Sembra di rivivere lo stesso tipo di film. Chiamiamolo remake, perché nulla potrà essere uguale all’originale. Lo diceva Walter Benjamin e lo scriveva nel suo libro L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un filosofo affascinante, che troviamo anche oggi. Lui non c’è più, ma i suoi scritti, le sue frasi, le sue parole, permangono, e sono tatuate nel periodo storico attuale e in quelli a venire. E questo fantomatico remake avrà delle conseguenze differenti. Alcune già si stanno dispargendo nelle frange della nazione, altre, invece, sembrano destinate ad arrivare in un tempo relativamente breve.
Siamo alle soglie di un ennesimo lockdown, quello a cui nessuno credeva, nemmeno i peggiori catastrofisti e pessimisti di questo pianeta. Io in primis non ci credevo. Non credevo al fatto che il governo potesse compiere un atto del genere. E se non sarà un vero e proprio lockdown, chiamiamolo lockdown mascherato, perché a me pare essere descritto nella stessa forma, soltanto sotto vesti differenti.

Siamo di fronte ad una presbiopia morale, un difetto della percezione che permette di mettere a fuoco il problema solo allontanandolo da sé e dalle proprie più dirette responsabilità. Un’illusione ottica conveniente.

Non è andato tutto bene

No, assolutamente no. Abbiamo infarcito i nostri balconi di striscioni strappalacrime con scritto andrà tutto bene, coadiuvato da milioni di arcobaleni che sembrassero circoscrivere quelle parole di una patina ancora più emotiva; abbiamo tirato fuori casse abnormi e sedimentate sulle nostre balconate, solo per sentirci parte di un tutto e per richiamare un’unità nazionale; abbiamo preso microfoni e dato adito alle nostre abilità canore, che non le possedevamo, ma non importava nulla, perché stavamo vivendo un momento unico al negativo, e la cosa fondamentale era sentirsi una Nazione vera, forte e solidale; abbiamo scoperto cose a cui prima non facevamo caso, solo perché abbiamo convissuto oltre la soglia dell’ossessione dentro le nostre mura domestiche, magari scoprendo stanze che fino a quel momento non sapevamo esistessero; abbiamo ubriacato i nostri fratelli, figli e nipoti di disegnare su un foglio o anche su teli bianchi la frase andrà tutto bene, inconsapevoli e sprovveduti su quello che riserverà il loro domani. Bello, commovente e apprezzabile.

Ma io non ci ho mai creduto. Non perché voglio essere il pessimista di turno, ma perché spesso viaggio poco con la testa e sono più realista e pragmatico. Ero sicuro che quella scritta non sarebbe durata oltre la soglia di poche settimane. E quindi? Quindi è ritornato indietro tutto come un boomerang. E quello che abbiamo conosciuto nel pieno del lockdown è stato disperazione, orrore e tanta irrequietezza. Abbiamo ritirato in poco tempo gli striscioni, perché bastava un diluvio per sbavare quelle parole e spazzare via la speranza di quell’arcobaleno; abbiamo cessato di cantare fuori i balconi, perché ad un certo punto hai rotto le palle di cantare tutto il pomeriggio, la gente vuole riposare; abbiamo smesso di cucinare a casa, perché va bene un giorno, vanno bene due, va bene un mese, ma poi anche meno; abbiamo smesso di cantare Fratelli d’Italia, perché avevamo superato il limite della sopportazione anche con chi coabitava con noi, genitori, fratelli e nonni che siano; abbiamo smesso di credere e abbiamo fatto i conti con la realtà, tra persone che avevano perso il lavoro, tra gente che aspettava e aspetta ancora la cassa integrazione e tra uomini che hanno deciso di spendere gli ultimi averi che possedevano da parte per prendere una pistola e di farla finita.

Ci siamo digitalizzati

Abbiamo perso i contatti sociali e abbiamo dovuto ottemperare al problema. Videochiamate, lezioni a distanza, smart working. Tutto è cambiato in un baleno. Son bastati due mesi per adattarci ad un nuovo modello di vita, che, a mio modo di vedere, non si ristabilizzerà come prima della scoperta di questa maledetta malattia, ma continuerà ad esistere. I nostri giorni della settimana, scelti come impegno per vederci con i nostri amici al pub di fiducia, si sono sostituiti rapidamente con un computer, una presa elettrica e delle cuffiette con un microfono. Alcuni hanno sdrammatizzato con una birra o con un alcolico vicino, ma è andata così. Per alcuni è stata una sofferenza, per altri è stata la scoperta. Ed ecco che tutti i nostri scambi sociali, sono diventate connessioni a banda larga. Ci siamo digitalizzati e continueremo a farlo.

