Me la ricordo, come non potrei farlo?
Ma c’è, chi più del sottoscritto, l’ha vissuta. Dannata sera.
Il Brasile vive di calcio, offusca ed annebbia le convezioni per assaporare la gioia di calciare la sfera.
Il Brasile mangia, beve con la pelota, lo ha affermato Pelè, il Dio.
Nel paese verdeoro il pallone è una religione, un’essenza platonica per affermare se stessi, uscire da contesti complicati, un riscatto.
E quando gioca la nazionale, ci si stringe intorno ad essa.
Questo è il popolo più attaccato alle proprie radici, fedelissimo alla propria patria, il cui significato traspare dalla passione, dalla logica non ponderata di un amore infinito.
La nazionale è la più alta rappresentazione al mondo intero di cosa vuol dire essere e vivere quella realtà, costituita da povertà, ingiustizia.
Chi compone quell’organico vi è cresciuto. Come chi li osserva lottare per la causa.
Per i brasiliani veder vincere la nazionale è un orgoglio, finisce sul personale più di alcune cause della vita privata.

Pelè vedeva dall’alto i concetti pallonari degli anni 50’. Mamma mia, quanti problemi. Era il Brasile della nullità.
Si viveva per il calcio, non vi era altro per farlo. Opportunità reali non vi erano, crescere e sopravvivere, concedersi qualche svago.
Non diteci che il pallone non è delle persone, è nato e si è sviluppato cosi.
Per qualcuno può essere un semplice svago, sino a diventare un illusione, una maschera da usufruire per nascondere i problemi sociali.
Quelli rimangono, ma il calcio li sconfigge: accade cosi in una terra forgiata per decadi da governi corrotti ed uno sviluppo frammentato, non equilibrato e che spesso ha tagliato fuori, coloro che, ad oggi, cercano la luce in un tunnel ancora troppo obnubilato.
Obnubilato di paure, mancanza di risorse, gestione controversa di esse.

Non dite, nemmeno per scherzo, a questa fascia di popolazione che il calcio è solo un gioco. Sono cresciuti da sempre con l’indole della sfera, è la più grande fonte di divertimento per bambini ed adulti.
Il Brasile è afflitto da disuguaglianze, ma dinanzi alla nazionale si unisce. Solo un semplice gioco può davvero ricompattare 209 milioni di persone? Risposta affermativa con tanto di esclamazione.
Riversarsi nello sport più semplice ed allo stesso tempo complicato non è il timore di non voler affrontare una situazione complicata, bensì è, la scelta di chi si ribella ai poteri forti.
“Noi abbiamo di più, noi siamo di più”. Toglieteci le fonti primarie. Il calcio è l’oppio della popolazione? Si. Davvero possiamo criticare una tale scelta, definirla come insulsa, infantile.

Davvero si può piangere per 22 uomini? Sì.
Vorrei rispondere a coloro che spargono giudizi su ciò. E’ uno stile di vita, come l’ essere ultras. Essere tifoso va ben oltre se ti collochi nella terra Verdeoro.
E’ il riscatto pallonaro. La coesione. E’ il farsi forza l’un altro, il reciproco sentimento, che mai si è provato con tale forza in occasioni differenti, nei confronti delle tue origini, per un qualcosa per cui daresti la vita.
Cosa più del sentimento della gente cresciuta con l’immagine sopra descritta nelle vene non può essere una religione?
La effettiva controprova ad un credo privo di rivali, è nelle immagini dell’ 1-7 subito dalla Germania, nella propria casa, in semifinale del mondiale 2014.
Lacrime sparse al Minerao, stracolmo. Delusione per i mesi avvenire. E poi le scuse di David Luiz alla nazione intera. Immagini difficili da digerire. Un’ umiliazione con connotati per nulla riferibili al passato.
Partite simili sono giornate di lutto nazionale. Si ferma tutto. E’ la dipendenza dal pallone la droga più bella di questo paese, afflitto, forgiato da questioni di portata astronomica.
Calcio inteso come un nuovo inizio, la conclusione d’un era passata.
Perché, se il Brasile, riparte, lo fa dalla sfera. Se il Brasile frena, vi è lei, egualmente di mezzo. Placa spiriti duri. Opprime sofferenza, rende splendenti giornate buie, offuscate.

