Lo ammetto, in questi giorni mi risulta difficile scrivere un qualsiasi pezzo. Non voglio sostenere che io non stia facendo altro che pensare alla triste vicenda di Astori, ma di certo non mi ha lasciato inerme e indifferente.
Vedere che molti compagni, amici, avversari, allenatori hanno espresso la propria tristezza mi ha contagiato, e mi sono sentito rattristato anche io da una storia simile, pur non essendo di Firenze, e nemmeno tifoso della Fiorentina. Tutto questo, tutto quello che è successo, e a mio avviso anche quello che avverrà, ci fa capire quanto poco in realtà noi sappiamo dei calciatori, piuttosto che del calcio: non siamo negli spogliatoi, a cena con loro, in ritiro; non possiamo sapere se per un motivo o per l'altro, come qualsiasi altra persona, non riescono a dare il massimo. Non ci troviamo nelle loro condizioni, e non possiamo davvero sapere come vadano le loro cose, o cosa siano le loro cose, cosa pensino, cosa siano costretti a fare. Non voglio dire che la loro vita sia la peggiore, la più difficile e complessa, ma che la loro, come quella di tutti è la loro, e che pertanto come comprendiamo le difficoltà di chi ci sta vicino, o come non ci permettiamo (o dovremmo permettere) di giudicare in modo impulsivo la vita degli altri, così forse dovremmo fare anche con loro. Nonostante il tifo, e nonostante le prestazioni.

Eppure, quando ci mettiamo di fronte alla tv, o allo stadio, tutti noi tifosi pretendiamo in modo inflessibile, con il nostro carico di pop corn, patatine, bibite e birra in quantità nettamente inferiori ai consigli dei quali ci facciamo portavoce, che loro, come macchine, debbano essere perfetti, sempre pronti, infallibili, come se nulla fosse, come se non ci fosse nulla al di fuori di quello che noi vediamo.
Li vediamo giocare, e ci aspettiamo di poter insegnare loro i movimenti, le scelte da fare in campo, la difesa, la tattica, la tecnica, come attaccare gli spazi, come marcare, l'alimentazione, la destinazione futura, o prossima, il ruolo in campo più adatto e magari anche le persone da frequentare o da non considerare. Loro, incapaci come sono, di vedere che tutto quello che fanno in realtà è sbagliato. Imprechiamo perché hanno fatto un tocco in più, perché hanno perso l'uomo, perché non sono capaci di capire che quel movimento non lo devono fare, e che sarebbe meglio per loro cambiare squadra, e magari andarsene lontani, lontano dal cuore, lontano dagli occhi, ché occhio non vede e cuore non duole. Da una parte noi con la nostra pretesa di comandarli come con il joystick di una console, loro con sole le loro forze dall'altra, se ne hanno in quel momento. Siamo tutti tifosi e se sbagliano, è vero, ci fanno arrabbiare: dobbiamo pur spronarli no? Ma non è solo questo: i primi ad arrabbiarsi immagino siano loro. Il problema è nel momento in cui non ci domandiamo più perché alcuni possano sbagliare, o possano trovarsi in difficoltà, perché non riescano a dare il meglio; il problema è nel momento in cui, ubriachi di tifo, non riconosciamo che loro come noi hanno una vita, una vita da calciatori invidiata da chiunque, di sicuro, ma che non può essere costantemente giudicata da migliaia di persone. Una vita che forse in molti casi sono più costretti a mostrare piuttosto che vivere.

La cosa che mi ha colpito molto di questo triste episodio è stato il fatto che tutti gli amici, compagni, avversari e allenatori non hanno dimostrato la loro vicinanza come calciatori, ma piuttosto come delle semplici persone, delle persone qualsiasi e che finalmente, vedendo questo pubblico così triste e addolorato, un pubblico che pretendiamo costantemente di controllare, talvolta pure di insultare, in molti abbiamo capito che sappiamo fin troppo di calcio, e troppo poco dei calciatori