Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario»: queste sono parole sbalorditive dello scrittore George Orwell, ma sono anche e soprattutto parole di spaventosa attualità, atte a tratteggiare il volto di una Storia che probabilmente non ha mai cessato di funzionare seguendo meccanismi totalitari del potere e di manipolare menti e soggetti in funzione della (ri)nascita di un nuovo “bipensiero” o, come Orwell stesso lo avrebbe più semplicemente definito, «controllo della realtà». Il regista statunitense Bryan Fogel è reduce da un’avventura – non esclusivamente cinematografica – che lo ha reso estremamente cosciente, sulla sua stessa pelle, di tutto questo, e in particolare di come il presente sia ancora nelle mani di chi controlla (e ha sempre controllato) il passato e i suoi “resti” fattuali, e così sarà anche per il futuro a venire, altrettanto compromesso in una confusione più o meno (in)cosciente tra «sapere e non sapere», tra verità e menzogna, tra dimenticare e richiamare alla memoria e poi, ancora e sempre, dimenticare daccapo.

Nel 2014 Fogel aveva un’idea chiara: avrebbe partecipato con la sua mountain bike alla “Houte Route”, la più incredibile gara per ciclisti amatoriali del mondo e avrebbe dato del suo meglio, senza mai ricorrere a sostanze dopanti. Fogel corse effettivamente quella gara e si piazzò quattordicesimo in mezzo a un gruppo nutrito di “masochisti”. Ma ben presto, e sulla scia di ciò che era capitato al “suo eroe” Lance Armstrong, il suo chiodo fisso divenne un altro: indagare nel sistema dell’antidoping mondiale, capire se e dove fosse la falla, se tutto si riducesse all’imbroglio ben architettato di alcuni o se, come egli già pensava, fosse il risultato di un lavoro ben più possente, che coinvolgesse per primi “i piani alti”. Fogel sapeva, però, che «accuse straordinarie richiedono prove straordinarie»; non poteva bastare una deduzione ricavata da fatti e situazioni altrui, per quanto già notoriamente avvalorati; Fogel, ciclista amatoriale da quasi trent’anni, doveva necessariamente mettere in gioco se stesso, il suo corpo e la sua propria volontà, per giungere a una conclusione perlomeno inconfutabile: doparsi e poi risultare negativo ai test con il supporto del sistema antidoping stesso, per dimostrare la possibilità che ciò possa accadere (e accade) facilmente anche agli atleti.

Il suo documentario-shock si intitola Icarus, già vincitore dello U.S. Documentary Orwell Award al Sundance Film Festival 2017, nonché attuale candidato a miglior documentario per gli Oscars 2018,distribuito da Netflix, che ancora una volta afferma con decisione il suo volere indomito da piattaforma informativa quasi dissidente, attenta al contemporaneo nei suoi molteplici aspetti, specialmente politici ma anche sociologico-culturali. Su Netflix, allora, si potrà rivivere tutto d’un fiato l’esperimento personale/inchiesta di Fogel, che dopo quella fatidica gara avviò un intero programma di doping su di sé, seguìto da vicino – o meglio, via Skype originariamente – dall’allora direttore del laboratorio antidoping di Mosca, l’istrionico Dr. Grigory Rodchenkov. La camera segue inizialmente Fogel durante gli incontri con il medico per le somministrazioni dei primi ormoni (per lo più hGH e testosterone), vediamo le continue iniezioni sul corpo esile, ormai martoriato, e gli allenamenti con il medico fisiologico dello sport, che lo monitora nel suo progressivo autopotenziamento; ma poi, lascia presto spazio al rapporto sempre più intimo che si instaura tra Fogel e Rodchenkov, quest’ultimo sempre più al centro dell’operazione e del film stesso. Il regista passa, dunque, in secondo piano e diventa meramente spalla e portavoce dello scienziato russo al momento dello scandalo che, come spesso accade, giunge come una bomba lanciata dai media – in questo caso, dal documentario Doping confidenziale: come la Russia fabbrica i suoi vincitori, trasmesso in Germania nel 2014 da ARD, e realizzato dal giornalista Hajo Seppelt – , molto più che una provocazione, molto più che un tornado impazzito: ovvero, come la Russia (e il suo Presidente?) ha sempre ingannato il mondo (sportivo).

Che bomba sia, allora: il documentario di Fogel abbandona il suo, pur anche interessante, lavoro individuale per (in)seguire le notizie, le interviste e i fatti stessi successivi all’apertura dell’inchiesta della WADA (World Anti-Doping Agency), affidata alla Commissione Indipendente – capitanata da Dick Pound e condotta da Richard McLaren – , rivolta contro la Federazione russa, e ben presto contro Rodchenkov e le autorità governative stesse, precipitando il tutto in un calderone bollente di politica, “mafia” e criminalità, dove lo sport in fondo sembrerebbe solo un pretesto per dire altro, per esternare una strana, ma comune, consapevolezza oscura sulla Russia e sui suoi gerarchi. 
Insabbiamenti, campioni di urine distrutti in laboratorio, mazzette pagate per occultare i test risultati positivi; e tutto questo fin da sempre, sistematicamente, con l’ombra di Pechino, di Londra, di Sochi ad abbuiare l’immagine d’oro dell’impero-Putin e della sua Federazione sportiva vincente “a tutti i costi”. Il documentario di Fogel diventa storia di spionaggio internazionale, dove il protagonista assoluto è Rodchenkov stesso e la sua verità su un Paese corrotto, e dove la nuova missione sarà – per tutti i coinvolti – sopravvivere: «Attento a quello che stai filmando, è vietato come la pornografia e i film erotici!», dirà non a caso lo scienziato all’operatore silenzioso di Fogel, scherzando sì, ma non troppo.