Olivia ha 7 anni. Di solito a quest’età i bambini cominciano a dedicarsi, parallelamente agli studi, ad una o a più attività extrascolastiche: corsi di musica, discipline sportive, corsi di lingua straniera. E spesso figli e genitori optano per lo sport. E non solo perché lo sport contribuisce allo sviluppo fisico del bambino, ma anche perché nelle palestre, sui campi da gioco e nelle scuole di danza si creano dinamiche e interazioni che hanno un impatto anche sulla maturazione personale del bambino. Questi sono i luoghi, insieme alla scuola, in cui i bambini cominciano a relazionarsi con i propri pari, dove cominciano a fare i conti con le proprie insicurezze e dove, studiando gli altri, imparano a conoscere se stessi. Inoltre sono luoghi dove si dovrebbe sviluppare la socialità dei bambini, dove si dovrebbero insegnare loro i valori dell’uguaglianza, del rispetto e della meritocrazia. E uso il condizionale, non a caso.
Infatti, tornando a Olivia, lei ha da poco sperimentato che quello che dovrebbe essere, spesso non è. Olivia ha già scelto la sua attività extrascolastica, il calcio. Ma il centro sportivo di Trastevere a cui si è rivolta le ha negato l’iscrizione senza addurre nessuna altra spiegazione se non quella che il calcio è uno sport solo per maschi, e che sono tante altre le discipline sportive cui può accedere una bambina: volley, ginnastica, danza, nuoto, arti marziali. Ma il calcio proprio no, e resta incomprensibile la motivazione. Infatti non esiste un regolamento che vieti la formazione di gruppi misti fino ai circa 12 anni, quando poi, per ragioni di sviluppo fisico, vengono formate squadre maschili e femminili. Nel frattempo Olivia non demorde. “Adoro molto il calcio e sono pure forte, ma non capisco perché la scuola sotto casa fa giocare i maschi e non le femmine”. Scrive così Olivia nella sua lettera al quotidiano la Repubblica, che è stato addirittura accusato di sensazionalismo solo per aver dato risalto alla notizia. Tuttavia la sua richiesta di aiuto sembra sia stata raccolta dal movimento calcistico femminile italiano. Infatti Alia Guagni, difensore azzurro, sempre sulle pagine di Repubblica risponde ad Olivia: "Dicevano che lo sport che noi amiamo non è un gioco da ragazze. Ma io non gli ho creduto".

E non gli ha creduto neanche Stéphanie Frappart, primo arbitro donna a dirigere una partita maschile in Champions League. E’ accaduto in Juventus-Dinamo Kiev, match disputatosi all’Allianz Stadium lo scorso 2 dicembre. Novanta minuti di attenzione e intensità per la 36enne transalpina che – complice anche la correttezza delle squadre in campo – ha lasciato giocare molto garantendo fluidità alla partita. Pochi interventi ma decisi, come ad esempio i primi due gialli ad inizio partita quasi per mettere subito le cose in chiaro. Niente da ridire, infine, sui due episodi più delicati del match: la trattenuta in area di rigore di Bonucci e il gol del raddoppio di Cristiano Ronaldo. Un ottimo esordio, quindi, per colei che si era già distinta nella finale di Supercoppa europea del 2019 tra Liverpool e Chelsea. In quel dopopartita la Frappart aveva dichiarato: «Abbiamo provato che tecnicamente e fisicamente siamo come gli uomini. Non abbiamo paura di sbagliare. Sono felice, per me è stata davvero una sorpresa, non mi aspettavo di poter dirigere la Supercoppa europea, è un grande onore. Spero che il mio esempio serva per tutti gli arbitri donna e per tutte le ragazze che aspirano a fare questo lavoro». E speriamo che l’esempio della Frappart sia da stimolo anche per la giovane arbitra sedicenne che a gennaio di quest’anno, durante un incontro dilettantistico a Sava in provincia di Taranto, è stata oggetto di insulti sessisti da parte di un gruppo di genitori (tra cui anche donne) che l’hanno presa di mira sin dal fischio d’inizio, urlandole contro offese e ingiurie. A detta dei presenti,  la ragazza, però, nonostante il clima ostile, è rimasta con la testa dentro la partita fino al novantesimo minuto, rispondendo con professionalità e una certa dose di coraggio al vergognoso e ripudiante spettacolo che proveniva dagli spalti.

Più recente, invece, il linciaggio sul web di cui è stata vittima Elisabetta Esposito, giornalista della Gazzetta dello Sport. La reporter stava seguendo l’inchiesta sui tamponi ai calciatori della Lazio, sulla cui attendibilità tra l’altro sta indagando anche la magistratura. Ma evidentemente il suo lavoro ha dato fastidio. Sono iniziati così gli insulti e le minacce sui social da parte di una frangia della tifoseria laziale, sfociati in appellativi irripetibili e accuse ingiuriose.

Da che mondo è mondo, ma purtroppo in Italia più che altrove, arbitri e giornalisti sono oggetto di scherno e offese. Entrambi, per il semplice fatto di fare il loro lavoro, si trovano, spesso loro malgrado e in alcuni casi commettendo degli errori, a ledere gli interessi dell’una o dell’altra parte; con le loro azioni rischiano di far contenti alcuni ma di scontentarne altri, venendo da quest'ultimi accusati di imparzialità; si assumono il rischio di dare un giudizio attirandosi così le ire, e a volte le minacce di chi da quel giudizio si sente penalizzato. Tuttavia quando si parla di donne, gli esiti sono ancora peggiori. L’insulto, la minaccia e l’offesa assumono i toni della violenza sessista e dell’atto discriminatorio. Così come è discriminatorio rifiutarsi di accogliere una bambina di 7 anni ad una scuola calcio per il semplice fatto di essere femmina.

E’ innegabile che siano stati fatti dei passi in avanti e che sport come il calcio, storicamente appannaggio degli uomini, ormai si sia aperto anche alle donne. Tuttavia gli esempi sopra citati sono la riprova che la strada da percorrere è ancora lunga. Le donne nel mondo calcio (e purtroppo non solo in quello), a prescindere dal ruolo che occupano, spesso sono guardate con diffidenza, vengono trattate con un misto di sufficienza e di paura e quando vengono criticate - atto di per sé assolutamente legittimo - purtroppo l’attacco sconfina troppo spesso nell’odiosa volgarità.
Mi sento comunque di poter rassicurare Olivia perché sì, le cose stanno effettivamente cambiando. E questo grazie a donne come Stéphanie Frapper ed Elisabetta Esposito che, con la professionalità e con la qualità del loro lavoro, nonché con il coraggio e la perseveranza (requisiti richiesti a tutti, ma evidentemente in dosi maggiori alle donne), dimostrano di poterci stare nel calcio, e a pieno titolo.
Olivia, non credere neanche tu a chi ti dice che il calcio non è un gioco per ragazze: il calcio è di chiunque sappia giocarlo, arbitrarlo e raccontarlo.