Piace per la semplicità. La popolazione verdeoro ci ha abituato a lusinghe se in possesso di lei, meraviglie uniche. E’ lo scatto di un input.
Sono devoti, come se essa fosse Allah. Un Dio più grande, una religione. Ammalia, crea luce, riscalda ( metafora che tendo ad utilizzare nei miei racconti più pregiati ) da un fuoco che non si accede ad una fiamma che rende, proclama la sua grandezza attraverso le fiamme che aiutano il calore a cospargersi, infervorare chiunque, salvo poi proclamarsi in gloria.
E’ la cultura del sacrificio a servizio dello sport, virtù nobile, appartenenza.
L’identità del coinvolgimento viscerale attraverso gesta puramente semplici, composte da un’ essenza cosi naturale da spiccare in quanto tale.
Sublimi, a cospargere meraviglie ad occhio nudo. Vederle ed assaporarle è un’esperienza che va vissuta, documentata, raccontare la discendenza dell’inizio è complicato.
A mo' di una fiamma che allargando, riscalda. E’ cosi, che il Brasile, è diventata la Dea del pallone, l’Olimpo dello sport, insieme di piazze leggendarie a plasmare campioni unici, icone, unicum con il loro stile “joga bonito”, nato per le spiagge o nelle favelas, contesti dai quali hanno tratto la loro forza, rendendo l’origine la loro più grande lezione.
Hanno continuato nei palcoscenici più elevati non disdegnando i primi passi. La strada è un contesto che forma. Ore ed ore sotto un sole cocente. Tutti i bambini hanno la brama, illuminati dalla luce dei grandi campi, ammaliati dallo spiccare il volo.
Funziona cosi, la venialità si contagia e si propaga, attraverso la mitigazione del duro lavoro per affermare sè stesso. Ciascuno.
Come i verdeoro praticano questo sport si differenzia da ciascun altra scuola: qua non vi si forma tatticamente, poiché prevale l’istintività della mossa, la quale abbinata alla propensione che emana ardore, forma il binomio perfetto.

E’ l’urlo di chi non ha voce, la scossa di chi non ha elettricità. Questo è il calcio delle favelas. Bello, nitido, terso, pulito, perché con dei valori, quelli che l’effettivo di un semplice pallone deve originare.
Il calcio capitalistico è mutato, ma nasce da qua.
Il calcio capitalistico non esisterà mai. Nasce dalle persone che possiedono dentro l’integrità vergine.
Se abbiamo il futbol moderno, diverso, quasi errato ed ingiusto a tratti, lo dobbiamo a chi, come loro, i brasiliani, lotta e ha la fame, la fa realmente ma la muta su un campo.
Esso verde non è. Non importa, sono dei valori.
E’ la vocazione più potente, trasuda abnegazione, fantasia. L’arte con un colore a disposizione che diviene “ L’urlo di Munch”. Parte dalla tavolozza che insegna, propaga idee, salvo poi concluderle nell’aspirazione delle proprie ambizioni. Prima di arrivare a quell’urlo la strada è lunga.
Questo è il calcio. E’ più di un gioco. L’arte che proclama la sua gloria per dei meriti mai assegnati con blasone, che invece, ne hanno eccome.
Perché, per giungere al dipinto sublime, il colore a disposizione è uno. L’anatroccolo quello brutto, non una discriminante. Per osare: brutto perché fornisce l’apogeo.

Questa è una religione, come lo è il calcio per i brasiliani.
La religione.
Armoniosa, immacolata.
Autentica.