Ma anche i tifosi si sono digitalizzati (troverete sulla mia pagina personale un articolo).
Dapprima nelle grafiche televisive, così, tanto per non farci vedere il deserto tra gli spalti, come per nasconderci la realtà, come se fosse troppo dolorosa per i nostri occhi. Poi, ci siamo digitalizzati noi. Abbiamo scoperto la comodità dello starcene a casa, sul divano, anche da soli privi di amici. Ma i risultati, per quest’ultima ipotesi, si conosceranno con il tempo, non adesso. Adesso non è possibile nemmeno andare allo stadio, se non per quei pochi fortunati, di cui molti meritevoli. Anzi no, perché ora si giocheranno a porte chiuse. Ma gli imprenditori lo sanno, non sono impulsivi. I Friedkin, per esempio, stanno temporeggiamento con lo stadio: che senso ha costruirne uno nuovo, senza avere la certezza della sua pienezza?

La crisi dei saperi esperti

Non è un fenomeno recente. Solo che abbiamo avuto modo di conoscerlo proprio in questi nostri mesi di vita. Cosa sono i saperi esperti? Quelli a cui diamo fiducia quotidianamente: professori, virologi, epidemiologi, insomma, tutti i professionisti nei loro rispettivi campi. Tutti sotto l’ombrello della scienza, di una comunità scientifica. La loro comunità scientifica. E a cosa siamo andati incontro? Ad una crisi, perché ognuno dava un proprio parere, una propria interpretazione di quello che accadeva, fino a stravolgere letteralmente i punti di vista. Durante il lockdown abbiamo assistito a coloro che prevedevano una seconda ondata in autunno e coloro che davano il nemico già per spacciato, con prime pagine di giornali intitolate il virus è morto.

Questa è la crisi. Se c’è una divisione in ambito scientifico, proprio quello che dovrebbe confermare un sapere unico, come si può riporre fiducia in loro? Come si può comprendere la vera situazione, se i salotti politici e i programmi contenitori, utilizzati per amplificare le loro voci, c’è afferma una verità e chi un’altra? Cadiamo negli interrogativi e proviamo a costruirci una nostra verità.

La cosa peggiore è stata veder diventare “famoso” qualcuno che doveva prendersi una propria responsabilità. Come la signora di Mondello, diventata celebre sui social per aver detto non ce n’è Coviddi. Giusto, perché siamo un Paese che premia chi dice stronzate e fa tacere chi ci dice la verità. Che prova a dire la verità. Perché siamo un Paese del nascondiamoci dietro qualche risata invece di fare a schiaffi con la tangibilità, con ciò che ci circonda veramente, perché sarebbe troppo complesso uscirne vincitori. Quindi, ci ritiriamo già in partenza, senza presentarci sul campo di battaglia.

I medici: gli unici eroi

Ecco, non prendiamoci meriti che non sono nostri. A noi è stato chiesto di restarcene a casa durante i mesi di chiusura e adesso di non uscire se non per comprovati motivi. Gli unici eroi sono i medici che quotidianamente hanno indossato la mascherina, anche nei pochi momenti cui era concesso loro di tornare dalla loro famiglia. Se la sono tatuata e non l’hanno mai tolta. Loro hanno impugnato la spada e hanno combattuto contro un nemico gigantesco. L’ho scritta al passato, ma mi duole cambiarla al presente. Perché è ancora così. E c’è chi tutti i giorni lavora per trovare una cura, un antidoto a questo flusso continuo, ma che non viene riconosciuto: come Alessia Lai, ricercatrice che aveva isolato il virus a marzo, che possedeva ancora un contratto precario.

Invece, questo appellativo, se lo sono presi tutti. Ce lo siamo presi noi per aver sopportato di esser stati rinchiusi dentro quattro mura; se lo sono preso persone che hanno speso solo due parole per allontanarci da una condizione di disfatta morale; se lo sono preso chi abitava le discoteche e chi le apriva, perché il virus era morto e perché è meglio infetti che infami; se lo sono preso i negazionisti, quelli che andavano in piazza a protestare contro il governo che li obbligava all’uso delle mascherine, ma alzavano la voce con le mascherine addosso; e sempre i negazionisti, che inneggiavano contro l’ordine dei medici, ma quando in piazza si era sentita male una persona, non si sono fatti scrupoli a servirsi dell’ausilio dell’ambulanza; se lo sono preso i politici, specie quelli dell’opposizione, egoisti fino al midollo, perché fomentati dagli elettori da tastiera.
Se lo sono presi tutti e gli unici che davvero avrebbero dovuto prenderselo, non se lo sono preso. In silenzio, stanchi, distrutti, ma sempre con un’energia che forse deriva dal famoso giuramento di Ippocrate. Dico forse, perché non è un giuramento: se si nasce eroi, si muore da eroi.

