Siamo sicuri che il calcio sia guarito? La ripartenza ci ha restituito un calcio più imprevedibile, ma forse meno godibile. E che impatto ha l’assenza di pubblico sulle prestazioni e sui risultati?

Uno dei tanti milioni di organismi travolti dalla pandemia è stato il calcio che, forse più fortunato e robusto di altri (oltre che più attrezzato da un punto di vista finanziario), è guarito sì, anche se non del tutto, ma il colpo subito è stato forte, le sue ripercussioni sono evidenti, tuttavia il loro impatto nonché la loro durata sono ancora tutti da decifrare.

PRIMI SINTOMI. Il primo impatto del Covid-19 sul calcio è legato a partite traumatiche coincidenti - come hanno ricordato medici ed epidemiologi - con vere «bombe biologiche», fattori di diffusione-moltiplicazione del contagio: su tutte, Atalanta-Valencia 4-1 a San Siro (19 febbraio) e Liverpool-Atletico Madrid 2-3 (11 marzo). La prima ha assunto i tratti epici per una città, Bergamo, che più di tutte in Italia è stata falcidiata dal virus e che nell’ascesa europea della sua squadra ha ritrovato forza, stimoli, speranza per rinascere. La seconda è il simbolo del vero scoppio della pandemia in Inghilterra, quando ancora il calcio veniva considerato “a basso rischio”. Oltre ad essere state le porte d’ingresso attraverso cui il virus si è insinuato nel calcio, questi due match segnano anche il discrimine tra calcio con e senza pubblico.

LOCKDOWN E RIPARTENZA. Appare subito chiaro che l’unico modo per frenare il contagio è assicurare un totale distanziamento. Il mondo si ferma. Scattano i primi lockdown a macchia di leopardo in tutti i Paesi: chiudono le scuole, gli uffici, le palestre, i confini tra gli stati. Anche il calcio si ferma, non succedeva dal 1915. Gli stadi chiudono i cancelli. Restano in essere solo le attività essenziali. Già essenziali. Ma essenziale lo è a modo suo anche il calcio. Non a caso in questi mesi vengono mandate in loop le partite della cavalcata trionfale dell’Italia del 2006; sui social i giocatori si inventano tornei virtuali per tenersi impegnati e per impegnare i propri tifosi; i cori da stadio si trasferiscono dagli spalti alle corsie degli ospedali: da brividi il “you will never walk alone” intonato in un ospedale olandese per ringraziare medici e infermieri confinati nel reparto anti-Covid. Nel frattempo, i vertici del calcio italiano ed europeo lavorano alla ripartenza: calcolano i danni e i mancati introiti, negoziano con i governi locali e con l’Unione Europea i protocolli sanitari e, con Campionato Europeo ormai rinviato all’anno dopo, stilano un calendario per portare a termine i campionati nazionali e le coppe europee. Alla fine il calcio riparte.

RIPERCUSSIONI. Il calcio è guarito, ma è ancora convalescente. La compressione tra la fine della stagione scorsa e l’inizio della nuova ha impedito una preparazione atletica e tattica adeguata, i ridotti introiti delle società hanno dato vita a due sessioni di calciomercato mai così povere, i contagi hanno costretto molte squadre a giocare ogni tre giorni con un organico limitato. Di qui le prestazioni altalenanti di quasi tutte le squadre, i punteggi tennistici in un campionato italiano poco abituato a certi risultati (Napoli-Genoa 6-0), le cadute rovinose del City (battuto 2-5 dal Leicester) e del Liverpool (sconfitto a Birmingham per 7 a 2). Calendario, preparazione atletica precaria, rose decimate (tra infortuni e contagi) e assenza di pubblico ci hanno restituito un calcio diverso, forse più divertente sul piano del punteggio e più avvincente sul piano della competizione, ma sicuramente più povero sotto il profilo agonistico, tecnico e, visto che anche l’occhio vuole la sua parte, estetico. Uno dei fattori determinanti è proprio l’assenza di pubblico sugli spalti. E il calcio è sin dai suoi albori inestricabilmente legato alla sua gente. Lo dimostrano alcune testimonianze del calcio inglese e spagnolo.

In “The English Game”, serie Netflix ambientata nell’Inghilterra dell’'800 che ripercorre la nascita del calcio professionistico, si narra la storica finale di FA Cup tra Old Etonians (squadra aristocratica) e Darwen (squadra operaia). La partita però rischia di saltare per mancanza di fondi. La gente di Darwen allora mette su quello che oggi definiremmo un fan club, le cui quote associative vengono usate per finanziare il viaggio della squadra. In Spagna, all’Ippodromo di Madrid, il 13 maggio 1902, il primo Clásico ha tratti da quadro impressionista, coi duemila spettatori sistemati sulle sedie noleggiate da un commerciante del mitico mercatino del Rastro. E cosa sarebbe il calcio senza quei luoghi che col tempo sono diventati i templi del calcio stesso?  Senza il miédo escenico (la «paura da palcoscenico») del Bernabeu o la soggezione visivo-sonora di Anfield? Oggi, nel calcio ai tempi del Covid, il fattore campo non esiste più (non a caso le vittorie casalinghe si sono ridotte drasticamente), si ha l’impressione di giocare in campo neutro. E questo ha con ogni probabilità un effetto sulla psiche dei giocatori. Ci sono calciatori, i più inesperti o i più fragili sotto il profilo mentale, che ne hanno beneficiato. La paura del giudizio del pubblico viene meno con l’assenza del pubblico stesso e quindi riescono a giocare a mente libera e ad esprimersi meglio. Dall’altro lato ci sono giocatori che sono veri e propri animali da palcoscenico. Quelli che si nutrono tanto dell’amore dei propri tifosi, cui rispondono con giocate sublimi, quanto del vilipendio della tifoseria avversaria, cui rispondono irridendo e provocando gli avversari. Lo stadio diventa un’arena e loro ne sono i gladiatori. Oggi l’arena si è trasformata in un campetto di oratorio e gli atleti-gladiatori sono stati privati della loro comunione emotiva con il pubblico, fonte di energia fisica e mentale.
L’industria del calcio (campionati e coppe) deve andare avanti, per difendere interessi multipli (delle società in quanto aziende, degli sponsor, delle tv, etc.). Tuttavia ogni notizia di un atleta positivo al test (o di più atleti) semina incertezza, paura, confusione (oltre che polemiche); le prestazioni e i risultati, per le ragioni sopra indicate, ne risentono e se non si può parlare di campionati falsati in assenza di controprova, non possiamo neanche affermare con certezza il contrario; e il valore estetico e agonistico del calcio, inficiato dall’assenza di pubblico, è sotto gli occhi di tutti.
Si guarda al futuro però con ottimismo. Il presidente Gravina prevede un campionato europeo con il pubblico (almeno per le 4 gare che si disputeranno in Italia). È un povero illuso? Se guardiamo agli Open di Australia verrebbe da dire di no.

Il calcio è guarito sì, ma la convalescenza è ancora lunga e i tempi di recupero dipendono da molteplici fattori (l’andamento della curva dei contagi, l’arrivo dei vaccini, l’immunità di gregge…).
Ma una cosa è certa: tutti sopportiamo “il calcio ai tempi del Covid” solo perché sappiamo che, presto o tardi, torneremo ad affollare uno stadio.

Chiara Saccone