Cantami o’ Musa l’epoca delle grandi vittorie. Narrami di ciò che accadde in quelle due decadi laminate d’oro ove la penisola, che dello stivale porta la forma, fu colma di trofei e nobili titoli. Inebria i sogni dei pueri, decantando loro le gesta delle nostre compagini, che dell’Europa furono fiere imperatrici e, dal cui trono, caddero miseramente nella terra dell’oblio. 

Che Omero e Virgilio non si offendano, ma forse un giorno, chi può dirlo, qualcuno parlerà così del calcio che fu in quel ventennio meraviglioso. Di ciò che vinsero i club italiani tra il 1990 e il 2010. Di come non ci fosse semifinale in cui non comparisse almeno una squadra italiana. Di come l’Italia si fece addirittura anatema per le federazioni estere, tanto vincevamo trofei e depredavamo lauti premi in denaro. Per chi ha buona memoria, dalle parti iberiche qualcuno ci chiamò addirittura “parassiti e sanguisughe”, quando nel 2003 portammo ben tre squadre in semifinale di Champions. 
Ma se veramente questo poema verrà prima o poi scritto, così come tradizione vuole, essa sarà prima di tutto una tragedia. Più che la grandezza della vittoria, essa narrerà quella della caduta e della rovina. Per quanto infatti possa essere stata grandiosa un’epoca, essa trova prima o poi la sua fine, per guerra o decadimento.
E in quel 2010, l’Italia conobbe proprio la fine della sua epoca più radiosa, calcisticamente parlando. Conobbe la fine di un’età dell’oro nel vero senso della parola e, come spesso accade in simili casi, come proprio tragedia vuole, la caduta fu pesante e rovinosa. Dolorosa soprattutto perché incompresa e inevitabile.
Gli eroi titanici delle tragedia greche infatti, quasi mai cadevano sconfitti dalla forza bruta o soverchiati da nemici imbattibili. Il sotterfugio, l’inganno, la finezza nascosta dietro un velo, ecco che cosa era in grado di sconfiggerli. Fu proprio una cosa simile a detronizzare l’Italia, e le sue squadre, dal trono d’Europa. Un qualcosa che per alcuni assume proprio le tinte dell’inganno e del sotterfugio, per altri della velata finezza. In realtà, non fu fu né l’una, né l’altra cosa. Ciò che infatti ha portato il sistema Italia a saltare dal precipizio, è stato il non prepararsi adeguatamente a quella che era a tutti gli effetti una rivoluzione, sebbene non percepita in tale maniera. Stiamo parlando del Fair Play Finanziario e del suo modello di regole a sfondo economico-finanziario.
Per quanto molti facciano ancora fatica a comprenderlo, e soprattutto a vederlo come una parte integrante del sistema calcio, esso è in realtà la sua spina dorsale. Il FPF infatti è l’insieme di regole che dice CHI e PERCHE’ può partecipare alle competizioni europee. Certifica insomma le caratteristiche che devono avere le società professionistiche, i club che anelano partecipare ai ricchi tornei indetti dalla UEFA. Non una cosa da poco, se si pensa che, nel momento in cui fu ideato dall’amministrazione Platini, il Fair Play Finanziario portava un concetto di gestione poco noto, se non completamente estraneo, nel calcio dell’epoca

Or ti racconto come la tempesta giunse silenziosa, fra raggi di sol luminosi e calde brezze estive. Or ti narro quanto profondo è l’oblio, in cui gli eserciti e i loro signori caddero ignavi. 

Il calcio si è trasformato più e più volte, nel corso della sua storia. Un tempo, i club erano niente più che associazioni sportive, viste da un punto di vista legale come niente più di una società no-profit, simile a quelle di teatro o spettacolo. Venne poi l’epoca dei Berlusconi e Moratti (figli), dove i club si tramutarono in aziende vere e proprie, con quote, azioni, soci e profitti. L’epoca della Sentenza Bosman e dei primi procuratori sportivi. L’epoca in cui vinceva chi aveva la proprietà più ricca, chi aveva il presidente disposto a cacciare il grano per una squadra zeppa di top player. Di bilanci e break-even al tempo nemmeno se ne parlava. Lo sanno bene i tifosi che sono cresciuti sotto l’egida di Berlusconi, i cui titoli sono talmente tanti che sono difficili da contare. Lo ricordano alla perfezione i supporter nerazzurri, che dal miliardo speso da Moratti in un quinquennio videro sorgere le basi del grande triplete. E’ proprio qui che il Fair Play Finanziario ha colpito in maniera più subdola. Concependo i club come aziende a tutti gli effetti, li ha costrette a sottomettersi alle rigide dinamiche del bilancio. Ed è per questo che si fa fatica a digerire.
L’Italia non è decaduta, o il suo campionato, perché il suo livello tecnico è crollato. Questa è solo una conseguenza della causa reale, ovvero l’aver snobbato questo grande cambiamento, mentre altre federazioni si stavano preparando rinforzando i propri business collaterali. I Berlusconi e i Moratti non furono costretti a vendere perché non più disposti a spendere, o almeno non solo. Essi dovettero cedere le loro grandiose società, perché costretti da un concetto di gestione sportivo-aziendale troppo diversa, soprattutto da quella che veniva richiesta dal Fair Play Finanziario. Basterebbe dare un’occhiata ai bilanci delle due società, al momento della cessione, per comprenderlo. Situazione debitoria esagerata e conti in profondo rosso. Perché? Perché una volta si poteva, ma ora non più. Il Fair Play Finanziario non ha cambiato solo le regole, ha cambiato un vero e proprio modo d’intendere il sistema calcio. Nel bene o nel male, ha portato un trasformazione radicale che ancora oggi viene più subita, che perpetrata dai club. Guarda caso, sono le squadre più piccole o con un passato meno glorioso ad essersi adeguate in fretta al nuovo sistema. Questo in quanto esse già vivevano di gestione oculata, anche quando era possibile far man bassa dei conti, come se non ci fosse un domani. Ma un domani invece c’è stato, eccome. Un “domani” che era sempre troppo lontano nelle teste di chi doveva prendere provvedimenti. Così caddero i titani. Perché incapaci di pensare diversamente. Per quanto triste, la verità è pur sempre verità. 

Impara da color che di stenti vivono, perché la necessità è loro maestra e la ricchezza non ha significato. Codesti costruiscono il loro destino sulla pietra, la cui durezza è superiore a quella dell'oro.

A dieci anni dalla sua invenzione, possiamo dire di vivere oramai in un’epoca Post Fair Play Finanziario. Il 2010, anno del Triplete dell’Inter e ultima coppa internazionale giunta in Italia, è stato una sorta di anno zero che ha separato due epoche ben distinte. Il problema è che, a distanza di dieci anni, i club italiani si trovano ancora in alto mare, Juventus e poche altre a parte (anche se non di troppo). Non si tratta di semplici difficoltà di bilancio. Il problema è ancora una volta culturale, nella difficoltà di cambiare mentalità, di abbandonare per un istante i ricordi delle grandi vittorie. Per questo odiamo tanto il Fair Play Finanziario. Odiamo tutto ciò che cerca di obbligarci al cambiamento, soprattutto se radicale. Lo odiamo perché non lo volevamo, ma lo abbiamo subito. Niente è più brutto, di una necessità indesiderata. Perché per quanto possiamo mentire a noi stessi, il Fair Play Finanziario è stato una necessità, sebbene si possa discutere all'infinito per come oggi venga gestito. Quando le sue logiche saranno le nostre, forse allora quella tanto agognata età dell'oro potrà tornare. 

Così lunga è la via di colui che cerca di tornare.