Una gestione imbarazzante

All’inizio potevano essere giustificati. Tutti ci trovavamo dinnanzi ad un mostro mai incontrato prima d’ora e che ha irrotto nelle nostre porte senza nessun preavviso. Ci sono stati anche altri casi di pandemia nella nostra storia, è vero, ma quando un fenomeno si verifica inaspettatamente, non è facile fermare una diga esplosa. Specie se così silenziosa e potente allo stesso tempo. Le misure sono state drastiche ma comprensibili allo stesso tempo. Non si poteva agire con scelleratezza: chiunque lo aveva fatto, è ritornato sui propri passi. Tranne il modello svedese, fallimentare dal principio, che continua ad aumentare rovinosamente il numero di morti e di malati.

Ci siamo adagiati d’estate. Ma già lì, la gestione non fece impazzire. Quando Conte disse che non aveva mai dato l’ok per le discoteche, ma che le Regioni avrebbero deciso di propria autonomia, fu una considerazione folle, malsana. Anche lì è mancato il senso di unità nazionale. Da lì è iniziata la trafila di divisioni e di festini per esultare su un virus sconfitto. Sconfitto no, ma di certo lo abbiamo rievocato noi. Lo abbiamo fatto attraverso la leggerezza e la superficialità; ci siamo affidati a qualche millantatore che predicava la fine della malattia; ci siamo adagiati sulle allodole, specie quando il bollettino delle 18 non parlava più e il Ministero della Salute dava dei numeri rassicuranti.

Ma si è adagiato anche chi stava al governo. Hanno avuto mesi per pensare, per decidere, per avere una preparazione consona a chi invece gridava a gran voce alt! Arriverà la seconda ondata. Hanno avuto un tempo infinito, inesorabile. Si sono dotati di un esercito numeroso, ma che alla fin fine si è dimostrata un’amata Brancaleone. Anziché studiare a sufficienza, hanno aspettato questa famosa seconda ondata a braccia aperte, che di certo, non era imprevedibile. Questa volta era auspicabile, specie dopo la riapertura totale di questa estate. E com’è andata a finire? A quello che vediamo oggi: dpcm repentini, basti pensare che è il terzo (quest’ultimo) dal 13 ottobre, misure drastiche che si potevano evitare tranquillamente e rivolte in piazza che, a mio modo di vedere, saranno sempre più frequenti e aggressive. I numeri in terapia intensiva aumentano, ma non si è fatto nulla per provvedere a ciò. Dovevano essere raddoppiate rispetto alle seimila della pandemia. Non sono aumentate nemmeno di duemila unità e adesso sono coperte al 21%, quando al 30% scatta la soglia del valore limite per mantenere una sana gestione.

Anche qui, come in tutto, siamo di fronte ad una presbiopia morale. Si è passato il tempo a scaricare le responsabilità quando tutti, alla fine, ne possediamo un po’. Ma, orgogliosamente, anziché esserci rimboccati le maniche, abbiamo spalancato la bocca e abbiamo parlato senza sapere.

Il calcio non potrà salvarci per sempre

E mentre tutto chiude, il calcio, quello professionale, quello del business e dei soldi che viaggiano a velocità supersoniche, continuerà. Non ci saranno nemmeno i mille ad assistere e a rendere meno tetro lo scenario che circonda i giocatori. Ci saranno partite a porte chiuse, in uno sport dove il virus viaggia e continua a viaggiare a vele spiegate. Ma hanno chiuso cinema e teatri, dove si era registrano un solo caso in centinaia di migliaia di persone che vi hanno partecipato. E proprio quel calcio, che sembrava aver salvato un’estate differente, non ci salverà un’altra volta. Come l’alcol, annegheremo le nostre inquietudini e pensieri negativi che ci attanagliano la mente, lì dentro, semplicemente osservando 22 giocatori che danno dinamicità ad una sfera.

Ci renderanno felici per novanta minuti, a patto di vedere la nostra squadra vincere o di recuperare una partita in extremis, altrimenti, renderanno ancora più nere le giornate a venire. Nere come i portafogli dei ristoratori, in cui lo stesso Premier ha affermato che vedranno i loro conti bancari avere un’iniezione di liquidità nell’immediato, ma non dimentichiamoci che per la cassa integrazione ci ha voluto dare una mano uno dei siti pornografici più famosi, perché i nostri avevano dichiarato default.

Chiudono palestre, piscine, sale da ballo. Quelli che avevano investito tanto per garantire a tutti di parteciparvi; quelli che avevano gestito un rispetto delle norme commovente e in totale sicurezza. Rimangono aperti quelli professionali, dove si salutano con il gomito, ma poi si baciano e abbracciano.

Si chiude quello che non si dovrebbe e si lascia aperto quello che dovrebbe chiudere. Siamo un Paese che va a correnti invertite, preferendo una strada contromano piuttosto che una dove è possibile circolare legalmente. Lo è stato negli anni cinquanta, quando la televisione dovette prendere le veci della scuola. Lo è adesso, quando il calcio sembra prendere per mano i nostri sentimenti e condurci verso quel filo di distrazione.
Ci ha salvato questa estate, ma non ci salverà di nuovo. Il calcio non potrà salvarci per sempre.