i più è sinonimo dell’unica cosa che conta, ma l’esperienza insegna ogni giorno che non esiste modo migliore per godersi un successo se non quello di aver conosciuto e vissuto la dura realtà di una sconfitta, poiché è nella sofferenza più buia che si apprende l'arte del rimettersi in piedi per ricominciare più forti di prima.