- Ai miei tempi 'ste stronzate non esistevano! Che significa "ex" squadra? Bisogna esultare! - Disse il nonno alzando di scatto il braccio che impugnava il bastone. La sua espressione, più che piena di rabbia, appariva irritata e al tempo stesso arresa al ricordo dei bei tempi andati. In effetti, l'attaccante sembrava cupo in volto, sguardo basso, mano alzata per volersi scusare, come se, invece di segnare, avesse appena sbagliato un gol a porta vuota. I suoi compagni, oramai abituati alla scena, parevano anche loro dimessi, quasi uniti nel dolore dell'uomo, colpevole di aver intristito i tifosi avversari. Il massimo contatto fisico, in quel che sembravano dei festeggiamenti, era qualche colpetto sulla spalla, una mano fra i capelli, tendendo al massimo il braccio ad allungare la distanza fra i corpi e nulla più. I tifosi, tranne quelli impegnati a picchiarsi, esultavano, creando una gigantesca massa umana che s'infrangeva sulle reti di protezione, visibilmente in difficoltà per l'onda d'urto provocata dall'euforia. Poi partivano i cori di scherno verso i tifosi avversari misti alle urla di rabbia contro l'atteggiamento dell'attaccante, reo di non esultare da almeno una ventina di gol. - Nonno! Non è un ex, non gioca contro una sua ex squadra, è da mesi che fa così. - dissi al nonno con fare calmo, senza voler peccare di saccenza. - E perché diamine fa così ogni volta?! - A questo punto il nonno sembrava più innervosito con me che con l'atteggiamento del numero 9. - Ma non lo so, nell'intervista ha detto che gli dispiace. - A lavorare in miniera! E poi vediamo se gli dispiace! - ribatté il nonno in modo autarchico. A quel punto non sapevo mai cosa rispondere. Lasciavo correre. Anche perché intanto la partita era ricominciata e potevo far finta di esser impegnato ad assistere un'inutile rimessa laterale da centrocampo. In passato, avevo già spiegato la questione al nonno, ma la sua memoria ogni tanto perdeva colpi e mi scocciava ripetere nuovamente la storia durante la partita. In effetti, la questione era alquanto complicata. Da tempo era nota l'abitudine di non esultare dopo i gol segnati alle squadre in cui si è militati in passato, ex squadre appunto, per rispetto nei confronti dei tifosi ora avversari ma un tempo sostenitori appassionati, omaggianti di cori ad ogni prestazione positiva. Ci sono stati poi giocatori che dopo il gol rimanevano pietrificati per inventare un'esultanza particolare, differente dalle altre, si fa anche questo per lo spettacolo o per non farsi ammonire per eccesso di esultanza (ne sa qualcosa Mark Bresciano, ex centrocampista col vizio del gol), oppure restavano implacabili e silenziosi per protestare contro la società per un mancato rinnovo o contro l'allenatore che concedeva loro poco spazio. Ma il gesto di alzare la mano a chiedere scusa, prescindendo da ogni motivazione, era un atteggiamento inspiegabile o quantomeno confuso. In fondo era quello il mestiere dell'attaccante, cosa c'è poi di più bello nel calcio se non far gol? Tutto ebbe inizio due anni prima, sul finire del girone di ritorno. Si giocava in trasferta e un suo gol all'ultimo minuto permise alla squadra un bel balzo in classifica e diede contemporaneamente la matematica retrocessione alla squadra avversaria. Era il gol del 4-3, una tripletta, avrebbe portato anche il pallone a casa. Si tolse la maglia, iniziò a correre fino alla bandierina, tutti i compagni, anche quelli in panchina, corsero ad abbracciarlo creando una mischia di corpi come in un'accesa partita di rugby. Poco a poco, i calciatori si staccarono da quell'ammasso deforme di corpi, uscendone fuori mezzo intontito, si rialzò e, dopo aver accettato di buon grado il cartellino giallo dell'arbitro per essersi tolto la maglia, prese visione del dramma che lo circondava. Le lacrime dei giocatori e dei tifosi avversari, dei massaggiatori, dei magazzinieri, anche i cani piangevano in quello stadio. Il dispiacere fu così forte che qualcosa dentro di lui si ruppe, da allora non seppe più festeggiare per un suo gol. La psiche è una cosa delicata, basta poco e ti ritrovi a essere un'altra persona. Durante l'intervista post gara disse che non aveva mai provato un dispiacere simile e che sarebbe stato difficile per lui ritornare a esultare. Tutti pensarono a una frase detta tanto per non inimicarsi troppo il pubblico avversario. Per un goleador come lui che contava una media di oltre 20 gol a campionato nelle ultime tre stagioni, quello fu l'inizio di una lunga agonia. Non esultò neppure durante una partita a porte chiuse, probabilmente per rispetto dei telespettatori e dei radio-spettatori avversari in ascolto. Gli organi di stampa parafrasarono quest'atteggiamento come uno spettacolare esempio di fair play, non si erano mai visti momenti così concilianti con il tifo avversario. Dall'altra parte, i tifosi più incalliti apparirono subito nervosi per i continui gesti irriguardosi verso la maglia indossata. Non potendo più sopportare quella situazione, si riunirono in comitati per decidere il da farsi. Bisognava essere tutti uniti nella gioia e nel dolore, al gol doveva esultare. Dopo ore di riunione si decretò unanimemente che, al successivo gol "infelice" dell'attaccante, avrebbero pianto tutti, nessuno escluso, creando una grande messinscena teatrale dai risvolti shakespeariani. Il motivo era semplice, per superare lo shock ci voleva uno shock uguale e contrario. Roba da manuale di psicologia spiccia. Solo un tifoso volle contestare la decisione, quasi imbarazzato prese la parola e disse: - Ma alla fine segna tanti gol.. a noi che ce ne fotte se festeggia o meno? - Partirono fischi e cori inneggianti il rispetto della maglia, i colori sociali e la mamma del tifoso contestatore. Scuro in volto, il tifoso si sedette nuovamente al suo posto. Per la partita successiva erano tutti pronti a eseguire la loro performance migliore. Era necessario prendere tutto molto seriamente, non bisognava far trapelare una minima espressione d'ironia o di scherno. Tutto doveva essere credibile. Non ci volle tanto ad aspettare il gol dell'attaccante, che con un cross preciso nell'area piccola, complice un'uscita poco fortunata del portiere avversario, insaccò il più facile dei gol. Abbassò la testa e alzò la mano per l'ennesima volta, mentre i compagni fecero solo una smorfia di sorriso, evitandolo per non alterare ulteriormente la sua flebile psiche. Ma nello stadio nessun boato si liberò nell'aria, nessun coro a squarciagola, solo un fastidioso singhiozzio altalenante. L'attaccante, che si era incamminato verso la sua metà campo per permettere così la ripresa del gioco, alzò lo sguardo e si accorse del triste spettacolo sugli spalti. Le gradinate erano il luogo di rappresentazione di un dolore senza fine. In un primo momento rimase confuso, quasi incredulo. Poi cercò di dare una spiegazione razionale al gesto. Infine capì. Applaudì i suoi tifosi e chiese scusa per l'ultima volta nella sua carriera da calciatore. Aveva capito la lezione. Da quel giorno non avrebbe mai più chiesto scusa per un gol. Da quel giorno, non segnò mai più.